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L’anno scorso ha aperto la stagione del Teatro di Occhiobello con “L’amore è un cane blu”, “un concerto visionario popolare lirico e umoristico”, come lo definiva lui stesso nelle note di regia. Sabato 22 novembre Paolo Rossi torna nel ferrarese per mettere in scena al Teatro De Micheli di Copparo il suo “Arlecchino” del nuovo millennio: uno spettacolo che, come il costume della maschera della tradizione popolare, sembra essere un insieme variopinto di varie suggestioni. Dai suggerimenti del grande regista Giorgio Strehler, alla tradizione popolare, al romanzo “Opinioni di un clown”, la realtà quotidiana e i sogni, queste le fonti di ispirazione per uno spettacolo che ha il preciso obiettivo di essere ogni sera diverso: un assemblaggio di monologhi, canzoni in divenire, fatti personali, ricordi, sogni, storiellette e riflessioni sia sulla professione del comico oggi sia su quel che accade nel nostro Paese.

(S)punto di partenza: se andassimo in una birreria di Amburgo, come potremmo adeguare Arlecchino a quel luogo per sbarcare il lunario? Questo “Arlecchino” promette di essere una serata di delirio organizzato, in cui a farla da padrone saranno l’improvvisazione e l’interazione con il pubblico, come lo stesso Rossi ci ha anticipato nell’intervista che ci ha concesso prima dello spettacolo.

Da dove è nata l’idea di questo “Arlecchino”?

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Paolo Rossi

È una questione ‘personale’ perché anni fa Giorgio Strehler mi propose di iniziare a preparare un Arlecchino del terzo millennio suggerendomi di prendere i miei pezzi da stand-up comedian, i miei monologhi, le mie affabulazioni e riscriverli declinandoli alla forma della commedia dell’arte. Poi lui è scomparso e purtroppo non se ne è fatto nulla, però mi è stato riproposto poco tempo fa dal Centro ricerca teatrale di Milano, nella forma di una specie di esperimento in cui ci si confrontava fra i vari Arlecchino, cioè con i vari attori che hanno interpretato la maschera, fra i quali Ferruccio Soleri. Da qui poi è nato questo spettacolo in cui, com’è di solito nel mio stile, porto sul palco l’attore, cioè quello che conosce il mestiere, il personaggio, quello che interpreta o che evoca, ma anche la persona. Insomma una montagna russa tra vero e falso, tra l’inventato e il realmente accaduto: insieme ai virtuosi del Carso, che mi hanno accompagnato già in “L’amore è un cane blu”, diamo vita a una serata basata sull’improvvisazione.

In fondo però è anche una riflessione sul tuo mestiere di attore e soprattutto di attore comico: vi chiedete come adattare lo spettacolo ai vari luoghi e alle diverse occasioni in cui potrebbe essere messo in scena.
Sì, in realtà è un modo abbastanza ironico di riflettere su dove possiamo andare a lavorare durante la crisi: matrimoni, divorzi, funerali, circoncisioni. Bisogna andare a cercare il lavoro dove c’è, quindi la serata è composta di varie proposte. Alcuni sono miei brani storici che ho riscritto completamente proprio seguendo le indicazioni di Strehler, alcuni sono brani nuovissimi e poi, come dicevo prima, c’è una gran dose di improvvisazione e di interazione del pubblico

L’Arlecchino che vedremo in scena non è quindi il servitore di due padroni di Goldoni e neanche lo Zanni della commedia dell’arte italiana, sei andato a pescare una versione ancora più ‘ancestrale’?
Sempre dietro suggerimento di Giorgio Strehler ho usato come riferimento il primo Arlequin, che andava e veniva dall’aldilà. Come si va e si viene dall’aldilà? Con i sogni: è lì che si incontrano le persone che non ci sono più, le situazioni scomparse. In altre parole le proposte, le idee che presento durante lo spettacolo sono quelle che mi vengono molto spesso dai sogni.

Come il vestito della maschera della tradizione popolare, anche questo spettacolo perciò è un patchwork dei tuoi pezzi che ricuci ogni volta in maniera diversa attraverso l’improvvisazione?
Oltre ai miei vecchi pezzi, ci sono quelli totalmente nuovi, che forse sono ancora di più rispetto ai primi, ci sono canzoni inedite di Gian Maria Testa, e poi grazie all’improvvisazione ogni sera succedono cose nuove: ogni sera ci si rilancia e si inventa. Goldoni ha fissato la drammaturgia in modo da bloccare l’improvvisazione, che in quel periodo in effetti era poco professionale. Noi invece siamo professionisti dell’improvvisazione credo, quindi riprendiamo la pratica.

In “Opinioni di un clown”, un’altra delle fonti di ispirazione per il tuo Arlecchino, il clown di Böll si schiera contro un paese in pieno miracolo economico, noi ci troviamo nella situazione opposta. Le tensioni e lo scoramento che stiamo vivendo entrano in questo spettacolo? Come?
Entra in una maniera che mi è stata suggerita proprio da un sogno con un mio collega che non c’è più: il primo compito di un comico, di un saltimbanco oggi è quello di portare conforto, ma non in senso pietistico, quello che oltre a tirar su di morale – e già questo sarebbe abbastanza oggi – offre un punto di vista diverso, insinua un dubbio più che dare un messaggio, fa domande, magari quelle che si fanno tutti. Io parlo della realtà, in questo senso Arlecchino è uno spettacolo politico nel senso generale, non della satira degli anni ’90, perché non si può fare la parodia della parodia, l’imitazione di un’imitazione. Noi cerchiamo di trovare altre vie, parliamo dei problemi reali, della strada, andiamo nel piccolo e nel quotidiano, non inseguiamo i fatti eclatanti.

Qual è il suo ruolo lo hai già detto, ma chi è Arlecchino nella società contemporanea?
Lo possiamo fare in tanti, è un ruolo aperto, non c’è copyright.

Nell’ultimo periodo stai facendo laboratori con i giovani, ti sei fatto un’opinione su questa ‘famigerata’ categoria anagrafica?
Ti parlo del mio campo: personalmente non credo alle compagnie generazionali, non hanno mai funzionato in teatro. In realtà, per quanto possiamo passare per sperimentali, innovatori, trasgressivi, per esserlo fino in fondo bisogna affidarsi alla tradizione. Io credo che una compagnia debba essere trasversale, deve avere il ragazzo come il novantenne perché questa mescolanza crea esperienza.

L’anno scorso hai portato “L’amore è un cane blu” a Occhiobello, quest’anno con “Arlecchino” vai in scena a Copparo, perché questa predilezione per le realtà più ‘intime’?

Sono un saltimbanco, perciò vado ovunque mi chiamano: con questo spettacolo siamo disponibili anche per matrimoni, divorzi, eccetera. Poi, a titolo personale, vengo con grande piacere perché io ho giocato a calcio fino in prima categoria e a Copparo ho segnato uno dei più bei goal della mia vita. Me lo sogno ancora adesso: sono partito da metà campo e sono arrivato in porta, non so ancora come sono riuscito a prendere la palla e a fare quell’azione. Anzi penso proprio che andrò a vedere se quel campo esiste ancora.

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Federica Pezzoli


Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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