Skip to main content

 

“Turni di tre ore e settimana lavorativa di quindici ore sono alla nostra portata da qui al 2030″.
Così si esprimeva l’illustre economista John Maynard Keynes nel 1930, in una celebre conferenza tenuta a Madrid, diventata nota sotto il titolo “Prospettive economiche per i nostri nipoti”. Com’è noto, Keynes non era un sovversivo incendiario, bensì più modestamente un sostenitore della necessità di una riforma del capitalismo, da non lasciare semplicemente in balia dell’ideologia del libero mercato capace di autoregolarsi. Da buon borghese e liberale illuminato, era fiero oppositore del comunismo, e in particolare dell’esperienza che era in corso in Unione Sovietica, e credeva fermamente, anche nei tempi della Grande Depressione degli anni ‘30 del secolo scorso, al ruolo progressista del capitalismo, purché opportunamente reindirizzato.

La storia ha preso un’altra strada e, comunque, in questo caso della riduzione dell’orario di lavoro, purtroppo la smentita dei fatti appare inequivocabile. E non certo perché non fosse suffragata da basi economiche solide, ancorché un po’ grossolane, esposte dallo stesso Keynes, e cioè che grazie ad una continuità dei tassi di accumulazione del capitale e di crescita della produttività, nell’arco di cento anni, dal 1930 al 2030, il tenore di vita sarebbe cresciuto da 4 ad 8 volte, rendendo possibile quella forte riduzione di orario; e consentendo l’uscita dal regno della necessità economica, così che l’uomo si sarebbe trovato di fronte “…al suo vero, costante problema: come impiegare la sua libertà dalle cure economiche più pressanti, come impiegare il tempo libero che la scienza e l’interesse composto gli avranno guadagnato, per vivere bene, piacevolmente e con saggezza”.

Effettivamente la crescita economica dal 1930 ad oggi ha sostanzialmente verificato l’ipotesi di Keynes, visto che, a livello mondiale, il PIL è cresciuto di circa 4 volte nei Paesi ricchi, quelli ai quali Keynes si riferisce di quasi 5 volte. Per la riduzione dell’orario di lavoro le cose sono andate diversamente: dal 1870 al 1930 l’orario di lavoro, nei Paesi ricchi, si riduce in modo più significativo che dal 1930 ad oggi. Dicendolo in termini schematici, si passa da più di 60 ore settimanali di fine ‘800 a circa 50 ore nel 1930 e un po’ meno di 40 ai tempi nostri. Peraltro, tali riduzioni sono scandite da un lungo ciclo di lotte del movimento operaio, che fa della riduzione dell’orario di lavoro, assieme al controllo sulla produzione e sull’organizzazione del lavoro, gli assi portanti di tutta la storia del movimento dei lavoratori nel ‘900.
Liberazione dal lavoro e liberazione del lavoro vanno a braccetto, almeno nelle elaborazioni e nelle pratiche più avanzate che si costruiscono in questo contesto. “Otto ore di lavoro, otto di svago, otto per dormire”  fu la parola d’ordine, coniata in Australia nel lontano 1855, e condivisa da gran parte del movimento sindacale organizzato del primo Novecento.

