Skip to main content

di Marcella Mascellani

E’ uno dei sentimenti più diffusi e più ribelli. Non risponde a regole, non conosce limiti. E’ nato con l’uomo.
Moliere scriveva che la virtù è sempre perseguitata: gli invidiosi muoiono, l’invidia mai.
Ci accompagna per tutta la vita e nessuno ne è privo. Sostiene l’impeto con il quale, da bambini, strappiamo dalle braccia il gioco al nostro amico felice di possederlo e il risentimento che proviamo per il nostro compagno di classe premiato con un bel voto in materia.
Serpeggia in ogni ambiente sociale e non fa distinzione di grado culturale. Va dall’indifferenza forzata con la quale evitiamo di salutare il nostro collega lungo il corridoio del comune luogo di lavoro, al gusto del pettegolezzo che sicuramente aiuterà a mettere in cattiva luce la nostra vittima.
E soprattutto avrà un effetto catartico per noi. Aiuterà a liberarci di quella tristezza o di quel dolore rispetto all’evidenza del bene altrui.
Sin da bambini, a scuola, in famiglia e in altri contesti comunitari, ci insegnano a non invidiare l’altro.
Il difficile è metterlo in pratica.

A proposito del pettegolezzo il Papa, in un’omelia del gennaio 2016, ha affermato: “L’invidia uccide e non tollera che un altro abbia qualcosa che io non ho”. E ancora: “E’ una sofferenza che desidera la morte degli altri. Ma quante volte nelle nostre comunità non dobbiamo andare troppo lontano per vedere questo? Per gelosia si uccide con la lingua. Uno ha invidia di questo, di quell’altro e incominciano le chiacchere: e le chiacchere uccidono.”
Non a caso nella religione cattolica l’invidia è considerata il peggiore dei sette vizi capitali perché include in se l’odio e il tradimento, fino a sfociare nell’omicidio.
Nella religione ebraica tutta la comunità religiosa è impegnata a prevenire il sorgere di tale sentimento anche perché la colpa di questo peccato potrebbe ricadere su di un altro. Il credo religioso ebraico è basato sull’idea che ogni individuo è responsabile di un altro individuo.
La religione islamica ne prevede una manifestazione unidirezionale: chi abbraccia la religione islamica non invidia, può essere solo invidiato. L’individuo viene religiosamente istruito ad accettare i suoi limiti e le possibili disuguaglianze che si manifestano nella vita terrena.
Nel buddismo dell’invidia emerge il sentimento e la filosofia buddista invita ad esplorare il sintomo che ce lo rivela. Analizzando noi stessi, ci renderemo conto che tale sintomo nasce nella mente e nella mente finisce.
L’invidia ci può far perdere il nostro controllo. Nel XIII canto della Divina Commedia gli invidiosi di Dante hanno gli occhi cuciti, con il fil di ferro, come si fa con gli sparvieri non ancora addomesticati.
Non vedere, non sapere, non conoscere la felicità dell’altro aiuta a non invidiare.
Diversamente è quasi fisiologico che il sentimento compaia se non si è formati a non esserlo.

