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Il termine industria è stato utilizzato per lungo tempo per designare ogni tipo di attività produttiva. Oggi si usa distinguere le attività economiche di una società in tre settori: il primario molto centrato sulla produzione alimentare, l’agricoltura e la pesca; il secondario coincidente con l’industria propriamente detta, deputato alla produzione di beni materiali; il terziario con la produzione di servizi. All’interno di quest’ultimo settore possiamo riconoscere un insieme di attività trasversali che sono finalizzate ad alimentare costantemente nuove richieste che possano sostenere il mercato dei consumi. Il risultato di queste attività si contrappone diametralmente alle virtù della frugalità e del risparmio che hanno contraddistinto la vita delle generazioni fino a pochi decenni or sono. Questo passaggio non rappresenta l’esito di una presunta natura umana diventata insaziabile allorquando se ne è manifestata l’occasione, ma piuttosto, l’effetto di un calcolo, di un progetto tutto interno allo sviluppo della società capitalistica. Possiamo sinteticamente denominare questo insieme di attività industria del bisogno; essa si fonda su due pilastri: il primo è la necessità di alimentare costantemente i consumi in risposta alle straordinarie e crescenti capacità produttive rese possibili dalle nuove tecnologie e dalle modalità più efficienti di organizzazione del lavoro. Il secondo è l’esigenza di garantire lavoro alle persone per dare accesso ad un reddito che consenta di acquistare e consumare i beni e servizi prodotti.

Quest’approccio al bisogno ha invaso ogni campo ed ogni settore: ci lavorano organizzazioni, istituzioni, imprese profit e non profit, professionisti ed esperti; vi si trovano il sistema della moda, l’ingegneria dell’obsolescenza programmata, la pubblicità e il marketing, il credito facile e le varie facilitazioni finanziarie. Si tratta di un ambito di lavoro composto in buona parte da manipolatori di simboli e lavoratori della conoscenza specificamente addestrati cui, in ultima istanza, spetta il compito di convincere la gente (e le imprese) ad aumentare i consumi. Esso non si limita all’economia di mercato ma si estende al settore pubblico e al terzo settore, dove legioni di specialisti della sanità, del sociale, del benessere, della comunicazione, dell’amministrazione e del diritto, dell’educazione e della formazione, sono al lavoro per scovare, o meglio, per costruire, sempre nuovi bisogni su cui esercitare le proprie competenze.
Non si può prescindere da questa industria per comprendere la società dei consumi e dei servizi nella quale viviamo, i suoi effetti sulle persone e sull’ambiente, il fascino profondo che essa esercita su quanti ne sono esclusi e la repulsione che provoca in quanti ne sono rimasti intossicati.

L’industria del bisogno ha assunto un carattere planetario. L’abbondanza di beni materiali spinge una parte del mondo più povero verso i paesi ricchi alla ricerca di lavoro e di un mitico benessere; d’altro canto le imprese (e le ONG stesse) vedono in questo mondo immiserito formidabili opportunità di fare affari, nuovi giganteschi mercati potenziali, sterminate distese di individui portatori di bisogni da trasformare al più presto in consumatori.
Al polo opposto l’eccesso di consumismo crea nelle società ricche molti individui insoddisfatti, delusi dalla corsa costante al consumo che dovrebbe dare la felicità: nella loro ricerca di senso essi rivolgono l’attenzione anche verso i saperi di civiltà perdute e residuali, verso culture e religioni che i nativi affascinati dal consumismo hanno spesso abbandonato come obsolete e inadeguate.
Ai popoli poveri, agli arretrati che non sono al passo con i tempi, agli emarginati privi di potere, l’industria del bisogno promette comodità, sicurezza e “cose” meravigliose: seduce con la promessa del benessere facile. Ma agli abitanti dei paesi ricchi, l’esotismo primitivo di certe culture marginali promette ancora l’unica cosa di cui spesso mancano: significato, senso e mistero.

