Skip to main content

L’economia di mercato viene celebrata ogni giorno dai mass media secondo precise ritualità che ricordano da vicino le funzioni religiose dei tempi passati. Il discorso economico, banalizzato e semplificato, è diventato parte del discorso quotidiano del popolo, elemento portante della comunicazione politica, riferimento centrale di ogni tentativo di giudicare il passato e di guardare al futuro. Il mercato è diventato l’ineffabile dio che governa le sorti delle società, delle persone e delle nazioni. Questa rappresentazione rituale ci dice assai di più sulla natura e la possibile evoluzione della società di quanto possano dire i numeri, gli indici e gli indicatori, sui quali il discorso economico diventato scienza e quindi volgarizzato vorrebbe fondarsi.
Nessuno sembra più ricordare che il ragionamento economico si fonda su una serie di assunti, di presupposti taciti e di ipotesi che rappresentano solo una sezione di realtà osservata da una particolare prospettiva. Ed è proprio il riconoscimento pubblico di questi fondamenti che fa dell’economia stessa una disciplina, che può dirsi a buon diritto scientifica poiché aperta alla pubblica discussione.
Osservato da un punto di vista sociologico il sistema denominato ‘economia di mercato’ è semplicemente un’istituzione, ovvero un complesso di valori, norme, consuetudini, che definiscono e regolano durevolmente, i rapporti sociali e i comportamenti reciproci di soggetti la cui attività è volta a conseguire un fine socialmente rilevante. In quanto tale, anche il mercato è qualcosa che nasce nella società e si fonda su dei valori comuni condivisi.

L’economia, che al suo nascere si poneva come disciplina morale, connessa alla politica e all’etica, è andata specializzandosi per diventare una sfera autoreferenziale che funziona in base a implacabili regole interne. Essa si fonda su ‘valori’ quali l’efficienza, il profitto, la crescita a ogni costo, la competizione esasperata, che hanno  finito per scollegarla e metterla in contrapposizione con altri valori che riconosciamo ancora come fondativi del vivere civile. Con le parole più precise dell’economista David Korten:

“Non esiste espressione più forte per i valori di una società delle sue istituzioni economiche. Nel nostro caso abbiamo creato un’economia che stima il denaro al di sopra di tutto il resto, accetta la disuguaglianza come se fosse una virtù ed è spietatamente distruttiva nei confronti della vita”.

Questo meccanismo autoreferenziale, che per funzionare deve costantemente crescere e ampliare i propri confini sembra, oggi più che mai, sfuggito di mano, con conseguenze che rischiano di essere gravissime: sta inesorabilmente distruggendo i beni ambientali, i beni pubblici e i beni comuni, cioè quel capitale sociale immateriale che è necessario al suo stesso funzionamento. Tale rischio era già stato mirabilmente descritto da Adam Smith, uno dei padri dell’economia moderna, eletto a campione delle varie forme di liberismo e fonte inesauribile di citazioni.  Siamo nel 1774 ma l’analisi riportata ne “L’economia dei sentimenti conserva ancora oggi tutta sua attualità :

“Tutti i membri della società umana hanno bisogno di reciproca assistenza, e, allo stesso modo, sono esposti a reciproche offese. Quando la necessaria assistenza è reciprocamente offerta dall’amore, dalla gratitudine, dall’amicizia e dalla stima, la società fiorisce ed è felice. […] La beneficenza, dunque è meno essenziale della giustizia all’esistenza della società. La società può sussistere, anche se non nel suo stato più confortevole, senza beneficienza; ma il prevalere dell’ingiustizia non può che distruggerla completamente”.

Un mercato sano, fondato su una sana concorrenza, può prosperare solo all’interno di un contesto caratterizzato dalla giustizia sociale e dalla presenza di un adeguato stock di beni comuni. Solo all’interno di un contesto caratterizzato da regole chiare e da attori auto-interessati, ma ragionevolmente virtuosi, il mercato può esprimere tutto il suo valore positivo. Solo in un tale ambiente trova fondamento e significato la più celebre citazione di Adam Smith:

“Non è dalla benevolenza del macellaio, del birraio o del panettiere che ci aspettiamo la nostra cena, ma dalla loro considerazione del loro stesso interesse”.

E sempre Smith ci rammenta con due secoli e mezzo di anticipo i limiti e l’impotenza del consumatore ormai condizionato:

“Il clamore e i sofismi dei mercati e dei produttori persuade facilmente il popolo che gli interessi privati di una parte, e di una parte subordinata della società siano l’interesse generale di tutti”.

Il mercato, elemento quasi mitico dell’attuale economia, è un’istituzione meravigliosa e potente, ma per funzionare bene deve essere regolato in modo trasparente, in modo tale che nel suo funzionare non distrugga i beni comuni, indispensabili all’esistenza della società entro cui agiscono le forze economiche. Fiducia e reciprocità sono indispensabili per far funzionare gli scambi e le relazioni tra le persone. Giustizia e beni collettivi non sono dunque intralci al libero mercato, limitazioni che ne impediscono il buon funzionamento. Al contrario, costituiscono la base, in assenza della quale l’intero sistema è destinato a corrompersi e a implodere. Senza la prospettiva del bene comune l’economia perde ogni orientamento e ogni umana direzione; senza l’idea di reciprocità – che non è riducibile al mero utilitarismo – ogni persona perde la speranza; senza una base profonda di cooperazione e fiducia la competizione economica diventa semplicemente distruttiva; senza giustizia e con l’unico fondamento della fiducia del consumatore, il mercato non può espletare compiutamente la sua funzione positiva.

Oltre che produttiva la buona economia deve piuttosto diventare generativa: deve creare valore, ma deve anche contribuire a generare fiducia e inclusione sociale, deve riconoscere e controllare le esternalità che produce nel breve e nel lungo periodo. Se, al contrario, il sistema economico diventato rapace distrugge sistematicamente le risorse ambientali e relazionali, chi le potrà riprodurre? La politica travolta dagli scandali forse? La famiglia? Le comunità locali? Le istituzioni educative ormai ridotte a una branca del mercato stesso? Il pubblico ormai assoggettato ai poteri della finanza internazionale?
Non vi è dubbio che un sano ragionare economico debba essere, prima che tecnicismo specialistico, chiaro ragionamento sociale e morale. E dietro a questo buon ragionare non si può non vedere un’immagine dell’uomo, della società e dei suoi valori non più riducibili al mero dogma della crescita e all’imperativo del consumo forzoso. Se ancora si vive in una democrazia urge recuperare anche la valenza positiva della cittadinanza rispetto a quella del consumo, la dimensione della responsabilità civile e della convivialità rispetto a quella della concorrenza fine a se stessa, l’ambito delle virtù umane e civili rispetto a quello dei pur indispensabili diritti, la qualità dei prodotti e dei servizi rispetto alla pervasività incontrollata dei flussi finanziari. 

tag:

Bruno Vigilio Turra

È sociologo laureato a Trento. Per lavoro e per passione è consulente strategico e valutatore di piani, programmi e progetti; è stato partner di imprese di ricerca e consulenza e segretario della Associazione italiana di valutazione. A Bolzano ha avuto la fortuna di sviluppare il primo progetto di miglioramento organizzativo di una Procura della Repubblica in Italia. Attualmente libero professionista è particolarmente interessato alle dinamiche di apprendimento, all’innovazione sociale, alle nuove tecnologie e al loro impatto sulla società. Lavora in tutta Italia e per scelta vive tra Ferrara e le Dolomiti trentine.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

Caro lettore

Dopo molti mesi di pensieri, ripensamenti, idee luminose e amletici dubbi, quello che vi trovate sotto gli occhi è il Nuovo Periscopio. Molto, forse troppo ardito, colorato, anticonvenzionale, diverso da tutti gli altri media in circolazione, in edicola o sul web.

Se già frequentate  queste pagine, se vi piace o almeno vi incuriosisce Periscopio, la sua nuova veste grafica e i nuovi contenuti vi faranno saltare di gioia. Non esiste in natura un quotidiano online con il coraggio e/o l’incoscienza di criticare e capovolgere l’impostazione classica di questo “il giornale” un’idea (geniale) nata 270 anni fa, ma che ha introdotto  dei codici precisi rimasti quasi inalterati. Nemmeno la rivoluzione digitale, la democrazia informava, la nascita della Rete, l’esplosione dei social media, hanno cambiato di molto le testate giornalistiche, il loro ordine, la loro noia.