Il gruppo Gemelli Diversi, nel 1998, cantando l’invidia, addirittura la definì un virus: “Cercando di stare dove non è possibile ammalarsi di sto virus inguaribile come primo sintomo sa cattiveria non c’è malattia mortale più letale dell’invidia”.
Un sintomo virale che ci porta così a pensare che c’è un’invidia individuale, ma ce n’è anche una collettiva.
Nel mondo del cinema il film che in maniera chiara rappresenta la ritorsione di un rancore sociale è ‘Malena’ di Giuseppe Tornatore. La protagonista è costretta ad arrendersi alla rabbia collettiva rinunciando a se stessa e schierandosi con gli invidiosi.
Ecco, per esempio, cosa consente di liberarsi dell’invidia altrui: allinearsi, o fingere di allinearsi, agli altri può aiutare, ad esempio, a sopravvivere in un contesto scolastico, lavorativo o di comunità in generale.
E’ possibile guarire dall’invidia? Non credo. In alcune persone il sentimento dell’invidia è presente per tutta la vita e, a mio avviso, non ha nulla a che a che vedere con il sentimento competitivo che può far raggiungere dei traguardi e delle vittorie personali e collettive.
L’invidia annebbia la vista, spegne le parole buone e accende quelle cattive.
Francois-Renè de Chateaubriand asseriva che “Ci conciliamo con un nemico che ci è inferiore per qualità o di cuore o di spirito. Ma non perdoniamo mai a chi ci supera nell’anima e nel genio”.
L’invidia è recidiva; quando una persona è invidiosa il sentimento prima o poi torna a manifestarsi.
Lascia un oggetto, o meglio un soggetto, per poi passare immediatamente a un altro.
L’invidia può essere anche la cartina tornasole che ci aiuta a distinguere un amico.
Un amico gioisce sinceramente ai meriti a noi riconosciuti. Il rancoroso che ci vede, quindi, come un nemico, no.

Un esempio di invidia moderna, invece, è quella che si manifesta su Facebook, uno dei social che raccoglie utenti di tutte le età e di tutti i ruoli sociali e dove il manifestarsi della rabbia dà il massimo di se: “Io non vedo i tuoi post” in realtà corrisponde ad un “Faccio finta di non vedere i tuoi post, per invidia, perché mi sembri troppo felice”.
Basta che qualcuno dichiari un proprio disagio, immediatamente si scatena il popolo del web in suo sostegno.
Più difficile avere il riconoscimento per un traguardo “postato” raggiunto.
Gli ambienti lavorativi, poi, sono un buon terreno di coltura di questo sentimento.
L’altro, l’avversario, è contro di noi, o almeno è considerato tale. L’avversario è nemico, rivale, antagonista. Stimola odio, antipatia, ostilità. Liberarsi della sindrome dell’avversario è un esercizio complicato.
Ambrose Bierce, giornalista e scrittore statunitense che visse a cavallo tra l’Ottocento e gli inizi del Novecento, lo definiva “Un essere deprecabile che si permette di avere le nostre stesse aspirazioni”.
Ed è così che guardandomi attorno, osservando e ascoltando, ho capito che aveva ragione Cartesio sostenendo che: “Alla resa dei conti non c’è vizio che nuoccia tanto alla felicità dell’uomo come l’invidia”.

tag:

Redazione di Periscopio


Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

Caro lettore

Dopo molti mesi di pensieri, ripensamenti, idee luminose e amletici dubbi, quello che vi trovate sotto gli occhi è il Nuovo Periscopio. Molto, forse troppo ardito, colorato, anticonvenzionale, diverso da tutti gli altri media in circolazione, in edicola o sul web.

Se già frequentate  queste pagine, se vi piace o almeno vi incuriosisce Periscopio, la sua nuova veste grafica e i nuovi contenuti vi faranno saltare di gioia. Non esiste in natura un quotidiano online con il coraggio e/o l’incoscienza di criticare e capovolgere l’impostazione classica di questo “il giornale” un’idea (geniale) nata 270 anni fa, ma che ha introdotto  dei codici precisi rimasti quasi inalterati. Nemmeno la rivoluzione digitale, la democrazia informava, la nascita della Rete, l’esplosione dei social media, hanno cambiato di molto le testate giornalistiche, il loro ordine, la loro noia.

Tanto che qualcuno si è chiesto se ancora servono, se hanno ancora un ruolo e un senso i quotidiani.  Arrivano sempre “dopo la notizia”, mettono tutti lo stesso titolo in prima pagina, seguono diligentemente il pensiero unico e il potente di turno, ricalcano in fotocopia le solite sezioni interne: politica interna, esteri, cronaca, economia, sport…. Anche le parole sembrano piene di polvere, perché il linguaggio giornalistico, invece di arricchirsi, si è impoverito.  Il vocabolario dei quotidiani registra e riproduce quello del sottobosco politico e della chiacchiera televisiva, oppure insegue inutilmente la grande nuvola confusa del web.

