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Rubrica a cura di Fabio Mangolini e Francesco Monini

“Cosa resterà di quegli anni Ottanta?”. Se parliamo dl ‘900, la risposta è ancora contesa, ma per l’Ottocento si può rispondere a colpo sicuro. ”I favolosi anni Ottanta” (del XIX secolo) furono dati alle stampe due libri di enorme successo e sconvolsero l’Italia appena diventata Italia. Nel 1883 Le avventure di Pinocchio di Carlo (Lorenzini) Collodi, e 3 anni più tardi, nel 1886, Cuore Edmondo De Amicis. Due Capolavori. Due libri ‘per ragazzi’. Due long seller tradotti, ridotti, interpretati in ogni lingua del mondo. Pinocchio e Cuore continuano anche oggi ad essere  discussi, criticati, commentati: amati e disprezzati. Se Pinocchio, prima di diventare libro, era uscito a puntate sul giornale, anche Cuore è un romanzo a episodi, un’antologia di racconti indipendenti. La lettura di Sangue Romagnolo è affidata a Marcello Brondi.
(I Curatori)

Sangue romagnolo, tratto da Cuiorereracconto di Edmondo De Amicis (1886), lettura di Marcello Brondi

SANGUE ROMAGNOLO

Quella sera la casa di Ferruccio era più quieta del solito. Il padre, che teneva una piccola bottega di merciaiolo, era andato a Forlì a far delle compere, e sua moglie l’aveva accompagnato con Luigina, una bimba, per portarla da un medico, che doveva operarle un occhio malato; e non dovevano ritornare che la mattina dopo. Mancava poco alla mezzanotte. La donna che veniva a far dei servizi di giorno se n’era andata sull’imbrunire. In casa non rimaneva che la nonna, paralitica delle gambe, e Ferruccio, un ragazzo di tredici anni. Era una casetta col solo piano terreno, posta sullo stradone, a un tiro di fucile da un villaggio, poco lontano da Forlì, città di Romagna; e non aveva accanto che una casa disabitata, rovinata due mesi innanzi da un incendio, sulla quale si vedeva ancora l’insegna d’un’osteria. Dietro la casetta c’era un piccolo orto circondato da una siepe, sul quale dava una porticina rustica; la porta della bottega, che serviva anche da porta di casa, s’apriva sullo stradone. Tutt’intorno si stendeva la campagna solitaria, vasti campi lavorati, piantati di gelsi.
Mancava poco alla mezzanotte, pioveva, tirava vento. Ferruccio e la nonna, ancora levati, stavano nella stanza da mangiare, tra la quale e l’orto c’era uno stanzino ingombro di mobili vecchi. Ferruccio non era rientrato in casa che alle undici, dopo una scappata di molte ore, e la nonna l’aveva aspettato a occhi aperti, piena d’ansietà, inchiodata sopra un largo seggiolone a bracciuoli, sul quale soleva passar tutta la giornata, e spesso anche l’intera notte, poiché un’oppressione di respiro non la lasciava star coricata. Pioveva e il vento sbatteva la pioggia contro le vetrate: la notte era oscurissima. Ferruccio era rientrato stanco, infangato, con la giacchetta lacera, e col livido d’una sassata sulla fronte; aveva fatto la sassaiola coi compagni, eran venuti alle mani, secondo il solito; e per giunta aveva giocato e perduto tutti i suoi soldi, e lasciato il berretto in un fosso. Benché la cucina non fosse rischiarata che da una piccola lucerna a olio, posta sull’angolo d’un tavolo, accanto al seggiolone, pure la povera nonna aveva visto subito in che stato miserando si trovava il nipote, e in parte aveva indovinato, in parte gli aveva fatto confessare le sue scapestrerie. Essa amava con tutta l’anima quel ragazzo. Quando seppe ogni cosa, si mise a piangere. – Ah! no, – disse poi, dopo un lungo silenzio; – tu non hai cuore per la tua povera nonna. Non hai cuore a profittare in codesto modo dell’assenza di tuo padre e di tua madre per darmi dei dolori. Tutto il giorno m’hai lasciata sola! Non hai avuto un po’ di compassione. Bada, Ferruccio! Tu ti metti per una cattiva strada che ti condurrà a una triste fine. Ne ho visti degli altri cominciar come te e andar a finir male. Si comincia a scappar di casa, a attaccar lite cogli altri ragazzi, a perdere i soldi; poi, a poco a poco, dalle sassate si passa alle coltellate, dal gioco agli altri vizi, e dai vizi… al furto.
