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di Alessandro Porcari

Un’antichissima tradizione animata da un allegro esercito di appassionati. Torna a crescere il numero dei campanari in Emilia Romagna. Forza fisica, ritmo e un piccolo segreto: un bicchiere di vino.

«Lasciatevi dondolare». Il campanile della cattedrale di San Pietro oscilla, come fosse in atto un piccolo terremoto. A scatenare il movimento, quintali di bronzo spinti da mani robuste. Così uno dei campanari della cattedrale di San Pietro a Bologna aveva rassicurato gli ospiti del concerto, prima che il suono abbracciasse il cielo attorno alle Due Torri. Seduti attorno alle campane, oppure in piedi lungo i muri di mattoni, o sulle travi di legno che reggono questi antichi strumenti musicali, c’è spazio solo per pochi fortunati in cima ad uno dei monumenti meno conosciuti di Bologna.
Il campanile si muove come una culla, ma è inutile negarlo, ci si sente un po’ precari, lassù dove Bologna sembra così piccola. Ma è tutto normale, i campanili devono essere così flessibili. «Queste torri hanno resistito anche al terremoto del 2012. Solo alcuni di loro sono stati danneggiati, magari nelle guglie, ma non nella struttura architettonica. Crolla la chiesa non il campanile, come a Mirabello: il campanile è intatto, accanto alle macerie dell’edificio religioso», ci dice Mirko Rossi, professore di chimica in un istituto professionale modenese, presidente dell’Unione campanari bolognesi. Come lui, nel cuore dell’Emilia-Romagna, ci sono trecento detentori di questa antichissima tradizione, ma non bastano.

Professore, siete in via di estinzione?
No, abbiamo superato la fase critica. Ora siamo in controtendenza, c’è una riscoperta di questa antichissima arte, soprattutto tra i giovani. Grazie a loro, la nostra età media sta scendendo verso i 40 anni, dieci anni in meno rispetto a qualche anno fa. Ci sono persino squadre di campanari formate da ventenni. Dobbiamo fare ancora molto però. Il nostro territorio si estende tra la diocesi di Bologna, Imola, Faenza e parte della diocesi di Ferrara. Ci sono circa 300 campanili. Se volessimo suonare tutte le campane il giorno di Pasqua, servirebbero 1200 campanari, quattro volte il nostro numero attuale.

Come ci si avvicina a questa tradizione?
Non ci sono scuole per campanari. Per noi la vetrina principale sono le feste religiose. Quando suoniamo nelle parrocchie, coinvolgiamo sempre i ragazzi e lanciamo la proposta di unirsi a noi. In alcuni casi, come per le Quarantore di Cento, le scolaresche vengono a trovarci. Così i campanari diventano un evento. Altre volte ci contattano grazie al nostro sito internet.
Chi vuole, si mette d’accordo con una squadra del posto, e nelle sere in cui ci sono le prove, inizia a frequentare. A macchie di leopardo nel territorio ci sono campane a disposizione per imparare, ospitate spesso da palestre. C’è una certa cura delle relazioni. Ci si ritrova per fare le prove, ma è un pretesto per stare insieme, si mangia, si allenano braccia e gambe. Questo consente di coinvolgere più gente in modo genuino, soprattutto se i campanari della zona fanno gare e c’è una bella competizione.

Quanti mesi di formazione servono?
Un apprendista campanaro può impiegare un anno perché possa avere un esperienza spendibile in un concerto. È necessario imparare ad affiatarsi con il resto del gruppo. Le squadre sono composte da quattro persone. All’inizio si fa con le campane legate per non disturbare i residenti della zona. Ci sono quattro categorie: giovani, la terza, la seconda e la prima. L’apprendimento certamente continua, non si ferma mai e prosegue con la propria squadra con cui ci si esercita.
Il campanile della cattedrale di Bologna è un punto di arrivo, perché ci sono le campane più pesanti della diocesi, e poi ci sono oscillazioni rilevanti della struttura che vanno gestite. Ci sono campanari con grande esperienza che non saprebbero gestire campane come quelle di San Pietro.
Le mani dei ragazzi non sono abituate al lavoro, rispetto agli anni ’70 quando le capacità manuali erano più accentuate. Devono imparare a tenere le campane in piedi con corde che bruciano le mani, creano vesciche e i risultati tardano ad arrivare soprattutto rispetto ai dolori che invece sono immediati. I più motivati resistono, altri lasciano.