Periscopio propone un nuovo modo di essere giornale, di fare informazione. di accostare Alto e Basso, di rapportarsi al proprio pubblico. Rompe compartimenti stagni delle sezioni tradizionali di quotidiani. Accoglie e dà riconosce uguale dignità a tutti i generi e tutti linguaggi: così in primo piano ci può essere una notizia, un commento, ma anche una poesia o una vignetta.  Abbandona la rincorsa allo scoop, all’intervista esclusiva, alla firma illustre, proponendo quella che abbiamo chiamato “informazione verticale”: entrare cioè nelle  “cose che accadono fuori e dentro di noi”, denunciare Il Vecchio che resiste e raccontare Il Nuovo che germoglia, stare dalla parte dei diritti e denunciare la diseguaglianza che cresce in Italia e nel mondo. .

Con il quotidiano di ieri, così si diceva, oggi ci si incarta il pesce. Non Periscopio, la sua “informazione verticale” non invecchia mai e dal nostro archivio di quasi 50.000 articoli (disponibile gratuitamente) si pescano continuamente contenuti utili per integrare le ultime notizie uscite. Non troverete mai, come succede in quasi tutti i quotidiani on line,  le prime tre righe dell’articolo in chiaro… e una piccola tassa per poter leggere tutto il resto.

Sembra una frase retorica ma non lo è: “Periscopio è un giornale senza padrini e senza padroni”. Siamo orgogliosamente antifascisti, pacifisti, nonviolenti, femministi, ambientalisti. Crediamo nella Sinistra (anche se la Sinistra non crede più a se stessa), ma non apparteniamo a nessuna casa politica, non fiancheggiamo nessun partito e nessun leader. Anzi, diffidiamo dei leader e dei capipopolo, perfino degli eroi. Non ci piacciono i muri, quelli materiali come  quelli immateriali, frutto del pregiudizio e dell’egoismo. Ci piace “il popolo” (quello scritto in Costituzione) e vorremmo cancellare “la nazione”, premessa di ogni guerra e  di ogni violenza.

Periscopio è quindi un giornale popolare, non nazionalpopolare. Un quotidiano “generalista”,  scritto per essere letto da tutti (“quelli che hanno letto milioni di libri o che non sanno nemmeno parlare” F. De Gregori), da tutti quelli che coltivano la curiosità, e non dalle elites, dai circoli degli addetti ai lavori, dagli intellettuali del vuoto e della chiacchiera.

Periscopio è  proprietà di un azionariato diffuso e partecipato, garanzia di una gestitone collettiva e democratica del quotidiano. Si finanzia, quindi vive, grazie ai liberi contributi dei suoi lettori amici e sostenitori. Accetta e ospita sponsor ed inserzionisti solo socialmente, eticamente e culturalmente meritevoli.

Nato quasi otto anni fa con il nome Ferraraitalia già con una vocazione glocal, oggi il quotidiano è diventato: Periscopio naviga già in mare aperto, rivolgendosi a un pubblico nazionale e non solo. Non ci dimentichiamo però di Ferrara, la città che ospita la redazione e dove ogni giorno si fabbrica il giornale. e Ferraraitalia continua a vivere dentro Periscopio all’interno di una sezione speciale, una parte importante del tutto. 
Oggi Periscopio ha oltre 320.000 lettori, ma vogliamo crescere e farsi conoscere. Dipenderà da chi lo scrive ma soprattutto da chi lo legge e lo condivide con chi ancora non lo conosce. Per una volta, stare nella stessa barca può essere una avventura affascinante.  Buona navigazione a tutti.

Tutti i contenuti di Periscopio, salvo espressa indicazione, sono free. Possono essere liberamente stampati, diffusi e ripubblicati, indicando fonte, autore e data di pubblicazione su questo quotidiano.

Francesco Monini
direttore responsabile


Chi volesse chiedere informazioni sul nuovo progetto editoriale, può scrivere a: direttore@periscopionline.it