Ferruccio stava a ascoltare, ritto a tre passi di distanza, appoggiato a una dispensa, col mento sul petto, con le sopracciglia aggrottate, ancora tutto caldo dell’ira della rissa. Aveva una ciocca di bei capelli castagni a traverso alla fronte e gli occhi azzurri immobili. – Dal gioco al furto, – ripeté la nonna, continuando a piangere. – Pensaci, Ferruccio. Pensa a quel malanno qui del paese, a quel Vito Mozzoni, che ora è in città a fare il vagabondo; che a ventiquattr’anni è stato due volte in prigione, e ha fatto morir di crepacuore quella povera donna di sua madre, che io conoscevo, e suo padre è fuggito in Svizzera per disperazione. Pensa a quel tristo soggetto, che tuo padre si vergogna di rendergli il saluto, sempre in giro con dei scellerati peggio di lui, fino al giorno che cascherà in galera. Ebbene, io l’ho conosciuto ragazzo, ha cominciato come te. Pensa che ridurrai tuo padre e tua madre a far la stessa fine dei suoi.
Ferruccio taceva. Egli non era mica tristo di cuore, tutt’altro; la sua scapestrataggine derivava piuttosto da sovrabbondanza di vita e d’audacia che da mal animo; e suo padre l’aveva avvezzato male appunto per questo, che ritenendolo capace, in fondo, dei sentimenti più belli, ed anche, messo a una prova, d’un’azione forte e generosa gli lasciava la briglia sul collo e aspettava che mettesse giudizio da sé. Buono era, piuttosto che tristo; ma caparbio, e difficile molto, anche quando aveva il cuore stretto dal pentimento, a lasciarsi sfuggire dalla bocca quelle buone parole che ci fanno perdonare: – Sì, ho torto, non lo farò più, te lo prometto, perdonami. – Aveva l’anima piena di tenerezza alle volte; ma l’orgoglio non la lasciava uscire. – Ah Ferruccio! – continuò la nonna, vedendolo così muto. – Non una parola di pentimento mi dici! Tu vedi in che stato mi trovo ridotta, che mi potrebbero sotterrare. Non dovresti aver cuore di farmi soffrire, di far piangere la mamma della tua mamma, così vecchia, vicina al suo ultimo giorno; la tua povera nonna, che t’ha sempre voluto tanto bene; che ti cullava per notti e notti intere quand’eri bimbo di pochi mesi, e che non mangiava per baloccarti, tu non lo sai! Io dicevo sempre: – Questo sarà la mia consolazione! – E ora tu mi fai morire! Io darei volentieri questo po’ di vita che mi resta, per vederti tornar buono, obbediente come a quei giorni… quando ti conducevo al Santuario, ti ricordi, Ferruccio? che mi empivi le tasche di sassolini e d’erbe, e io ti riportavo a casa in braccio, addormentato? Allora volevi bene alla tua povera nonna. E ora che sono paralitica e che avrei bisogno della tua affezione come dell’aria per respirare, perché non ho più altro al mondo, povera donna mezza morta che sono, Dio mio!…
Ferruccio stava per lanciarsi verso la nonna, vinto dalla commozione, quando gli parve di sentire un rumor leggiero, uno scricchiolìo nello stanzino accanto, quello che dava sull’orto. Ma non capì se fossero le imposte scosse dal vento, o altro. Tese l’orecchio. La pioggia scrosciava. Il rumore si ripeté. La nonna lo sentì pure. – Cos’è? – domandò la nonna dopo un momento, turbata. – La pioggia, – mormorò il ragazzo. – Dunque, Ferruccio, – disse la vecchia, asciugandosi gli occhi, – me lo prometti che sarai buono, che non farai mai più piangere la tua povera nonna… Un nuovo rumor leggiero la interruppe. – Ma non mi pare la pioggia! – esclamò, impallidendo – … va’ a vedere! Ma soggiunse subito: – No, resta qui! – e afferrò Ferruccio per la mano. Rimasero tutti e due col respiro sospeso. Non sentivan che il rumore dell’acqua. Poi tutti e due ebbero un brivido. All’uno e all’altra era parso di sentire uno stropiccìo di piedi nello stanzino. – Chi c’è? – domandò il ragazzo, raccogliendo il fiato a fatica. Nessuno rispose. – Chi c’è? – ridomandò Ferruccio, agghiacciato dalla paura. Ma aveva appena pronunciato quelle parole, che tutt’e due gettarono un grido di terrore. Due uomini erano balzati nella stanza; l’uno afferrò il ragazzo e gli cacciò una mano sulla bocca; l’altro strinse la vecchia alla gola; il primo disse: – Zitto, se non vuoi morire! – il secondo: – Taci! – e levò un coltello. L’uno e l’altro avevano una pezzuola scura sul viso, con due buchi davanti agli occhi. Per un momento non si sentì altro che il respiro affannoso di tutti e quattro e lo scrosciar della pioggia; la vecchia metteva dei rantoli fitti, e aveva gli occhi fuor del capo. Quello che teneva il ragazzo, gli disse nell’orecchio: – Dove tiene i danari tuo padre? Il ragazzo rispose con un fil di voce, battendo i denti: – Di là… nell’armadio. – Vieni con me, – disse l’uomo. E lo trascinò nello stanzino, tenendolo stretto alla gola. Là c’era una lanterna cieca, sul pavimento. – Dov’è l’armadio? – domandò. Il ragazzo, soffocato, accennò l’armadio. Allora, per esser sicuro del ragazzo, l’uomo lo gittò in ginocchio, davanti all’armadio, e serrandogli forte il collo fra le proprie gambe, in modo da poterlo strozzare se urlava, e tenendo il coltello fra i denti e la lanterna da una mano, cavò di tasca con l’altra un ferro acuminato, lo ficcò nella serratura, frugò, ruppe, spalancò i battenti, rimescolò in furia ogni cosa, s’empì le tasche, richiuse, tornò ad aprire, rifrugò: poi riafferrò il ragazzo alla strozza, e lo risospinse di là, dove l’altro teneva ancora agguantata la vecchia, convulsa, col capo arrovesciato e la bocca aperta. Costui domandò a bassa voce: – Trovato? Il compagno rispose: – Trovato. E soggiunse: – Guarda all’uscio.
