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Non chiederci la parola che squadri da ogni lato/ l’animo nostro informe – Eugenio Montale
Sarà l’età che avanza, sarà l’eco ancora strepitosa della bellissima conferenza di ieri tenuta da Stefano Prandi su Ennio Flaiano per il ciclo “Italiani brava gente. Rileggere il carattere degli italiani”, organizzato dall’Istituto Gramsci e dall’Istituto di storia contemporanea, ma la condizione del nostro popolo e di una parte di quest’ultimo, vale a dire quella dei vecchi, mi spinge a riflettere su certe cadute linguistiche e quindi anche culturali che sembrano essere d’uso comune proprio nella comunicazione.

Prandi riferiva ieri di una parola assai comune letta in un giornale cittadino e scritta con un grosso errore ortografico. Oggi un conduttore di una rete televisiva cittadina nel commentare la prossima settimana alti studi dell’Istituto di studi rinascimentali, vedendo scritto Duerer al posto di Dürer, ha proprio letto Duerer! Non è che le notizie fornite in quel servizio fossero di per sé eclatanti ma, quando vengono fornite in quel modo, riconosci comunque che il carattere degli italiani non cambia: disprezzo o meglio ignoranza per le regole grammaticali, per la forma, per le lingue. Sommo rispetto invece per qualcosa che poi si trasforma in “politichese”: frasi fatte, metafore, simboli, oltre all’ignoranza patologica delle lingue straniere.

E, si badi, non è il dialetto la causa prima di questa faciloneria linguistica ma l’uso della sbrigatività come mezzo utile per arrivare allo scopo. Poi, ed è pensiero comune, tutti debbono capire l’italiano! Sono lontane le radici di questa incuria. Per secoli la nostra lingua ha rappresentato un modello, poi è stata soppiantata da altre: prima il francese e poi l’inglese che hanno strutture linguistiche diversissime che noi tentiamo di riflettere. “E il bicchier mezzo vuoto” e la “sintesi” e tutto l’armamentario di una lingua che fa finta di essere informata e che poi rigetta per indigestione le stesse pseudo regole che si è data. Non parliamo poi della lingua scritta nei media come twitter o facebook. Alla fine siamo più affascinati dalla selva di microfoni che “imboccano” il parlante (quasi sempre un politico che di quello che costui sta dicendo; oppure da figure ormai familiari come quella di un signore che si mette la penna in bocca e fa finta di registrare sempre, ossessivamente, presente ovunque si materializzi un politico oppure di un suo gregario, un paffuto giovinetto rossiccio che spalanca la bocca pur di essere ripreso dalle telecamere.

Che pena!

Eppure oggi, svogliatamente, facendo zapping (sì! anche i soloni della lingua fanno certe cose o parlano come i media!) e dovendo riposare gli occhi, mi capita di vedere su una rete dedicata alla musica uno spettacoloso documentario “Casa Verdi” che racconta la vita nella gloriosa casa milanese dove sono ospitati gli artisti che non possono più vivere da soli ma sono protetti dignitosamente.

Una signora, con ancora un filo di voce e con i gioielli rimasti di una forse fastosa carriera, canta “La vergine degli angeli”; altri la guardano e applaudono: volti anonimi comuni che non hanno più nulla dell’eleganza, dell’eroismo, della leggerezza a cui votarono la loro vita.

Eppure meravigliosi, quasi che il contatto diretto con la bellezza avesse lasciato per sempre un segno di nobiltà. Così vorresti abbracciare il cantante che è stato imitato, lui racconta, da Di Stefano, e che, quando lo pensa gli viene “il mal di gola”. Meravigliosa metafora e traduzione da cantante del termine “nodo alla gola”. E la danzatrice di tip tap che sa benissimo per avere sposato un americano che si chiama, in inglese, “step dance” e che quando vede ballare Fred Astaire e Cyd Charisse esclama: “Ora Cyd, poverina” dice Tata Vanoni così si chiama, “è morta”. Ma non lo dice del grande Fred Astaire.

Un’umanità nobile che si rivela fatta di fango ma destinata alle stelle della musica. Della danza, della prosa e di tutto ciò che rende meno triste la vita.

Un medico le accarezza chiede se vogliono risentire ancora Montserat Caballè nel “O mio babbino caro” e tutti dicono di sì chiudono gli occhi o come fa la bellissima arpista strofinano impacciate il sacchetto dei medicinali.

Non credo, e lo penso con tristezza, che quella bellissima Casa Verdi sia mai stata visitata da un comico che si è fatto politico e che mai nella sua espressione più proterva ha saputo esprimere con pari dignità il senso di un mestiere e di un’arte che lo hanno reso famoso.

Così al suo Forrest Gump, al suo declino triste, come quello di chi è solo, le parole hanno deciso per lui.

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Gianni Venturi

Gianni Venturi è ordinario a riposo di Letteratura italiana all’Università di Firenze, presidente dell’edizione nazionale delle opere di Antonio Canova e co-curatore del Centro Studi Bassaniani di Ferrara. Ha insegnato per decenni Dante alla Facoltà di Lettere dell’Università di Firenze. E’ specialista di letteratura rinascimentale, neoclassica e novecentesca. S’interessa soprattutto dei rapporti tra letteratura e arti figurative e della letteratura dei giardini e del paesaggio.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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