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Umile e tenace, orgoglioso di aver raggiunto traguardi prestigiosi nella sua carriera. Simone Folletti è il capo preparatori atletici della Juventus. Da giovane giocava a calcio, poi è stata la pallavolo a rapirlo: “Ho fatto tutte le categorie del settore giovanile fino alla juniores in una squadra dilettantistica della provincia e poi ho virato sulla pallavolo, mi piaceva di più. La passione per lo sport me l’ha passata mio padre (giocatore di calcio a buon livello, ndr), ma fu il prof. Bellettini – mio insegnante di educazione fisica – a incoraggiarmi a lavorare nel mondo dello sport, al punto tale che già alle medie avevo in mente di fare l’Isef”. Un’idea che si è tramutata in realtà a Urbino e che si è perfezionata durante degli studi condotti al Centro biomedico diretto dal professor Conconi a Ferrara. “Ho cominciato per caso, durante il periodo universitario ho ricevuto la chiamata di un amico fisioterapista – Andrea Cavallini – e la mia avventura ha avuto inizio. Ho seguito Rudy Grazzi alla guida della Poggese. Dopo questa esperienza, e quella come coordinatore dell’attività del settore giovanile dell’Argentana, fui chiamato per svolgere la preparazione estiva alla Berretti della Spal con allenatore proprio Grazzi. Fu allora che feci colpo su Bozzao ed entrai nel settore giovanile della Spal dove ebbi modo di collaborare anche con gli Allievi nazionali guidati da Riccardo Righetti e con Fabio Mastrocinque nella stagione seguente alla Berretti… passo dopo passo sono arrivato sino alla finale di Berlino di qualche settimana fa.”
Quello del preparatore atletico è un ruolo spesso bistrattato e preso in causa solo nei momenti negativi: “È un ruolo svolto “dietro le quinte” come giusto che sia, ma spesso siamo i primi imputati quando ci sono infortuni, anche se le cose stanno lentamente cambiando. Bisogna capire che è pur sempre un incarico di supporto all’allenatore e lo considero uno dei mattoni che formano il muro di una squadra di calcio.” Un lavoro in cui Folletti crede fortemente: “Se non ci credessi non lo farei. Oltre agli aspetti tecnici, mantenere una preparazione fisica ottimale è il modo migliore per affrontare il calcio moderno che, personalmente, cerco di vivere come un gioco, pur conscio della grande responsabilità che il mio ruolo richiede. Non nego che ogni volta che indosso la divisa del club a cui appartengo le emozioni sono sempre fortissime. Mi rendo conto di far parte di una storia formata da tante storie diverse ma grandissime e sono orgoglioso di farne parte. Il ‘bambino’ in ognuno di noi è il motivo per cui ancora oggi vedo questo sport così: sono contento di condurre la mia professione in questa maniera e credo che questo si rispecchi nella quotidianità. Viviamo di emozioni e sono convinto siano queste a farci percepire l’importanza di ciò che stiamo vivendo: non è giusto abbattersi o esaltarsi nelle vicende che affrontiamo, ci vuole equilibrio”. Preparatore atletico alla vita, verrebbe da dire.
Allenare venti, trenta giocatori, e di conseguenza affrontare storie differenti non è semplice: “Abbiamo a che fare con ragazzi di estrazione e culture diverse: i più maturi capiscono e vivono l’evento sportivo nella sua totalità, altri magari faticano a capire l’utilità di uno sforzo fisico notevole e allora bisogna instaurare un rapporto di fiducia fondamentale per crescere insieme. Il contatto quotidiano con loro è il modo migliore per generare una relazione personalizzata con cui creare affettività e dar vita a legami importanti per lavorare bene. E’ un donarsi per ricevere, creando empatia. Il giusto mix, per me, è l’approccio pratico coadiuvato da conoscenze scientifiche. Le sfaccettature e i vari casi, giocatore per giocatore, si imparano strada facendo.”