Quello che teneva la vecchia corse alla porta dell’orto a vedere se c’era nessuno, e disse dallo stanzino, con una voce che parve un fischio: – Vieni. Quello che era rimasto, e che teneva ancora Ferruccio mostrò il coltello al ragazzo e alla vecchia che riapriva gli occhi, e disse: – Non una voce, o torno indietro e vi sgozzo! E li fisso un momento tutti e due. In quel punto si sentì lontano, per lo stradone, un canto di molte voci. Il ladro voltò rapidamente il capo verso l’uscio, e in quel moto violento gli cadde la pezzuola dal viso. La vecchia gettò un urlo: – Mozzoni! – Maledetta! – ruggì il ladro, riconosciuto. – Devi morire! E si avventò a coltello alzato contro la vecchia, che svenne sull’atto. L’assassino menò il colpo. Ma con un movimento rapidissimo, gettando un grido disperato, Ferruccio s’era lanciato sulla nonna, e l’aveva coperta col proprio corpo. L’assassino fuggì urtando il tavolo e rovesciando il lume, che si spense. Il ragazzo scivolò lentamente di sopra alla nonna, e cadde in ginocchio, e rimase in quell’atteggiamento, con le braccia intorno alla vita di lei e il capo sul suo seno. Qualche momento passò; era buio fitto; il canto dei contadini s’andava allontanando per la campagna. La vecchia rinvenne. – Ferruccio! – chiamò con voce appena intelligibile, battendo i denti. – Nonna, – rispose il ragazzo. La vecchia fece uno sforzo per parlare; ma il terrore le paralizzava la lingua. Stette un pezzo in silenzio, tremando violentemente. Poi riuscì a domandare: – Non ci son più? – No. – Non m’hanno uccisa, – mormorò la vecchia con voce soffocata. – No… siete salva, – disse Ferruccio, con voce fioca. – Siete salva, cara nonna. Hanno portato via dei denari. Ma il babbo… aveva preso quasi tutto con sé.
La nonna mise un respiro. – Nonna, – disse Ferruccio, sempre in ginocchio, stringendola alla vita, – cara nonna… mi volete bene, non è vero? – Oh Ferruccio! povero figliuol mio! – rispose quella, mettendogli le mani sul capo, – che spavento devi aver avuto! Oh Signore Iddio misericordioso! Accendi un po’ di lume… No, restiamo al buio, ho ancora paura. – Nonna, – riprese il ragazzo, – io v’ho sempre dato dei dispiaceri… – No, Ferruccio, non dir queste cose; io non ci penso più, ho scordato tutto, ti voglio tanto bene! – V’ho sempre dato dei dispiaceri, – continuò Ferruccio, a stento, con la voce tremola; – ma… vi ho sempre voluto bene. Mi perdonate?… Perdonatemi, nonna – Sì, figliuolo, ti perdono, ti perdono con tutto il cuore. Pensa un po’ se non ti perdono. Levati d’in ginocchio, bambino mio. Non ti sgriderò mai più. Sei buono, sei tanto buono! Accendiamo il lume. Facciamoci un po’ di coraggio. Alzati, Ferruccio. – Grazie, nonna, – disse il ragazzo, con la voce sempre più debole. – Ora… sono contento. Vi ricorderete di me, nonna… non è vero? vi ricorderete sempre di me… del vostro Ferruccio. – Ferruccio mio! – esclamò la nonna, stupita e inquieta, mettendogli le mani sulle spalle e chinando il capo, come per guardarlo nel viso. – Ricordatevi di me, – mormorò ancora il ragazzo con una voce che pareva un soffio. – Date un bacio a mia madre… a mio padre… a Luigina… Addio, nonna… – In nome del cielo, cos’hai! – gridò la vecchia palpando affannosamente il capo del ragazzo che le si era abbandonato sulle ginocchia; e poi con quanta voce avea in gola disperatamente: – Ferruccio! Ferruccio! Ferruccio! