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La città di Ferrara, come tutte le città che hanno una storia antica, si presenta ai suoi cittadini e ai forestieri come uno scrigno. La luce delle piazze, le tinte calde che colorano i palazzi al tramonto, il grigio metallo che nelle prime giornate di freddo invernale ferma il tempo nelle strade sono una rivelazione continua ma palese all’occhio che le sa e le vuole guardare ma Ferrara è anche caratterizzata da tanti portoni chiusi, grandi porte di legno che – quando si aprono – lascino spazio a visioni di grande bellezza su giardini, cortili interni, scaloni di marmo e soffitti affrescati. Non tutto quello che si intravede in questi brevi spiragli è pregevole o ben conservato ma in realtà costituisce un paragrafo della vita di questa città. Basta saperlo andare a cercare e mettersi in ascolto. Si fa fatica però a trovare qualcosa che non vuole fasi scoprire: è il caso degli appartamenti del palazzo Arcivescovile di Ferrara, che si affaccia su corso Martiri della Libertà, il cui portone è spesso aperto mentre, in realtà, i suoi spazi restano interdetti ai visitatori poiché lì si trovano gli uffici della Curia e l’abitazione del Vescovo di Ferrara, monsignor Luigi Negri.
La storia del palazzo non è particolarmente interessante: sappiamo che fu ricostruito fra il 1718 e il 1720 per ordine del cardinale Tommaso Ruffo, primo arcivescovo di Ferrara, su progetto di Tommaso Mattei. Nel “Compendio della storia sacra e politica di Ferrara” (Tomo V) di Giuseppe Manini Ferranti, si legge che “edificò il nuovo Palazzo Vescovile di città con tale magnificenza che forse non v’ha Palazzo Vescovile in Italia, che lo pareggi”.
Allo stesso modo impareggiabile è il grande portone, di moderna fattura, che separa il mondo civile di Ferrara con i suoi postriboli”, i cori dei goliardi, la musica dei Buskers, il passeggio della domenica pomeriggio e i scampanellii delle biciclette dalla Curia cittadina, che osserva degli orari di ufficio per l’apertura al pubblico dell’economato, del vicariato, della ragioneria, dell’ufficio per la nuova edilizia di culto e l’ufficio comunicazione dell’arcivescovato, nonché dall’archivio storico diocesano.
Chiusi gli uffici vengono serrati anche gli ingressi e il portone automatico che dà su piazza della cattedrale si può far muovere, dalle 20 in poi, solo con un telecomando a distanza.
Ma dove va il vescovo quando ha terminato i suoi uffici? Dove mangia, dove si ferma in preghiera e in riflessione? In attesa di ricevere un permesso alla visita delle stanze del Vescovo, più volte sollecitato presso gli uffici di palazzo Arcivescovile, mi è tornata vivace l’immagine della luce dorata della Sala del Sinodo, unico spazio condiviso con la città in occasione di convegni, premiazioni e appuntamenti culturali aperti al pubblico. Ci sono stata lo scorso aprile, nel corso di uno degli incontri che monsignor Negri stava tenendo con i giovani delle contrade del Palio di Ferrara. Vi si accede grazie allo scalone monumentale, protagonista dell’impianto iconografico del Palazzo all’epoca della ricostruzione curata da Andrea Ferreri, che ideò una decorazione plastica che fungesse da elemento costruttivo e divenisse il nodo qualificante dell’intero complesso edilizio. E’ uno splendore, nonostante l’evidente stato di cattiva manutenzione e la scarsa illuminazione. “Vi ho portato a casa mia per ricambiare la vostra ospitalità”, aveva detto in quella occasione il vescovo, che si era poi soffermato sulle conseguenze del terremoto sull’intera struttura, sul problema della scarsezza di fondi e della responsabilità di preservare e mantenere un edificio simile in buone condizioni. In effetti, sui soffitti erano visibili le crepe provocate dalle scosse del maggio 2012 ma le ragnatele e una generale incuria non dovevano essere dovute alle calamità naturali.

Sta di fatto che il palazzo resta e resterà ancora uno scrigno privato, anche se nella sua storia c’è un capitolo interessante. Nel corso della prima guerra mondiale vi erano collocati gli uffici per i militari: già da 1915 esso ospitò la ‘Segreteria del soldato’, che offriva i mezzi per scrivere e ricevere corrispondenza e pacchi dei militari e delle loro famiglie, fungendo da ufficio postale. Poco più tardi fu attivata la ‘Casa del soldato’, che divenne immediatamente la meta preferita per i soldati nelle ore di libertà. In migliaia si recarono in quelle stanze per scrivere lettere, leggere giornali e riviste e partecipare a lotterie e spettacoli. Vi si organizzavano intrattenimenti musicali, nei quali i soldati cantavano accompagnati al pianoforte nel cortile interno venne allestito un teatrino di burattini, diretto dal soldato Giovanni Baroni, burattinaio bergamasco.
Chi lo sa se il Vescovo di Ferrara di allora, monsignor Giulio Boschi, riteneva dannoso per la città quell’andirivieni di giovanotti in uniforme. Chi lo sa se qualcuno nel corso della storia dell’arcivescovato contemporaneo ha immaginato di essere nei panni del cardinale Ruffo, promotore della ristrutturazione del palazzo nel 1700 e glorificato da Vittorio Maria Bigari nell’affresco centrale del soffitto del palazzo Arcivescovile, che raffigurava lo stesso cardinale in abiti pontificali e attorniato dalle province legatizie di Ravenna, Bologna e Ferrara…

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Ingrid Veneroso

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Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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