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Chino fino a toccare con la fronte il cumulo di carte da timbrare e protocollare, con quelle mezzemaniche scure e gli occhiali che scivolano sulla punta del naso, mani secche e nervose che impugnano saldamente la penna e piedi ordinatamente congiunti sotto la scrivania di legno scheggiato: ecco la figura del burocrate che troviamo rannicchiata nei racconti e nei romanzi di qualche tempo fa, il cui eco rimane anche nella letteratura più recente, seppure con i dovuti distinguo. Una figura grigia, raccolta nella sua totale introversione che la isola dal resto del mondo, dipinta con tratti di fastidio per quella sua diligenza maniacale e servile che la rende ancora meno popolare.

Un piccolo anonimo eroe che non sempre però è disposto ad assoggettarsi alla tetra omologazione imposta dalla società e improvvisamente tenta forme di ribellione e rivolta che inceppino l’ingranaggio della macchina sociale, quasi fossero piccoli sabotaggi che disturbano fino a rischiare di diventare una minaccia. Ed allora tutto cambia: l’eroe cade in disgrazia, viene isolato, per lui non rimane che il suicidio o l’internamento in manicomio, additato, disprezzato, odiato. La reclusione assume i connotati della punizione che gli spetta per aver osato rompere gli schemi, per aver alzato quella fronte china. Ne è un esempio Bartleby, il copista, una “figura pallidamente linda, penosamente decorosa, irrimediabilmente squallida”, protagonista del racconto di Herman Melville, Bartleby lo scrivano: una storia di Wall Street (1853). L’impiegato, assunto in uno studio legale, lavora all’inizio con scrupolo e affidabilità. Dopo poco, messo di fronte ad altri compiti e mansioni, rifiuta con un “I would prefer not to” – Preferisco di no. Il gran rifiuto sarà l’avvio alla sua lenta discesa che lo porterà a smettere del tutto di lavorare, di nutrirsi, di vivere, motivando le sue scelte con la stessa immutabile frase “ I would..”. Sotto gli occhi del lettore, Bartleby si trasforma in una larva umana che lascia lentamente un lavoro alienante, quattro mura soffocanti, dei colleghi estranei e un’organizzazione che succhia energia vitale. Quando l’uomo muore d’inedia, la sua scomparsa viene attribuita disinvoltamente al suo lavoro precedente presso l’Ufficio Lettere Smarrite di Washington dove maneggiare lettere morte lo aveva condotto alla depressione e alla follia.

Diverso risulta l’universo impiegatizio descritto da Honoré de Balzac nel racconto Gli impiegati (1844) e l’ufficio diventa l’habitat di servilismi, arrivismo, rapporti umani malati, scontri, alleanze, astuzie e viltà. L’impiegato, per Balzac, è “un prodotto che nasce, si ottiene, si scopre, si sviluppa soltanto nelle calde serre di un governo rappresentativo” che gli impedisce un ruolo onorevole e ne fa un suddito. Nel racconto, l’impiegato parigino Rabourdin, sposato a una donna di ceto sociale superiore, rincorre la promozione che gli permetterà la scalata sociale e si aggrappa alle conoscenze, le raccomandazioni, la benevolenza dell’uno o dell’altro per arrivare allo scopo. E’ solo uno dei 30.000 impiegati dell’epoca, un uomo senza una caratterizzazione precisa, che non merita descrizione approfondita ma diventa l’emblema di uno spicchio di società in cui ciò che conta è farsi strada a cinici spintoni, tra ansie e speranze di avanzamento. Con Napoleone che nel 1800 istituì i prefetti, dando l’avvio alla macchina statale con il suo esercito di funzionari, burocrati, amministrativi e prima ancora Maria Teresa d’Austria (1717-1780) che attuò importanti riforme in campo amministrativo e giuridico, la burocrazia diventa l’ossatura del sistema, un formidabile veicolo di carriere e promozione sociale, uno dei perni dello Stato insieme all’esercito. “Novelle per un anno” (1922) di Luigi Pirandello, è una raccolta di 255 novelle in cui i protagonisti sono esponenti delle borghesia impiegatizia. Tra essi c’è l’impiegato Belluca, animatore di una memorabile storia dal titolo “Il treno ha fischiato”. E’ un computista modello, puntuale, irreprensibile, preciso, sottomesso che improvvisamente si ribella al suo capoufficio assumendo comportamenti del tutto estranei alla sua vita scandita dal lavoro in ufficio e l’assistenza a tre donne vecchie e cieche, nonchè due sorelle vedove con sette figli. Questa rivolta d’impeto gli costerà cara e sarà internato in un ‘ospizio dei matti’. L’uomo continuerà a parlare con veemenza del fischio di un treno a chi gli fa visita. Un fischio che aveva squarciato qualcosa nella sua routine alienante e gli aveva permesso di intravvedere la libertà, una dimensione diversa dalla trappola che lo aveva fagocitato.

Ed arriviamo all’Italia dei giorni nostri, dove in ‘Cordiali saluti’ (2005) di Andrea Bajani, lo scenario dei burocrati diventa una jungla. Carlo Simoni, dipendente di una grossa azienda viene licenziato. Il suo compito era scrivere lettere di licenziamento da inoltrare ai colleghi da congedare: lettere accurate, piccole opere d’arte. Il suo posto viene occupato da un giovane e quando Simoni muore in seguito a grave malattia epatica, viene affidata al nuovo entrato l’incombenza di scrivere il discorso per la commemorazione. Il giovanotto lo farà, ma non parteciperà alla cerimonia funebre perché in quel frangente si sarà già accomodato su un aereo per destinazione ignota. Anche Georges Courteline, in ‘I mezzemaniche’ (2008), muove i suoi personaggi in una scena da teatro dell’assurdo. I burocrati si muovono nei corridoi e spazi comuni dei ministeri come non appartenessero a quel luogo e a quel preciso istante. Il piccolo funzionario ministeriale è una figura perfettamente globalizzata ancora prima che esistesse la globalizzazione come fenomeno esteso; una maschera universale che sarebbe piaciuta anche a Pirandello. Esseri descritti con un sorriso ironico e una risata finale, tante piccole parodie moderne.

