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Il razzismo oggi si fonda essenzialmente sulla paura. Ad alimentarlo è, letteralmente, l’ignoranza. Perché ciò che non si conosce in genere spaventa. Lo straniero ci allarma, le sue convinzioni mettono in crisi le nostre certezze, la sua sola presenza genera insicurezza poiché l’alterità dell’universo di senso di cui egli è espressione viva, sovverte i nostri punti fermi. L’immigrato è rifiutato prima di tutto (anche se inconsapevolmente) in quanto portatore di valori e abitudini differenti dalle nostre, in senso generale di una cultura verso la quale tendenzialmente non si nutre curiosità ma solo diffidenza. Ed è considerato da molti esclusivamente come portatore di miseria e disperazione.
Nel razzismo attuale, lo squilibrio fra gli attori del conflitto vede noi occidentali come soggetto forte e l’immigrato-intruso come anello debole.

Il razzismo prossimo venturo verosimilmente non cancellerà la dinamica presente ma si sommerà ad esso su un binario parallelo e sarà generato dall’invidia. Resisterà la nostra intolleranza verso coloro che consideriamo ‘derelitti’, ma al contempo svilupperemo verso gli i ricchi stranieri la sindrome delle vittime.
Il mondo che a noi appare in crisi, come spiegano gli osservatori più attenti, in realtà è solo quello occidentale, non l’intero globo terrestre. Paesi come Cina, India, Brasile, Arabia Saudita, Sudafrica, un tempo considerati ‘terzo mondo’ e poi bonariamente elevati al rango di ‘emergenti’ sono ora le nuove locomotive dello sviluppo. Lì il Pil segna un trend costantemente positivo, spesso a doppia cifra.
Il gap un tempo a loro svantaggio si sta via via colmando e i piatti della bilancia si stanno ribaltando. Lo storico rapporto fra dominanti e dominati si capovolge. E i ricchi di ieri stanno precipitando in un ruolo subalterno. In un futuro prossimo, i nuovi ricchi avranno gli occhi a mandorla o la pelle olivastra.
Segnali significativi sono, ad esempio, le nostre aziende che via via cambiano padrone, come è di recente accaduto con Pirelli comperata dai cinesi o Alitalia acquistata dagli arabi. Persino le nostre più gloriose squadre di calcio cedono lo scettro a signori di altri continenti: hanno fatto clamore i casi di Inter e Milan, con i nuovi magnati che arrivano dall’Indonesia e dalla Cina.
In particolare i cinesi, un tempo derisi perché dediti nelle nostre città a commerci residuali, stanno oggi espandendo la loro influenza su molti segmenti dell’economia. E nelle città vediamo che il loro prodigarsi, anche a livello commerciale, si amplia progressivamente dalla ristorazione ai bar, a punti-vendita sempre più forniti di una gamma merceologica vasta e competitiva. Non sono più i poveri bottegai che l’immaginario collettivo ha per molti anni tratteggiato. E sono presenti nella finanza, come nell’edilizia.
Già ora in città simbolo quali Roma e Milano ci si imbatte sempre più di frequente in uomini d’affari che arrivano dal lontano oriente. Nel ribaltamento delle parti  il futuro ci riserverà una nuova modulazione del razzismo, originata dalla frustrazione: effetto di quella che molti fra noi vivranno come insostenibile sudditanza al cospetto dei nuovi padroni del mondo.

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Sergio Gessi

Sergio Gessi (direttore responsabile), tentato dalla carriera in magistratura, ha optato per giornalismo e insegnamento (ora Etica della comunicazione a Unife): spara comunque giudizi, ma non sentenzia… A 7 anni già si industriava con la sua Olivetti, da allora non ha più smesso. Professionista dal ’93, ha scritto e diretto troppo: forse ha stancato, ma non è stanco! Ha fondato Ferraraitalia e Siti, quotidiano online dell’Associazione beni italiani patrimonio mondiale Unesco. Con incipiente senile nostalgia ricorda, fra gli altri, Ferrara & Ferrara, lo Spallino, Cambiare, l’Unità, il manifesto, Avvenimenti, la Nuova Venezia, la Cronaca di Verona, Portici, Econerre, Italia 7, Gambero Rosso, Luci della città e tutti i compagni di strada

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

Caro lettore

Dopo molti mesi di pensieri, ripensamenti, idee luminose e amletici dubbi, quello che vi trovate sotto gli occhi è il Nuovo Periscopio. Molto, forse troppo ardito, colorato, anticonvenzionale, diverso da tutti gli altri media in circolazione, in edicola o sul web.

