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“Non si può combattere la mafia se non vi è l’impegno generale dello Stato, di tutto lo Stato non delle deleghe… Non ho mai chiesto di occuparmi di mafia. Ci sono entrato per caso, e poi ci sono rimasto per un problema morale. La gente mi moriva attorno”. (Paolo Borsellino)

Il giudice Paolo Borsellino doveva morire nel 1991 per ordine di Francesco Messina Denaro, padre di quel Matteo Messina Denaro, e su incarico di Totò Riina; così raccontò il ‘pentito di mafia’ Vincenzo Calcara, durante un colloquio in carcere al giudice Borsellino: “Un giorno, nel settembre 1991, sono stato convocato dal capo assoluto della mia famiglia di Trapani, Francesco Messina Denaro, dove mi spiegarono di tenermi pronto perché era stata decisa la morte del giudice. Era un grande onore per me, avrei fatto strada dentro cosa nostra. Tutto viene programmato, devo ucciderlo con un fucile di precisione, “di Borsellino non deve rimanere niente, neanche le idee”, precisò il capo-mandante”.
Invece succede un imprevisto, il ‘killer’ di Castelvetrano non può adempiere alla sua missione perché viene arrestato per traffico internazionale di droga. Questo arresto e il rischio di essere ucciso lo avvicinano alla sua vittima, si pente, cambia idea (così dice lui) e si rifiuta di uccidere Borsellino, forse perché si rende conto che una volta eliminato il giudice anch’egli avrebbe fatto la stessa fine. Fu così che, dal carcere, avverte nel giugno 1992 il giudice che le cosche avevano fatto ‘rifornimento’ di esplosivo e che il carico era arrivato a destinazione. Purtroppo, come sappiamo, un mese dopo, il 19 luglio, avvenne l’esplosione in via D’ Amelio, esattamente dopo 57 giorni dalla strage di Capaci.
Non fu l’unico avvertimento, avvenne un fatto inaccettabile, incredibile: il 14 luglio 1992 (cinque giorni prima dell’attentato), un calabrese già appartenente alla ‘ndrangheta, rifugiatosi in un paese del nord Europa, avverte il console italiano del luogo che si sta tramando un attentato a Palermo contro il giudice Borsellino. Immediatamente viene comunicata a Roma l’informazione, però questa verrà trasmessa a Palermo solamente il 25 luglio, sei giorni dopo la strage di via D’Amelio! Questo terribile fatto starebbe a significare che non si voleva impedire la strage?

Ritorniamo al ‘pentito’ Vincenzo Calcara che parla come un fiume in piena, e sono in molti a chiedersi se sia credibile oppure sia un millantatore. Dagli inquirenti viene indicato come un “pentito” minore di cosa nostra, e in diverse udienze è scritto che egli sarebbe incline alla menzogna; vero oppure no? Una cosa certa è che il Calcara e il giudice Borsellino si incontrarono spesso nel carcere dove era detenuto, giorni e giorni di confessioni che provocarono centinaia di arresti di mafiosi e di colletti bianchi. A questo proposito egli afferma: “Tramite le mie dichiarazioni fatte al giudice Borsellino, e in seguito ad altri magistrati, sono stati condannati tantissimi uomini di cosa nostra, compresi l’ex sindaco di Castelvetrano Vaccarino e Francesco Messina Denaro”. “Sapete benissimo”, aggiunge il pentito, “che il giudice Borsellino ha creduto in me, sapete perfettamente che ho fatto di tutto per salvargli la vita, mettendolo a conoscenza del piano per ucciderlo e siete anche a conoscenza dello straordinario rapporto umano che si era creato tra noi, e in seguito con tutta la sua famiglia.” Infatti sembrerebbe, e sottolineo sembrerebbe, che la stessa famiglia Borsellino avesse sostenuto anche le spese legali del ‘pentito’, oltre a fornire un aiuto economico alle figlie, dopo la morte del giudice. Vi sarebbe da aggiungere che il ‘Memoriale’ di Calcara, dove racconta tutta la (sua) verità nei dettagli, porta nella prefazione la firma di Salvatore Borsellino, fratello del giudice, e la presentazione è stata curata da Manfredi Borsellino, figlio del giudice, alla fiera del libro di Torino di qualche anno fa.

Il pentito Vincenzo Calcara, dopo aver vissuto per anni in luoghi nascosti, senza identità per il timore di ritorsioni mafiose, disse: “mi sono stancato, ho voluto riabbracciare la mia famiglia. Fino al 1998 sono stato sottoposto al programma di protezione dei collaboratori di giustizia, ma ora non più!”
La veridicità del pentito ha fatto e continua a far discutere anche negli ambienti delle forze di polizia e carabinieri, dove considerano alcuni racconti molto “fantasiosi”.

Sarebbero in molti a sostenere che Falcone e Borsellino sarebbero stati uccisi per la Trattativa Stato-Mafia dove avrebbero scoperto le trame segrete dello Stato, e proprio per questo avrebbero dovuto morire; vero o falso?
Al termine dell’udienza del processo sul depistaggio delle indagini sulla strage di via D’Amelio, Fiammetta Borsellino, figlia del giudice, ha accusato: “Penso ci sia una enorme difficoltà a far emergere la verità, non ho constatato da parte di nessuno la volontà di dare un contributo, al di là delle proprie discolpe, a capire cosa sia successo. Sembra che il depistaggio delle indagini sia avvenuto per virtù dello Spirito Santo: ci si riempie la bocca con parola “pool” ma io di “pool” non ne ho visto nemmeno l’ombra, però quando ai magistrati si chiede come mai non fossero a conoscenza dei colloqui investigativi, cadono dalle nuvole!”

Aggiungo alcuni contenuti del libro-testamento di Agnese Borsellino, la moglie del giudice scomparsa alcuni anni fa, dove non mancano particolari inediti sui giorni successivi alla strage del 19 luglio 1992. “In quei giorni ero contesa da prefetti, generali ed alti esponenti delle istituzioni. Mi invitavano e mi sussurravano tante domande. Ora so perché mi facevano tutte quell e domande: volevano capire se io sapevo, se Paolo mi aveva confidato qualcosa nei giorni che precedettero la sua uccisione. E allora tante parole di mio marito mi sono apparse chiare, chiarissime”.

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Laura Rossi

Curatrice e insegnante d’arte. Ha recensito vari libri e ha collaborato con alcuni mensili curandone la pagina dell’arte come “la cultura e l’arte del Nord-est” e la pagina dell’arte di Sport-Comumi. Ha curato la Galleria Farini di Bologna e tutt’ora dirige e cura a Ferrara la Collezione dello scultore Mario Piva. Ha ricoperto per circa dieci anni la carica di presidente della Nuova Officina Ferrarese, con decine di pittori e scultori fino agli inizi degli anni duemila. Sue critiche d’arte sono pubblicate sul “Dizionario enciclopedico internazionale d’arte contemporanea” 1999/2000

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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