Nella nostra società solo in parte questa tendenza trova risposte nel consumo come vorrebbe l’ideologia dominante: molti cittadini riscoprono la dimensione della comunità, si pongono alla ricerca di rapporti che non siano fondati esclusivamente sul contratto e sul consumo, cercano di dare corpo ad un nuovo capitale sociale, costruiscono forme creative di senso usando come tanti bricoleur le risorse disponibili. Altri con scelta più radicale, abbandonano il campo ed abbracciano nuovi stili di vita basati sulla collaborazione e l’autoproduzione comunitaria. Altri ancora sposano le moderne tecnologie per diventare prosumer e makers che tentano di tornare padroni del loro destino sociale. Non è dato sapere se da tutte queste variegate esperienze nascerà un nuovo paradigma o se tutte verranno nuovamente omologate dalla spinta massificante del consumismo.

L’industria del bisogno non è comunque ancora riuscita a trasformato tutti i cittadini in meri consumatori, in persone per le quali l’unico scopo del lavoro è quello di acquisire i denari indispensabili per consumare. Qua e là si scorgono i segni di un possibile cambiamento che si appoggia sovente alle nuove piattaforme tecnologiche: crescono gli innovatori sociali e gli imprenditori morali che sulla creatività e la passione costruiscono il loro successo; aumentano le imprese a forte componente sociale, si rafforzano le reti di condivisione e di scambio. Per fortuna dunque non mancano opzioni diverse, interpretazioni meno passive. A volte esse privilegiano il locale, il territoriale; a volte il globale, il nomade; in alcuni casi valorizzano gli approcci democratici in altri riscoprono l’esoterismo; si ispirano alcune alla scienza altre alla tradizione. In ogni caso tendono tutte a reinterpretare creativamente il bisogno da una prospettiva più personale e critica, mostrando che altre vie sono percorribili, che si può almeno in parte rinunciare alle definizioni ufficiali costruite dall’industria del bisogno e alle soluzioni che essa propone e sovente impone. Si tratta di scelte sociali innovative che si confrontano, spesso senza saperlo, con uno dei temi più insidiosi del prossimo futuro: la distruzione di lavoro per causa dell’automazione, della robotica e delle nuove tecniche organizzative e gestionali che va di pari passo con l’enorme domanda di lavoro derivante dalla crescita demografica dei paesi più poveri. Un processo che impatterà in modo assolutamente drammatico sulla definizione dei bisogni, sui modi per soddisfarli e sull’intero pianeta.

L’industria del bisogno che ha alimentato finora il vecchio modello centrato sulla crescita illimitata e sul consumo ad ogni costo, si fonda ancora su una visione dell’uomo come attore egoistico calcolante, che si muovo in un ambiente concepito come insieme di risorse da sfruttare e come discarica.
I nuovi approcci sembrano invece fondarsi su nuove narrazioni, su storie e miti vitali che spesso parlano di sostenibilità, di buona amministrazione della terra, di convivialità possibile, di beni comuni, di tecnologie aperte e collaborative.
La forma che prenderà il mondo del prossimo futuro dipenderà anche dalle scelte che ognuno di noi farà rispetto ai propri bisogni e alle soluzioni che la società ha predisposto per soddisfarli: saranno essi solo quelli definiti dal sistema e veicolati dai media o saremo in grado anche di costruirli comunitariamente?
Pensiamoci.

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Bruno Vigilio Turra

È sociologo laureato a Trento. Per lavoro e per passione è consulente strategico e valutatore di piani, programmi e progetti; è stato partner di imprese di ricerca e consulenza e segretario della Associazione italiana di valutazione. A Bolzano ha avuto la fortuna di sviluppare il primo progetto di miglioramento organizzativo di una Procura della Repubblica in Italia. Attualmente libero professionista è particolarmente interessato alle dinamiche di apprendimento, all’innovazione sociale, alle nuove tecnologie e al loro impatto sulla società. Lavora in tutta Italia e per scelta vive tra Ferrara e le Dolomiti trentine.