La preparazione atletica rischia, di questi tempi in maniera particolare, di diventare moda: “Ogni anno sembra ci sia un nuovo modo di allenare e tutti sembrano impazzire per quello; per fare un esempio, il modo di gestione della palla degli spagnoli negli anni scorsi sembrava qualcosa di rivoluzionario. Ci sono culture che permettono un determinato tipo di preparazione con il pallone mentre credo ci debbano essere esercitazioni in cui ci sia un certo bilanciamento: lavoro con la palla e a secco, soprattutto durante la preparazione precampionato. Far fatica aiuta a sopportare le difficoltà, anche nella testa”. La parte fisica è importante, ma non bisogna dimenticare l’aspetto mentale, molto rilevante al giorno d’oggi: “E’ una delle componenti più trascurate nel quale ci sono maggior margini di miglioramento: tanti la snobbano, considerandola una debolezza, invece penso che la nostra mente abbia un potere clamoroso che nei momenti più difficili dello sforzo fisico ti possa aiutare. Il celebre motto della Juventus “fino alla fine”, nel nostro ambiente si percepisce e i giocatori l’hanno fatto loro, te lo posso garantire.“
Folletti racconta come ha variato in questi anni di lavoro pur mantenendo sempre fede alla sua indole: “L’atteggiamento professionale è sempre quello dei tempi della Spal. Quando lavoro sono un professionista e mi piace che le cose vengano fatte in un certo modo, anche se con il tempo e grazie a Mr. Allegri e Marco Landucci ho imparato ad essere più elastico: se prima imponevo un dogma, ora attraverso il dialogo con l’atleta cerco la soluzione giusta”. La capacità nel comunicare con giocatori che hanno caratteri diversi l’ha appresa col tempo: “In questo mi hanno aiutato il dott. Pecciarini e il dott. Vercelli, due esperti di psicologia applicata allo sport (in particolare quest’ultimo ha seguito atleti olimpici) che mi hanno fatto conoscere modalità e punti di vista differenti per approcciare l’atleta. È un percorso molto personale, con un continuum tra i due mental coach (prima al Milan e ora alla Juventus) che serve a me per rapportarmi meglio coi giocatori che alleno. Abbiamo trovato insieme qualche via che ci ha aiutato a raggiungere obiettivi comuni coi giocatori: quest’anno ho cercato un rapporto più personale con ognuno di loro, soprattutto con chi è predisposto alla conoscenza e si dimostra recettivo e voglioso di capire il lavoro. Credo fermamente nell’individualizzazione dell’allenamento. In base alla mia esperienza propongo esercizi personalizzati a ogni giocatore sempre nel loro interesse pur non stravolgendo coloro che hanno una tabella di marcia prestabilita da tempo che da’ loro frutti.”
Non di rado però, la preparazione atletica viene messa alla prova da fattori esterni che fanno sì che non ci sia continuità di lavoro: “Se uno potesse scegliere, credo che la montagna sarebbe il luogo più adatto: le temperature di lavoro più miti riescono a far rendere meglio gli atleti visto che sono previsti doppi allenamenti ogni giorno. Purtroppo però, gli sponsor e le tournée all’estero (sempre finalizzate ad acquisire introiti) non sempre agevolano il nostro lavoro durante la preparazione estiva. Il nostro obiettivo è mantenere un livello prestativo medio-alto per tutto il periodo della stagione: quest’anno abbiamo avuto un trend sempre positivo, testimoniato anche dal fatto che siamo stati in testa al campionato dalla prima all’ultima giornata. Non abbiamo avuto momenti particolarmente difficili, se non un lieve calo a gennaio con qualche pareggio di troppo poiché volevamo mettere benzina nella gambe dato che da febbraio avremmo giocato ogni tre giorni: abbiamo chiesto sforzi extra ai ragazzi che hanno avuto la capacità di capire che quello era il momento giusto per faticare ancora di più se volevano raggiungere risultati notevoli. Hanno caratteristiche fisico-tecniche e mentali che li rendono di un altro livello. Ci sono ragazzi che venivano da realtà (Inghilterra e Spagna) secondo cui fare la preparazione fisica non era necessario: la soddisfazione più grande è stato vedere come loro si ricredessero riconoscendo che dal lavoro, e non solo dalla parte tecnica, si raggiungono i risultati. Se riesci a piantare il seme e far crescere la pianta del lavoro dentro di te, è quello che poi ti porterà a grandi risultati per sempre: tanti sforzi e sacrifici che poi ti portano a vincere come squadra e a formarti come giocatore di livello, togliendoti enormi soddisfazioni”.
Sforzi fisici che in alcuni casi e in altre società, sono stati agevolati da sostanze non consentite: “Il doping non è una leggenda, ci sono state persone incriminate e purtroppo è, o è stata, realtà. Nelle società in cui sono stato, sarò ingenuo, non ho mai avuto sentore che ci potessero essere pasticci di questo tipo. Il reintegro idro-alimentare è normale che venga attualizzato ma che io sappia, sempre dentro la normalità delle cose”.
Riprende: “Il lavoro metabolico, legato ad un lavoro di forza, è alla base di una buona preparazione fisica. Inoltre, come club distribuiamo programmi personalizzati per prepararci al meglio durante le vacanze: ciò è frutto del lavoro di varie aree che collaborano alla gestione dei calciatori, creando un rapporto di collaborazione e sintonia. Le quattro aree principali sono: la tecnico-tattica, la performance – che è quella di cui mi occupo io – l’area medica-nutrizionale e quella mentale. Se queste aree lavorassero a compartimenti stagni il meccanismo non funzionerebbe. Anche la dirigenza all’interno del club risulta molto presente in maniera costruttiva e ciò, dal mio punto di vista, è impagabile.”
