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In tempi di costrizione in casa da pandemia, mi sono preso il tempo di leggere Le virtù del nazionalismo, il libro di Yoram Hazony presentato fresco di stampa a Ferrara lo scorso 12 dicembre 2019.
Dico subito che sono tante le cose che non so, per avere la pretesa di fare il pelo e contro pelo a chi è ritenuto fra i più vivaci intellettuali israeliani contemporanei: filosofo, pensatore politico, biblista, presidente del The Herzl Institute di Gerusalemme. Eppure qualche osservazione si può osare, rispetto a uno studio che entra senza giri di parole in un tema di bollente attualità.

Per quel poco di sintesi che si può fare di 323 pagine, Hazony sostiene che il miglior ordinamento politico sia un ordine mondiale di stati nazionali e indipendenti, mentre il peggiore è quello che si vuole basare su istituzioni internazionali: dall’ONU fino all’Unione Europea. Il motivo di fondo è che questo secondo modello è la costante riedizione di un potere imperiale che, inesorabilmente, finisce sempre per soggiogare e umiliare i legittimi interessi nazionali. Questa convinzione si fonda a partire dalla Bibbia ebraica (la TaNaK, sigla delle iniziali delle raccolte di libri che la compongono: Torah,  ossia i cinque libri del Pentateuco – Genesi, Esodo, Levitico, Numeri e Deuteronomio -, Neviim, i Profeti, e i Ketuvim, tutti gli altri Scritti).
Secondo Hazony, la storia biblica è un lineare e costante anelito alla fondazione dello stato (regno) nazionale d’Israele, contro le brame imperialiste del tempo (dalla schiavitù e della fuga dall’Egitto, con il celebre episodio del passaggio del Mar Rosso, alla cattività babilonese). Le radici religiose delle ‘virtù’ del nazionalismo proseguono con la Riforma protestante, in opposizione, ancora, all’imperialismo della Chiesa di Roma, incarnato nel principio espansionista della sua cattolicità, cioè universalità. Anche il milieu protestante viene ricondotto alle sorgenti del testo sacro d’Israele, dal momento che la Bibbia (in volgare), unitamente alla rivoluzione della stampa, per Lutero fu il cardine della sua svolta.
A sostegno di questo secondo movimento della storia, l’autore legge lo scontro tra Elisabetta (figlia di Enrico VIII) e l’Invincibile Armada di Filippo II di Spagna (1588), ossia contro l’imperialismo cattolico stile Sacro romano impero. Così presero le mosse le storie nazionali d’Inghilterra (con una chiesa nazionale), cui l’autore aggiunge altri paesi come l’Olanda e la nascita degli Stati Uniti d’America. Esattamente come la Bibbia ebraica sarebbe all’origine anche del peculiare itinerario del cattolicesimo nazionale francese, “testardamente resistendo – scrive – a papi e imperatori”.

Già questo primo basamento nella tradizione biblica a sostegno della causa nazionalista, merita una prima riflessione. Piero Stefani  nel suo Il grande racconto della Bibbia (2017) ricorda che, nonostante le aspirazioni, fu breve l’unità d’Israele, divisosi poi nei regni del Nord e di Giuda, non certo a causa di un’aggressione esterna.
Silvia Zanconato, biblista ferrarese, fa inoltre notare come la Torah, ovvero la Legge al cuore dell’identità e fedeltà ebraica, si chiuda con la visione della Terra promessa, non con la sua conquista e il suo possesso. In altre parole, nella Bibbia convivono e discutono chiavi di lettura in tensione: quella nazionalista, certo, ma anche quella che s’interroga sulla iineliminabile presenza dell’ ‘altro’, compagno, fratello, amico, straniero o nemico, ma sempre imprescindibilmente in rapporto.