All’inizio del Novecento l’Occidente conosce le prime leggi che riducono l’orario di lavoro. In Italia, nel 1919 l’accordo tra la Fiom e la Federazione degli Industriali Metallurgici fissa l’orario di lavoro settimanale a 48 ore e questo diventerà il riferimento per il decreto del 1923 che estende i termini dell’accordo all’insieme della forza lavoro. Poi, da allora, le battaglie per la riduzione dell’orario di lavoro vanno avanti in modo alterno, fino ad arrivare al ciclo delle lotte operaie della fine degli anni ‘60 – inizio anni ‘70, quando, per stare all’Italia, si raggiungono le 40 ore settimanali.
Da quel momento, sembra inaugurarsi un lungo silenzio che perdura sino ai nostri giorni: non che non succeda nulla, ci sono diversi accordi aziendali che arrivano anche a sancire le 32 ore settimanali, nel 1995 il settore metalmeccanico tedesco approda alle 35 ore, nel 1998 la Francia vara una legislazione che riprende quello stesso risultato, ma esse appaiono più il prodotto di condizioni specifiche – un forte sindacato in Germania, uno degli ultimi tentativi di un governo di sinistra in Francia – che non l’affermarsi di una linea di tendenza forte e duratura. Tant’è che, in nome della flessibilità, entrambe queste soluzioni vengono messe in discussione negli anni successivi, assestandosi in una logica di orari medi plurisettimanali e soggetti all’andamento della congiuntura economica. Solo in questi ultimi tempi sembra si riapra uno spiraglio per tornare a discutere del tema.
Nel frattempo, poi, molte cose sono cambiate in profondità nel mondo del lavoro: sotto la spinta delle trasformazioni degli ultimi decenni, esso si è frammentato, disperso e articolato in una pluralità di figure, la precarietà è diventata una forma ‘normale’ di lavoro, è tramontata per tutti la ‘sicurezza’ del lavoro a tempo indeterminato, il capitalismo delle piattaforme ha riproposto il lavoro a cottimo e persino quello gratuito e ha dilatato e flessibilizzato, al di fuori di qualunque regola, lo stesso orario di lavoro.

Ma, per tornare al punto focale del ragionamento, perché la “profezia” di Keynes, nonostante i suoi fondamenti economici, non si è realizzata?
La risposta è abbastanza semplice: il capitalismo, nella sua versione neoliberista e del dominio della finanza, a partire dagli anni ‘80 del secolo scorso, ha costruito un’enorme redistribuzione dei redditi e della ricchezza, dai ceti bassi a quelli alti, dal lavoro ai profitti e alla rendita.
Nei Paesi più ricchi, nel 1975 il 15-25% dei redditi andava a profitti e rendite e il restante 75-85% al lavoro, mentre nel 2010 la quota dei profitti e delle rendite è cresciuta di circa 10 punti percentuali, assestandosi tra il 25 e il 35%: di fatto tutti gli incrementi di produttività, e forse anche qualcosa di più, sono andati in quella direzione, a detrimento dei redditi da lavoro. Come ha avuto modo di dire Warren Buffett, multimiliardario e protagonista della finanza, “è in corso una lotta di classe, è vero, ma è la mia classe, la classe ricca, che sta facendo la guerra, e stiamo vincendo”.
C’è inoltre una ragione, probabilmente ancora più profonda, che sta alla base di quel mancato percorso e che ha provocato anche la nuova disuguaglianza, e cioè che il capitalismo neoliberista ha ricostruito la concorrenza tra i lavoratori e  un ‘esercito di riserva’ che la alimenta, di cui ha strutturalmente necessità: altrimenti succede, come si è verificato nel corso degli anni ‘70 del Novecento, che con la piena e buona occupazione, il potere contrattuale del lavoro aumenta, si innalzano i salari e si riduce l’orario di lavoro e si comprimono i profitti. Una delle condizioni che, appunto, ha fatto scattare la controffensiva neoliberista.

In ogni caso, i motivi per riproporre oggi una significativa riduzione dell’orario di lavoro in pochi anni, per esempio a 30 ore settimanali a parità di salario – assieme a politiche per il lavoro che raggiungano la piena e buona occupazione e all’istituzione di un reddito incondizionato di base – ci sono tutti e, anzi, si sono rafforzati.
La rivoluzione tecnologica in corso distrugge più posti di lavoro
di quanto sia in grado di crearne di nuovi, propone l’ “economia dei lavoretti” sottopagati e privi di diritti, la stessa pandemia apre l’interrogativo rispetto alla messa in campo di un nuovo modello produttivo e sociale. Tornano a sentirsi, anche se troppo flebili, voci che guardano alla prospettiva della riduzione dell’orario di lavoro: dal sindacato inglese a quello tedesco, dal governo spagnolo a quello finlandese.
Spiace constatare l’assenza totale di voci dal nostro Paese: silenti i sindacato confederali, mentre è, ovviamente, chiedere troppo che il ‘beatificato’ nuovo Presidente del Consiglio dica qualcosa in proposito ( ma non era keynesiano?). Non resta che confidare in un sussulto di coscienza, organizzazione e mobilitazione dei tanti, che ci sono anche in Italia, e che ragionano sul nuovo mondo da costruire, non più fondato sul profitto ma sulla cura reciproca.