La sociologia ha raccontato più volte i ‘colletti bianchi’ ma è la letteratura a sondarne gli aspetti più profondi. D’altronde, molti grandi autori come Kafka, Saba, Fenoglio, Montale, Zola, Turgenev svolsero il lavoro d’ufficio per brevi o lunghi periodi, per necessità o per temporanea esperienza di vita. La letteratura, ebbe a dire Oscar Wilde, anticipa sempre la vita. Non la copia ma la foggia per il suo proposito.

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Liliana Cerqueni

Autrice, giornalista pubblicista, laureata in Lingue e Letterature straniere presso l’Università di Lingue e Comunicazione IULM di Milano. E’ nata nel cuore delle Dolomiti, a Primiero San Martino di Castrozza (Trento), dove vive e dove ha insegnato tedesco e inglese. Ha una figlia, Daniela, il suo “tutto”. Ha pubblicato “Storie di vita e di carcere” (2014) e “Istantanee di fuga” (2015) con Sensibili alle Foglie e collabora con diverse testate. Appassionata di cinema, lettura, fotografia e … Coldplay, pratica nordic walking, una discreta arte culinaria e la scrittura a un nuovo romanzo che uscirà nel… (?).

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Caro lettore

Dopo molti mesi di pensieri, ripensamenti, idee luminose e amletici dubbi, quello che vi trovate sotto gli occhi è il Nuovo Periscopio. Molto, forse troppo ardito, colorato, anticonvenzionale, diverso da tutti gli altri media in circolazione, in edicola o sul web.

Se già frequentate  queste pagine, se vi piace o almeno vi incuriosisce Periscopio, la sua nuova veste grafica e i nuovi contenuti vi faranno saltare di gioia. Non esiste in natura un quotidiano online con il coraggio e/o l’incoscienza di criticare e capovolgere l’impostazione classica di questo “il giornale” un’idea (geniale) nata 270 anni fa, ma che ha introdotto  dei codici precisi rimasti quasi inalterati. Nemmeno la rivoluzione digitale, la democrazia informava, la nascita della Rete, l’esplosione dei social media, hanno cambiato di molto le testate giornalistiche, il loro ordine, la loro noia.

Tanto che qualcuno si è chiesto se ancora servono, se hanno ancora un ruolo e un senso i quotidiani.  Arrivano sempre “dopo la notizia”, mettono tutti lo stesso titolo in prima pagina, seguono diligentemente il pensiero unico e il potente di turno, ricalcano in fotocopia le solite sezioni interne: politica interna, esteri, cronaca, economia, sport…. Anche le parole sembrano piene di polvere, perché il linguaggio giornalistico, invece di arricchirsi, si è impoverito.  Il vocabolario dei quotidiani registra e riproduce quello del sottobosco politico e della chiacchiera televisiva, oppure insegue inutilmente la grande nuvola confusa del web.

Periscopio propone un nuovo modo di essere giornale, di fare informazione. di accostare Alto e Basso, di rapportarsi al proprio pubblico. Rompe compartimenti stagni delle sezioni tradizionali di quotidiani. Accoglie e dà riconosce uguale dignità a tutti i generi e tutti linguaggi: così in primo piano ci può essere una notizia, un commento, ma anche una poesia o una vignetta.  Abbandona la rincorsa allo scoop, all’intervista esclusiva, alla firma illustre, proponendo quella che abbiamo chiamato “informazione verticale”: entrare cioè nelle  “cose che accadono fuori e dentro di noi”, denunciare Il Vecchio che resiste e raccontare Il Nuovo che germoglia, stare dalla parte dei diritti e denunciare la diseguaglianza che cresce in Italia e nel mondo. .

Con il quotidiano di ieri, così si diceva, oggi ci si incarta il pesce. Non Periscopio, la sua “informazione verticale” non invecchia mai e dal nostro archivio di quasi 50.000 articoli (disponibile gratuitamente) si pescano continuamente contenuti utili per integrare le ultime notizie uscite. Non troverete mai, come succede in quasi tutti i quotidiani on line,  le prime tre righe dell’articolo in chiaro… e una piccola tassa per poter leggere tutto il resto.

Sembra una frase retorica ma non lo è: “Periscopio è un giornale senza padrini e senza padroni”. Siamo orgogliosamente antifascisti, pacifisti, nonviolenti, femministi, ambientalisti. Crediamo nella Sinistra (anche se la Sinistra non crede più a se stessa), ma non apparteniamo a nessuna casa politica, non fiancheggiamo nessun partito e nessun leader. Anzi, diffidiamo dei leader e dei capipopolo, perfino degli eroi. Non ci piacciono i muri, quelli materiali come  quelli immateriali, frutto del pregiudizio e dell’egoismo. Ci piace “il popolo” (quello scritto in Costituzione) e vorremmo cancellare “la nazione”, premessa di ogni guerra e  di ogni violenza.

Periscopio è quindi un giornale popolare, non nazionalpopolare. Un quotidiano “generalista”,  scritto per essere letto da tutti (“quelli che hanno letto milioni di libri o che non sanno nemmeno parlare” F. De Gregori), da tutti quelli che coltivano la curiosità, e non dalle elites, dai circoli degli addetti ai lavori, dagli intellettuali del vuoto e della chiacchiera.

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