Quanto pesa una campana?
Anche nei concerti più piccoli la campana grossa arriva a diversi quintali. A San Pietro la campana principale pesa oltre tre tonnellate. Serve forza fisica, colpo d’occhio e il ritmo per evitare aritmie. Non si tratta di un problema semplicemente sonoro. Se sbagliamo nel ritmo, la torre si muove in modo non dovuto e questo aumenta lo sforzo fisico del campanaro, rendendo persino impossibile il suono della campana stessa. In casi estremi si arriva alla rotazione totale, un errore che nelle gare comporta la squalifica. A quel punto bisogna fermarsi e aspettare che il campanile si fermi per poter riprendere.

Tanto sacrificio, quanto guadagna un campanaro?
Questo è volontariato. Se va bene ci danno un piccolo rimborso spese. Spesso nel centro di Bologna, i campanari suonano un’intera mattina e ricevono dieci-quindici euro a testa. La nostra vera ricompensa è la cena parrocchiale e soprattutto un bicchiere di vino. È una tradizione antichissima: si saliva con l’olio nelle bronzine e un bicchiere di vino per il campanaro. Anche oggi durante i concerti, recuperiamo le forze bevendo.

La tradizione riguarda anche il dialetto…
Tutto il lessico, la terminologia è rigorosamente dialettale. Bologna è la prima città del Nord cristiano in cui il suono delle campane venne codificato, in modo che i suoni possano creare un’armonia, senza sovrapporsi. Fu un’idea della cappella musicale di san Petronio, probabilmente affascinata dalle campane del piccolo carillon portato da Carlo V per l’incoronazione nella basilica cittadina, nel 1530. A volte parliamo in italiano per rispetto verso gli ospiti, per farci comprendere. Ma la partenza, il lancio della prima campana viene chiamato con una formula dialettale bolognese, fissa, in modo che nessuno di noi possa sbagliarsi.

Come giudica la salute dei nostri campanili?
Buona, perché i campanari si prendono cura anche della struttura. Se una finestra presenta dei problemi, la ripariamo, se ci sono dei buchi, vengono tappati. Le viti vengono strette, le campane oliate. Diversa è invece la condizione dei campanili elettrificati. Dove i campanari non salgono, succede esattamente quanto avviene per qualsiasi edificio non abitato: va in rovina. In passato sono stati fatti interventi devastanti che hanno reso impossibile il nostro mestiere. Un documento dell’arcidiocesi tutela il suono manuale delle campane; occorre conciliare il suono a mano e suono elettrico. Così possiamo conciliare tradizione e modernità.

Si dice che a suonare le campane si diventi sordi, le sue orecchie in che condizioni sono?
(ride, ndr) Quando me lo chiedono rispondo: «Come… come? Cosa dice?». E’ una diceria. Basta un po’ di ovatta o i tappini espandibili che si usano anche nelle industrie. Io ho cominciato a 13 anni, ne ho 47 e non ho problemi di udito. Per i giovani le assicuro che è molto peggio la discoteca. A 25 anni, durante una visita medica dissi della mia passione per le campane, mi misero in cabina, con un pulsante da schiacciare ad ogni rumore, per verificare le condizioni del mio udito. Quando uscii, mi dissero: «Lei è un caso strano: non ha problemi di udito». Vi garantisco che ho conosciuto campanari di 90 anni che non hanno problemi.
Il vero rischio è per le mani. Una presa sbagliata può portare a un dito un po’ schiacciato tra il battaglio e la campana. Il corpo a corpo non è lontano, è chiaro che la campana sfiora sempre il campanaro. Noi abbiamo travi oblique di legno, su cui il campanaro appoggia le spalle; così sa di essere a distanza di sicurezza per non farsi male.

Da Bologna al resto di Italia, c’è un legame tra i campanari italiani?
Sì, c’è una specie di consulta nazionale. Ma tra noi ci sono tradizioni, metodi di montaggio differenti. Penso alla tradizione ambrosiana, a quella vicentina. Basta superare il Po, per trovare grandi ruote di ferro sui campanili. Sono campane che prevedono tecniche di suono diverse da quella bolognese. Se volessi suonarle, dovrebbero formarmi partendo da zero.

[www.lastefani.it]

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Redazione di Periscopio


Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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