Per leggere tutti gli articoli di Corrado Oddi su Ferraraitalia clicca [Qui]

tag:

Corrado Oddi

Attivista sociale. Si occupa in particolare di beni comuni, vocazione maturata anche in una lunga esperienza sindacale a tempo pieno, dal 1982 al 2014, ricoprendo diversi incarichi a Bologna e a livello nazionale nella CGIL. E’ stato tra i fondatori del Forum Italiano dei Movimenti per l’Acqua nel 2006 e tra i promotori dei referendum sull’acqua pubblica nel 2011, tema cui rimane particolarmente legato. Che, peraltro, non gli impedisce di interessarsi e scrivere sugli altri beni comuni, dall’ambiente all’energia, dal ciclo dei rifiuti alla conoscenza. E anche di economia politica, suo primo amore e oggetto di studio.

PAESE REALE

di Piermaria Romani

PROVE TECNICHE DI IMPAGINAZIONE

Top Five del mese
I 5 articoli di Periscopio più letti negli ultimi 30 giorni

05.12.2023 – La manovra del governo Meloni toglie un altro pezzo a una Sanità Pubblica già in emergenza, ma lo sciopero di medici e infermieri non basterà a salvare il SSN

16.11.2023 – Lettera aperta: “L’invito a tacere del Sindaco di Ferrara al Vescovo sui Cpr è un atto grossolano e intollerabile”

04.12.2023 – Alla canna del gas: l’inganno mortale del “mercato libero”

14.11.2023 – Ferrara, la città dei fantasmi

07.12.2023 – Un altro miracolo italiano: San Giuliano ha salvato Venezia

La nostra Top five
I
 5 articoli degli ultimi 30 giorni consigliati dalla redazione

1
2
3
4
5

Pescando un pesce d’oro
5 titoli evergreen dall’archivio di 50.000 titoli  di Periscopio

1
2
3
4
5

Caro lettore

Dopo molti mesi di pensieri, ripensamenti, idee luminose e amletici dubbi, quello che vi trovate sotto gli occhi è il Nuovo Periscopio. Molto, forse troppo ardito, colorato, anticonvenzionale, diverso da tutti gli altri media in circolazione, in edicola o sul web.

Se già frequentate  queste pagine, se vi piace o almeno vi incuriosisce Periscopio, la sua nuova veste grafica e i nuovi contenuti vi faranno saltare di gioia. Non esiste in natura un quotidiano online con il coraggio e/o l’incoscienza di criticare e capovolgere l’impostazione classica di questo “il giornale” un’idea (geniale) nata 270 anni fa, ma che ha introdotto  dei codici precisi rimasti quasi inalterati. Nemmeno la rivoluzione digitale, la democrazia informava, la nascita della Rete, l’esplosione dei social media, hanno cambiato di molto le testate giornalistiche, il loro ordine, la loro noia.

Tanto che qualcuno si è chiesto se ancora servono, se hanno ancora un ruolo e un senso i quotidiani.  Arrivano sempre “dopo la notizia”, mettono tutti lo stesso titolo in prima pagina, seguono diligentemente il pensiero unico e il potente di turno, ricalcano in fotocopia le solite sezioni interne: politica interna, esteri, cronaca, economia, sport…. Anche le parole sembrano piene di polvere, perché il linguaggio giornalistico, invece di arricchirsi, si è impoverito.  Il vocabolario dei quotidiani registra e riproduce quello del sottobosco politico e della chiacchiera televisiva, oppure insegue inutilmente la grande nuvola confusa del web.