Una condivisione che, specialmente con l’allenatore, ha portato i suoi frutti: “Con mister Allegri ci basta uno sguardo per capire cosa c’è che va o che non va, la fiducia è determinante per lavorare in modo sereno. È grazie a questa che si crea affettività e di conseguenza si rende meglio anche sul lavoro. Lui è il responsabile di tutti noi collaboratori, il confronto sui programmi di lavoro è quotidiano ed è proprio durante questi incontri che si decidono le esercitazioni ed i tempi dell’allenamento.
Non c’è stato feeling immediato al suo arrivo alla Spal. Ricordo un nostro incontro in ritiro a Casole Bruzio con lui febbricitante in stanza ed io (alla prima esperienza in una prima squadra professionista) che gli spiegavo il mio modo di lavorare: da lì è stato un crescere di stima e ammirazione reciproca. Vede sempre il lato positivo delle cose – anche quando sono molto negative – e ha sempre una parola per stemperare la situazione. Io, di contro, tendo a essere iper critico in ciò che affronto e ad abbattermi un po’ e quindi ci completiamo, motivo per cui ho scelto di seguire il mister mentre qualche altro collega si lega alla società (come Tognaccini al Milan e Sassi alla Juventus). Mi piace creare rapporti con le persone e siccome ci devo lavorare a stretto contatto, non è detto che trovi sempre una persona empatica: dal momento che penso di averla trovata e lui crede in me, sono contento di rimanere dove sono, al suo fianco.”
Particolarmente carico di emozioni è stato l’anno appena passato: “Parlando di quest’anno, non abbiamo né rimpianti né rammarico: è stata una stagione straordinaria, forse irripetibile, anche se nulla è impossibile… diciamo che sarà un’altra bella sfida! Aver creato una coscienza collettiva e la convinzione di potersela giocare con tutti alla pari è stato lo ‘step’ su cui abbiamo impostato la nostra cavalcata, specialmente in Champions. Max (Allegri, ndr) ha sempre dichiarato che le potenzialità della squadra c’erano ed era fermamente convinto che potessimo arrivare fino in fondo, pur essendo l’unico all’inizio!” – ride. “E’ stato intelligente nel cambiare mentalità e gioco a piccoli passi, rendendo cosciente la squadra della propria forza giorno dopo giorno: un percorso lungo dieci mesi – probabilmente ancora più bello perché così lungo – che ci ha portato alla finale di Berlino, passando per Dortmund, vero nodo cruciale della stagione, dove abbiamo preso fiducia e abbiamo capito di essere sulla strada giusta. La sua filosofia alla squadra è piaciuta e si è visto, portando accorgimenti tattici ad un gruppo già vincente che quest’anno si è superato”.
Pur lavorando lontano da casa e avendo scisso la passione sportiva (era un tifoso del Milan) dal lavoro, Folletti ci tiene a ricordare come la Spal e la città di Ferrara siano uno dei ricordi più belli: “La Spal è sempre stata nel mio cuore, andavo allo stadio in curva ovest da ragazzo. Nella prima squadra professionista che ho allenato, ho avuto la fortuna di incontrare Ranzani e poi successivamente Bozzao che mi hanno trasmesso la storia della nostra squadra nella nostra città. Mattioli e Colombarini (membri della presidenza attuale) sono venuti a trovarci a Vinovo e poi, per uno strano caso del destino, la squadra ha inanellato le vittorie che per poco non ci hanno portato ai playoff di B. E’ una società che lavora bene e credo che alla lunga potrà portare la squadra a raggiungere risultati fino ad ora insperati. Penso che la dimensione sportiva giusta per la Spal possa essere la serie B, ma mai porre limiti ai sogni… Abbiamo avuto un grande presidente come Mazza che ha cambiato la visione del calcio moderno con l’introduzione del concetto di centro sportivo e della foresteria annessa. Quando Bozzao, mi guardò negli occhi e mi disse ‘per me sei in gamba, vuoi rimanere con noi per tutta la stagione?’ mai ci fu regalo più grande.”
Il futuro però sembra essere lontano dal calcio italiano: “Mi è sempre piaciuto viaggiare, anche con le storie dei giocatori che alleno: è un modo diverso ma pur sempre interessante per farlo. Sono molto attratto dagli sport americani, da come vivono lo sport negli States: non mi dispiacerebbe fare un’esperienza là. Mi piace il loro modo di pensare e l’opportunità di emergere che sono riusciti a dare a tante persone. Tanto è vero che la scorsa primavera, durante il periodo successivo all’esonero dal Milan, ho passato più di un mese tra Washington, Nebraska, California e Louisiana a captare qualche segreto nelle Università più importanti e nei club (soprattutto di Nba) per poter integrare la mia visione dello sport ad una modalità di lavoro perfezionista come quella americana, dove la tecnologia è più che mai al servizio dell’uomo. Se il mister venisse chiamato da quelle parti lo seguirei al volo!”, dice soddisfatto.

Foto LaPresse, si ringrazia per gentile concessione.

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Alessio Pugliese


Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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