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Caro lettore

Dopo molti mesi di pensieri, ripensamenti, idee luminose e amletici dubbi, quello che vi trovate sotto gli occhi è il Nuovo Periscopio. Molto, forse troppo ardito, colorato, anticonvenzionale, diverso da tutti gli altri media in circolazione, in edicola o sul web.

Se già frequentate  queste pagine, se vi piace o almeno vi incuriosisce Periscopio, la sua nuova veste grafica e i nuovi contenuti vi faranno saltare di gioia. Non esiste in natura un quotidiano online con il coraggio e/o l’incoscienza di criticare e capovolgere l’impostazione classica di questo “il giornale” un’idea (geniale) nata 270 anni fa, ma che ha introdotto  dei codici precisi rimasti quasi inalterati. Nemmeno la rivoluzione digitale, la democrazia informava, la nascita della Rete, l’esplosione dei social media, hanno cambiato di molto le testate giornalistiche, il loro ordine, la loro noia.

Tanto che qualcuno si è chiesto se ancora servono, se hanno ancora un ruolo e un senso i quotidiani.  Arrivano sempre “dopo la notizia”, mettono tutti lo stesso titolo in prima pagina, seguono diligentemente il pensiero unico e il potente di turno, ricalcano in fotocopia le solite sezioni interne: politica interna, esteri, cronaca, economia, sport…. Anche le parole sembrano piene di polvere, perché il linguaggio giornalistico, invece di arricchirsi, si è impoverito.  Il vocabolario dei quotidiani registra e riproduce quello del sottobosco politico e della chiacchiera televisiva, oppure insegue inutilmente la grande nuvola confusa del web.

Periscopio propone un nuovo modo di essere giornale, di fare informazione. di accostare Alto e Basso, di rapportarsi al proprio pubblico. Rompe compartimenti stagni delle sezioni tradizionali di quotidiani. Accoglie e dà riconosce uguale dignità a tutti i generi e tutti linguaggi: così in primo piano ci può essere una notizia, un commento, ma anche una poesia o una vignetta.  Abbandona la rincorsa allo scoop, all’intervista esclusiva, alla firma illustre, proponendo quella che abbiamo chiamato “informazione verticale”: entrare cioè nelle  “cose che accadono fuori e dentro di noi”, denunciare Il Vecchio che resiste e raccontare Il Nuovo che germoglia, stare dalla parte dei diritti e denunciare la diseguaglianza che cresce in Italia e nel mondo. .

Con il quotidiano di ieri, così si diceva, oggi ci si incarta il pesce. Non Periscopio, la sua “informazione verticale” non invecchia mai e dal nostro archivio di quasi 50.000 articoli (disponibile gratuitamente) si pescano continuamente contenuti utili per integrare le ultime notizie uscite. Non troverete mai, come succede in quasi tutti i quotidiani on line,  le prime tre righe dell’articolo in chiaro… e una piccola tassa per poter leggere tutto il resto.

Sembra una frase retorica ma non lo è: “Periscopio è un giornale senza padrini e senza padroni”. Siamo orgogliosamente antifascisti, pacifisti, nonviolenti, femministi, ambientalisti. Crediamo nella Sinistra (anche se la Sinistra non crede più a se stessa), ma non apparteniamo a nessuna casa politica, non fiancheggiamo nessun partito e nessun leader. Anzi, diffidiamo dei leader e dei capipopolo, perfino degli eroi. Non ci piacciono i muri, quelli materiali come  quelli immateriali, frutto del pregiudizio e dell’egoismo. Ci piace “il popolo” (quello scritto in Costituzione) e vorremmo cancellare “la nazione”, premessa di ogni guerra e  di ogni violenza.

Periscopio è quindi un giornale popolare, non nazionalpopolare. Un quotidiano “generalista”,  scritto per essere letto da tutti (“quelli che hanno letto milioni di libri o che non sanno nemmeno parlare” F. De Gregori), da tutti quelli che coltivano la curiosità, e non dalle elites, dai circoli degli addetti ai lavori, dagli intellettuali del vuoto e della chiacchiera.

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