Periscopio propone un nuovo modo di essere giornale, di fare informazione. di accostare Alto e Basso, di rapportarsi al proprio pubblico. Rompe compartimenti stagni delle sezioni tradizionali di quotidiani. Accoglie e dà riconosce uguale dignità a tutti i generi e tutti linguaggi: così in primo piano ci può essere una notizia, un commento, ma anche una poesia o una vignetta.  Abbandona la rincorsa allo scoop, all’intervista esclusiva, alla firma illustre, proponendo quella che abbiamo chiamato “informazione verticale”: entrare cioè nelle  “cose che accadono fuori e dentro di noi”, denunciare Il Vecchio che resiste e raccontare Il Nuovo che germoglia, stare dalla parte dei diritti e denunciare la diseguaglianza che cresce in Italia e nel mondo. .

Con il quotidiano di ieri, così si diceva, oggi ci si incarta il pesce. Non Periscopio, la sua “informazione verticale” non invecchia mai e dal nostro archivio di quasi 50.000 articoli (disponibile gratuitamente) si pescano continuamente contenuti utili per integrare le ultime notizie uscite. Non troverete mai, come succede in quasi tutti i quotidiani on line,  le prime tre righe dell’articolo in chiaro… e una piccola tassa per poter leggere tutto il resto.

Sembra una frase retorica ma non lo è: “Periscopio è un giornale senza padrini e senza padroni”. Siamo orgogliosamente antifascisti, pacifisti, nonviolenti, femministi, ambientalisti. Crediamo nella Sinistra (anche se la Sinistra non crede più a se stessa), ma non apparteniamo a nessuna casa politica, non fiancheggiamo nessun partito e nessun leader. Anzi, diffidiamo dei leader e dei capipopolo, perfino degli eroi. Non ci piacciono i muri, quelli materiali come  quelli immateriali, frutto del pregiudizio e dell’egoismo. Ci piace “il popolo” (quello scritto in Costituzione) e vorremmo cancellare “la nazione”, premessa di ogni guerra e  di ogni violenza.

Periscopio è quindi un giornale popolare, non nazionalpopolare. Un quotidiano “generalista”,  scritto per essere letto da tutti (“quelli che hanno letto milioni di libri o che non sanno nemmeno parlare” F. De Gregori), da tutti quelli che coltivano la curiosità, e non dalle elites, dai circoli degli addetti ai lavori, dagli intellettuali del vuoto e della chiacchiera.

Periscopio è  proprietà di un azionariato diffuso e partecipato, garanzia di una gestitone collettiva e democratica del quotidiano. Si finanzia, quindi vive, grazie ai liberi contributi dei suoi lettori amici e sostenitori. Accetta e ospita sponsor ed inserzionisti solo socialmente, eticamente e culturalmente meritevoli.

Nato quasi otto anni fa con il nome Ferraraitalia già con una vocazione glocal, oggi il quotidiano è diventato: Periscopio naviga già in mare aperto, rivolgendosi a un pubblico nazionale e non solo. Non ci dimentichiamo però di Ferrara, la città che ospita la redazione e dove ogni giorno si fabbrica il giornale. e Ferraraitalia continua a vivere dentro Periscopio all’interno di una sezione speciale, una parte importante del tutto. 
Oggi Periscopio ha oltre 320.000 lettori, ma vogliamo crescere e farsi conoscere. Dipenderà da chi lo scrive ma soprattutto da chi lo legge e lo condivide con chi ancora non lo conosce. Per una volta, stare nella stessa barca può essere una avventura affascinante.  Buona navigazione a tutti.

Tutti i contenuti di Periscopio, salvo espressa indicazione, sono free. Possono essere liberamente stampati, diffusi e ripubblicati, indicando fonte, autore e data di pubblicazione su questo quotidiano.

Francesco Monini
direttore responsabile


Chi volesse chiedere informazioni sul nuovo progetto editoriale, può scrivere a: direttore@periscopionline.it


Ti potrebbero interessare