Se già frequentate  queste pagine, se vi piace o almeno vi incuriosisce Periscopio, la sua nuova veste grafica e i nuovi contenuti vi faranno saltare di gioia. Non esiste in natura un quotidiano online con il coraggio e/o l’incoscienza di criticare e capovolgere l’impostazione classica di questo “il giornale” un’idea (geniale) nata 270 anni fa, ma che ha introdotto  dei codici precisi rimasti quasi inalterati. Nemmeno la rivoluzione digitale, la democrazia informava, la nascita della Rete, l’esplosione dei social media, hanno cambiato di molto le testate giornalistiche, il loro ordine, la loro noia.

Tanto che qualcuno si è chiesto se ancora servono, se hanno ancora un ruolo e un senso i quotidiani.  Arrivano sempre “dopo la notizia”, mettono tutti lo stesso titolo in prima pagina, seguono diligentemente il pensiero unico e il potente di turno, ricalcano in fotocopia le solite sezioni interne: politica interna, esteri, cronaca, economia, sport…. Anche le parole sembrano piene di polvere, perché il linguaggio giornalistico, invece di arricchirsi, si è impoverito.  Il vocabolario dei quotidiani registra e riproduce quello del sottobosco politico e della chiacchiera televisiva, oppure insegue inutilmente la grande nuvola confusa del web.

Periscopio propone un nuovo modo di essere giornale, di fare informazione. di accostare Alto e Basso, di rapportarsi al proprio pubblico. Rompe compartimenti stagni delle sezioni tradizionali di quotidiani. Accoglie e dà riconosce uguale dignità a tutti i generi e tutti linguaggi: così in primo piano ci può essere una notizia, un commento, ma anche una poesia o una vignetta.  Abbandona la rincorsa allo scoop, all’intervista esclusiva, alla firma illustre, proponendo quella che abbiamo chiamato “informazione verticale”: entrare cioè nelle  “cose che accadono fuori e dentro di noi”, denunciare Il Vecchio che resiste e raccontare Il Nuovo che germoglia, stare dalla parte dei diritti e denunciare la diseguaglianza che cresce in Italia e nel mondo. .

Con il quotidiano di ieri, così si diceva, oggi ci si incarta il pesce. Non Periscopio, la sua “informazione verticale” non invecchia mai e dal nostro archivio di quasi 50.000 articoli (disponibile gratuitamente) si pescano continuamente contenuti utili per integrare le ultime notizie uscite. Non troverete mai, come succede in quasi tutti i quotidiani on line,  le prime tre righe dell’articolo in chiaro… e una piccola tassa per poter leggere tutto il resto.

Sembra una frase retorica ma non lo è: “Periscopio è un giornale senza padrini e senza padroni”. Siamo orgogliosamente antifascisti, pacifisti, nonviolenti, femministi, ambientalisti. Crediamo nella Sinistra (anche se la Sinistra non crede più a se stessa), ma non apparteniamo a nessuna casa politica, non fiancheggiamo nessun partito e nessun leader. Anzi, diffidiamo dei leader e dei capipopolo, perfino degli eroi. Non ci piacciono i muri, quelli materiali come  quelli immateriali, frutto del pregiudizio e dell’egoismo. Ci piace “il popolo” (quello scritto in Costituzione) e vorremmo cancellare “la nazione”, premessa di ogni guerra e  di ogni violenza.

Periscopio è quindi un giornale popolare, non nazionalpopolare. Un quotidiano “generalista”,  scritto per essere letto da tutti (“quelli che hanno letto milioni di libri o che non sanno nemmeno parlare” F. De Gregori), da tutti quelli che coltivano la curiosità, e non dalle elites, dai circoli degli addetti ai lavori, dagli intellettuali del vuoto e della chiacchiera.

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