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Era gremita la sala del cinema Apollo per la proiezione in anteprima del nuovo film di Ermanno Olmi “Torneranno i prati”, anticipata in videoconferenza da alcune interviste agli attori da parte del critico cinematografico Gianni Canova e da altre clip con interviste al regista stesso, impossibilitato ad essere presente in sala a causa di una lieve malattia che, da qualche giorno, lo costringe in ospedale. Per la stessa ragione, Olmi non ha potuto presenziare martedì alla prima assoluta della sua nuova fatica, alla presenza del ministro Franceschini e del presidente Napolitano.
Sì perché c’era molta attesa per “Torneranno i prati”, film girato sugli altopiani di Asiago interamente sommersi di neve, mettendo in scena una notte dei soldati italiani al fronte e in trincea, durante gli ultimi durissimi combattimenti della prima guerra mondiale nel 1917. Un film ambizioso ma allo stesso tempo essenziale, girato in condizioni reali al limite dell’estremo e ultimato in tempo per le ricorrenze del centenario del primo conflitto. Una trama non costruita, senza una narrativa ben specificata, una storia volta puramente a descrivere, mostrare, una vera e propria “esperienza della memoria” come intende specificare Olmi nella sua intervista, “un modo per ricordare coloro che non hanno più avuto memoria se non tramite le fanfare; non serve ricordare tutti i giorni, basta farlo in maniera corretta”.
Ed ecco che l’intento è pienamente riuscito, la pellicola emoziona e immerge lo spettatore all’interno della trincea rendendolo partecipe di tutte le atrocità che i nostri soldati vissero all’interno di quei luoghi di tortura, un’esperienza sicuramente inedita e particolare, nuova per quanto riguarda la filmografia bellica. Negli occhi degli ottimi protagonisti (tra i quali Claudio Santamaria, Alessandro Sperduti, Francesco Formichetti, Andrea Di Maria), spesso rivolti in camera, si legge tutta la disperazione e la rassegnazione di coloro che erano uomini prima che soldati, inconsapevoli prima di partire per il fronte di quello che avrebbero dovuto passare e della snervante e terrorizzante attesa quale era diventata quella guerra, per la prima volta statica ed immobile, priva di assalti e attacchi di massa. La profonda e interminabile aria di quiete e pace che solo nelle nevose notti in quota si può assaporare, ha tutt’altro sapore quando anche il singolo movimento di una volpe, il fruscio di un larice, la luce di un razzo segnaletico, diventano presagi per un bombardamento, ancora una volta, nuovamente, il timore di perdere la vita.
Tutto ciò Ermanno Olmi riesce a metterlo ben in risalto nel suo lavoro, diretto con la solita maestria anche all’età di ottantatré anni e supportato egregiamente dal figlio Fabio, abile direttore della fotografia e complice sulla scelta della decolorazione della pellicola: quello che apparentemente sembra un bianco e nero è in realtà gioco di luce, ogni particolare significativo viene esaltato e il colore potenziato, in modo tale da far cadere l’occhio di chi guarda esattamente dove dovrebbe cadere nella mente del regista. Anche la scelta dei brani musicali, diretti da Paolo Fresu, è perfetta: pochi ma significativi, poiché è il silenzio che regna e “se il cuore non è felice, non si può fare musica”.
Un film quindi assolutamente ben riuscito e da diffondere per la sua capacità di narrare non una storia ma, al contrario, le vite dei soldati al fronte, il nome dei quali nel film mai viene pronunciato dagli stessi e mai menzionato dagli altri: si diventava numeri, semplici numeri che potevano solamente trasformarsi in gradi militari e in qualche onorificenza. Olmi anche in questo caso ci ricorda l’indegno destino verso il quale milioni di uomini, giorno dopo giorno con sempre più consapevolezza, andavano in contro, ammonendo tutti che “in guerra non esistevano “omini” ma, al contrario, identità che oggi dobbiamo essere in grado di tenere in considerazione. Gli “omini” al massimo sono quelli che comandano”. Il ricordo, quindi, imprescindibile nelle nostre vite e doveroso per rispettare chi ha dato la vita con consapevolezza per donarci quello che oggi abbiamo, venendo inesorabilmente dimenticato sotto la neve in inverno, disteso in un prato in primavera. Torneranno (forse) i prati. Rimanga sempre la memoria.

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Andrea Vincenzi


Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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