Tanto che qualcuno si è chiesto se ancora servono, se hanno ancora un ruolo e un senso i quotidiani.  Arrivano sempre “dopo la notizia”, mettono tutti lo stesso titolo in prima pagina, seguono diligentemente il pensiero unico e il potente di turno, ricalcano in fotocopia le solite sezioni interne: politica interna, esteri, cronaca, economia, sport…. Anche le parole sembrano piene di polvere, perché il linguaggio giornalistico, invece di arricchirsi, si è impoverito.  Il vocabolario dei quotidiani registra e riproduce quello del sottobosco politico e della chiacchiera televisiva, oppure insegue inutilmente la grande nuvola confusa del web.

Periscopio propone un nuovo modo di essere giornale, di fare informazione. di accostare Alto e Basso, di rapportarsi al proprio pubblico. Rompe compartimenti stagni delle sezioni tradizionali di quotidiani. Accoglie e dà riconosce uguale dignità a tutti i generi e tutti linguaggi: così in primo piano ci può essere una notizia, un commento, ma anche una poesia o una vignetta.  Abbandona la rincorsa allo scoop, all’intervista esclusiva, alla firma illustre, proponendo quella che abbiamo chiamato “informazione verticale”: entrare cioè nelle  “cose che accadono fuori e dentro di noi”, denunciare Il Vecchio che resiste e raccontare Il Nuovo che germoglia, stare dalla parte dei diritti e denunciare la diseguaglianza che cresce in Italia e nel mondo. .

Con il quotidiano di ieri, così si diceva, oggi ci si incarta il pesce. Non Periscopio, la sua “informazione verticale” non invecchia mai e dal nostro archivio di quasi 50.000 articoli (disponibile gratuitamente) si pescano continuamente contenuti utili per integrare le ultime notizie uscite. Non troverete mai, come succede in quasi tutti i quotidiani on line,  le prime tre righe dell’articolo in chiaro… e una piccola tassa per poter leggere tutto il resto.

Sembra una frase retorica ma non lo è: “Periscopio è un giornale senza padrini e senza padroni”. Siamo orgogliosamente antifascisti, pacifisti, nonviolenti, femministi, ambientalisti. Crediamo nella Sinistra (anche se la Sinistra non crede più a se stessa), ma non apparteniamo a nessuna casa politica, non fiancheggiamo nessun partito e nessun leader. Anzi, diffidiamo dei leader e dei capipopolo, perfino degli eroi. Non ci piacciono i muri, quelli materiali come  quelli immateriali, frutto del pregiudizio e dell’egoismo. Ci piace “il popolo” (quello scritto in Costituzione) e vorremmo cancellare “la nazione”, premessa di ogni guerra e  di ogni violenza.

Periscopio è quindi un giornale popolare, non nazionalpopolare. Un quotidiano “generalista”,  scritto per essere letto da tutti (“quelli che hanno letto milioni di libri o che non sanno nemmeno parlare” F. De Gregori), da tutti quelli che coltivano la curiosità, e non dalle elites, dai circoli degli addetti ai lavori, dagli intellettuali del vuoto e della chiacchiera.

Periscopio è  proprietà di un azionariato diffuso e partecipato, garanzia di una gestitone collettiva e democratica del quotidiano. Si finanzia, quindi vive, grazie ai liberi contributi dei suoi lettori amici e sostenitori. Accetta e ospita sponsor ed inserzionisti solo socialmente, eticamente e culturalmente meritevoli.

Nato quasi otto anni fa con il nome Ferraraitalia già con una vocazione glocal, oggi il quotidiano è diventato: Periscopio naviga già in mare aperto, rivolgendosi a un pubblico nazionale e non solo. Non ci dimentichiamo però di Ferrara, la città che ospita la redazione e dove ogni giorno si fabbrica il giornale. e Ferraraitalia continua a vivere dentro Periscopio all’interno di una sezione speciale, una parte importante del tutto. 
Oggi Periscopio ha oltre 320.000 lettori, ma vogliamo crescere e farsi conoscere. Dipenderà da chi lo scrive ma soprattutto da chi lo legge e lo condivide con chi ancora non lo conosce. Per una volta, stare nella stessa barca può essere una avventura affascinante.  Buona navigazione a tutti.

Tutti i contenuti di Periscopio, salvo espressa indicazione, sono free. Possono essere liberamente stampati, diffusi e ripubblicati, indicando fonte, autore e data di pubblicazione su questo quotidiano.

Francesco Monini
direttore responsabile


Chi volesse chiedere informazioni sul nuovo progetto editoriale, può scrivere a: direttore@periscopionline.it