Universalismo uguale Imperialismo

Continuando a seguire le tesi di Hazony, si arriva al pensiero liberale-illuminista (da Locke a Kant), messo sul banco degli imputati perché reo di essere anch’esso imperialista. Vediamo perché.
Non convince il filosofo israeliano nemmeno la teoria classica del contratto sociale, in base alla quale dallo Stato Naturale di libertà, l’uomo si emancipa, dando vita alla società per via del consenso, cioè facendo appello alla ragione. Una teoria che sfocia in un universalismo, perché accomuna tutti gli uomini nella cifra della ragione che ne fonda la libertà e, quindi, l’uguaglianza.
Anche in questo caso, universalismo viene letto come imperialismo, al quale Hazony oppone il principio del “patto di mutua fedeltà”, ossia il senso di appartenenza dell’uomo alla famiglia, clan, tribù e, infine, alla Nazione. Un ragionamento che si basa sulla sfera del sé, nel senso che ciascuno sente ogni minaccia come rivolta a se stesso, ai propri genitori, fratelli, parenti, nonni, comunità (clan, tribù) e alla Nazione di cui si sente parte, per cultura, tradizione, educazione e religione.
Viceversa, l’uomo non sentirebbe la medesima intima appartenenza verso una astratta comunità internazionale. Un’analisi che trae forza dalle lezioni filosofiche dello scetticismo ed empirismo anglosassoni, in opposizione all’astrattismo illuminista. Da qui il senso della Nazione che, tradotto, pare l’espressione della triade dio, patria, famiglia. E in difesa della Nazione, ogni uomo sarebbe disposto a qualsiasi sacrificio, mentre non proverebbe alcuna temperatura morale per un universalismo percepito come un’imposizione. E, come tale, imperialista.
Gli esempi storici di Napoleone e di Hitler, sarebbero, secondo questa lunghezza d’onda, compresi nel novero dell’imperialismo, perché intimamente connotati da un espansionismo estraneo al nazionalismo, più tendenzialmente geloso di tutelare-conservare i propri confini, innanzitutto culturali. Il fatto stesso che il Terzo Reich nazista fosse un richiamo esplicito al Primo Reich, si concepisse cioè come la riedizione del Sacro romano impero, è portato come conferma del ragionamento.

Una tesi di destra che non convince

Non convince, almeno me, come si possa trascurare che la follia nazista si sia compiuta nel nome di una ‘tedeschità’ sacralmente investita di dominare il mondo, sulla scorta di una degenerata superiorità razziale, verrebbe da dire, della tribù germanica. Come, del resto, il disastro bonapartista non è stato perpetrato tanto nel nome dei principi illuministi, quanto di un’esondante grandeur tutta francese.
Non sarebbe il caso di ammettere che il verme dell’odio espansionista e oppressivo ha abitato (e abita) sia il pensiero nazionale che quello sovranazionale?
Le nazioni che Hazony annovera virtuosamente alla tradizione della Bibbia ebraica, non hanno forse un passato (e un presente) colonialista: Gran Bretagna, Olanda e Usa?
Non esiste forse una linea tragicamente sottile nel nazionalismo, fra le legittime istanze di liberazione dall’oppressione imperialista (il Risorgimento italiano), e le tentazioni di dominio (la Serbia di Milosevic e di Mladic)?
E quanto la spietata pulizia etnica messa in opera da Tito con le foibe, è da attribuire all’imperialismo marxista,e quanto è invece riconducibile a un nazionalismo slavo?

La parabola autoritaria dittatoriale di Viktor Orban e il 

Arrivando alla cronaca di questi giorni, cosa dire della parabola dell’Ungheria di Orban che, approfittando cinicamente dell’emergenza pandemica, invoca e ottiene i pieni poteri mettendo sotto chiave libertà e garanzie democratiche, tanto che la stessa destra magiara ha gridato al colpo di Stato?
Gli organismi internazionali dovrebbero astenersi dallo stigmatizzare questa pericolosa e inquietante deriva, solo perché sarebbe ‘un’indebita intromissione imperialista’ negli interessi inviolabili di quella nazione?
E sarebbero imperialiste le tante voci che, in tempi di contagio pandemico, lamentano la mancanza di organizzazioni internazionali autorevoli per fare fronte comune ed evitare che ogni Paese vada per conto proprio, ripetendo i tragici errori del passato?
Resto dell’opinione che l’Unione europea, per quanto oggi onestamente inguardabile, debba la sua nascita non alla mai sopita tentazione imperiale, ma al desiderio di prevenire i disastri di un egualmente pericoloso nazionalismo, anch’esso tutt’altro che immune dal virus dell’odio razziale e dell’oppressione. Esattamente come, all’opposto, nell’opzione sovranazionale sarebbe il caso di riconoscere diritto di cittadinanza alla libera e pacifica collaborazione tra i popoli, come possibilità di ordine internazionale e non come voce esclusiva e necessaria della tentazione imperiale.

 

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Francesco Lavezzi

Laurea in Scienze politiche all’Università di Bologna, insegna Sociologia della religione all’Istituto di scienze religiose di Ferrara. Giornalista pubblicista, attualmente lavora all’ufficio stampa della Provincia di Ferrara. Pubblicazioni recenti: “La partecipazione di mons. Natale Mosconi al Concilio Vaticano II” (Ferrara 2013) e “Pepito Sbazzeguti. Cronache semiserie dei nostri tempi” (Ferrara 2013).

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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