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14 Dicembre 2015

Lester

Tempo di lettura: 6 minuti


Oggi, per una volta, mi adeguo al mio paese e così, con un giorno di ritardo, faccio gli auguri a uno figura (non solo) per me fondamentale, Lester Bangs.
L’ItalWiki ci dice che Lester è nato il 14/12 e non il 13/12: e io chi sono per contraddire una tale istituzione?
Ad ogni modo chi se ne frega, questo giorno di ritardo ha anche senso.
Tanto qui da noi si dice ancora “gli hippy degli anni ’70” perché in fondo qui da noi tutto arriva sempre in ritardo.
E come dice un noto proverbio che si usa molto, sempre qui da noi: ogni mattina qualcuno si sveglia e non importa che sia un treno o un hippy, tanto qui da noi arriverà comunque in ritardo.
Paradossalmente, sempre qui da noi, a Lester Bangs poteva andare ben peggio.
Mi sa che quest’anno sono 10 anni tondi che leggo e rileggo quest’uomo.
E allora, anche se non mi leggeranno mai, ne approfitto per ringraziare quei ragazzi della Minimum Fax che hanno pubblicato tutto, rendendo possibile anche a un 19enne senza internet, sperduto in un buco di culo la lettura di questo scrittore secondo me fondamentale non solo per chi scrive di musica ma anche per chi la musica la fa, non importa se suonata o prodotta.
Penso davvero che da quel 2005 non sia passato un anno senza che io leggessi pezzi sparsi o quei libri interi di Lester.
E anche se non mi leggerà mai, devo un grazie enorme anche ad Anna Mioni che ha tradotto il difficilmente traducibile Lester in un modo davvero super.
Ma perché tutta questa pippa?
Semplice: Lester Bangs è il padre della critica rock’n’roll.
E purtroppo, schiattando se l’è anche portata nella tomba.
Perché sì, adesso abbiamo Simon Reynolds, abbiamo ancora Robert Christgau e Greil Marcus ma non è la stessa roba.
Loro sono dei critici e basta.
Senza sminuire i nomi citati sopra Lester era qualcosa di più di un semplice critico.
Forse l’unico rimasto che un po’ gli si avvicina è Everett True.
Lester era un guardiano e a volte persino un moralista.
E dio sa quanto ne avremmo bisogno adesso, di un tipo così.
Stiamo parlando dell’uomo che stroncò il primo album degli MC5 perché il battage pubblicitario gli aveva fatto girare i maroni.
Poi il disco era ed è tuttora meraviglioso, a Lester finì anche per piacere tantissimo e chiese scusa pubblicamente sia agli MC5 che ai lettori ma come dargli torto?
Lui si era aspettato troppo, aveva sgamato le cose da cui gli MC5 avevano rubacchiato e aveva scritto che quel disco, in fondo, non meritava quei superlativi con cui era stato strombazzato.
In poche parole aveva individuato tutto ciò che non andava e che tuttora non va: il marketing.
E per tutto il resto della sua carriera avrebbe portato avanti questa battaglia col fervore di un Pasolini ubriaco e strafatto di farmaci.
Questa cosa ben presto l’avrebbe pagata.

Brano: “Concierto de Aranjuez (Adagio)” di Miles Davis Album: “Sketches Of Spain” del 1960
Brano: “Concierto de Aranjuez (Adagio)” di Miles Davis
Album: “Sketches Of Spain” del 1960

E infatti, nel 1969, riuscì a fregiarsi del titolo di “giornalista cacciato da Rolling Stone”, l’autoproclamata (hahaha) “Bibbia-del-r’n’r-style”.
Motivazione: mancanza di rispetto verso i musicisti.
Io l’ho letta la recensione che l’ha fatto sbattere fuori.
Non era niente di che.
Aveva semplicemente fatto notare quanto quel disco dei Canned Heat sembrasse bolso.
E aveva detto chiaramente che ormai era il caso di dare spazio a cose più lungimiranti e meritevoli come il primo album degli Stooges, all’epoca praticamente censurato dall’autoproclamata “Bibbia-del-r’n’r-style”.
Rolling Stone infatti, stava gettando le basi di quel giornalismo marchettaro che ne avrebbe fatto la fortuna.
Un approccio comunque lungimirante che anticipò Bruno Vespa e il suo “Porta a Porta”.
Fortunatamente all’epoca la Resistenza era Creem, con sede a Detroit e fortunatamente, Creem e Lester si erano già annusati.
Così c’era solo da fare i bagagli e scappare a Detroit a firmare un contratto che includeva anche l’incarico di gettare il pattume alla sera.
Forse Lester Bangs non fu il primo a usare termini come “punk”, “heavy metal” e addirittura “grunge” (dio, nei ’70) ma una cosa è certa: il punk lo aveva individuato parecchio in anticipo, tracciando quella linea che partiva dal garage rock più “elementare” e arrivava alla scena di NY dei ’70 e a quella inglese del ’77.
Riuscì persino a prevedere quel “grunge” che sarebbe arrivato ben più tardi, individuando il futuro di quei “soliti tre accordi di Louie Louie” in città tradizionalmente fuori dal giro che conta.
Posti come quella Seattle che donò al mondo i Nirvana, Athens che fece la stessa cosa con B-52’s, R.E.M. ecc e Austin che ormai è un posto fighettino e hipster.
Chi lo conosceva bene dice che, se fosse vivo in quest’epoca, col cavolo che lo farebbero scrivere.
Io non faccio fatica a crederci.
Forse avrebbe spazio su qualche blog, forse su qualche rivista avrebbe uno spazio piccolino.
Non voglio assolutamente aprire il capitolo sullo “scrivere di musica adesso” che non se ne esce.
Ma hanno ragione quei suoi amici.
Adesso nessuno pubblicherebbe cose come “James Taylor deve morire”, quella recensione di Fun House pubblicata in due parti su Creem o quelle interviste a Lou Reed che finivano per diventare duelli che finivano per diventare delle gare di insulti a insulti fra due ubriaconi.
Roba che comunque, parlando di interviste sta al livello del classico Truffaut-intervista-Hitchcock a.k.a. il-manuale-dell’intervista.
Perché un’altra cosa è certa: si poteva non essere d’accordo con lui a volte, ma quell’uomo sapeva scrivere e ha sempre scritto da dio.
E ha sempre cambiato idea anche radicalmente quando si accorgeva di aver mancato la tazza.
Purtroppo non ha avuto il tempo di scrivere “il suo Grande Romanzo” americano, purtroppo è stato anche bruciato da un personaggio decisamente più hip come Hunter S. Thompson con quel Paura e disgusto a Las Vegas pubblicato a pezzi – vedi te come torna tutto – proprio su Rolling Stone.
Restano comuque quintalate di pagine scritte da un sincero amante della musica e uno scrittore gigante e grazie a dio mai tronfio.
Quindi per oggi, via con uno dei pezzi che si tirano in ballo di meno quando si parla di Lester.
Perché costui sarà stato l’uomo che canonizzò il punk.
Ma era davvero l’ultimo beatnik e anche uno dei fan del jazz più svegli che siano esistiti.
Auguri in ritardo baffone, tanto ci sei abituato.

Ogni giorno un brano intonato alla cronaca selezionato e commentato dalla redazione di Radio Strike

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Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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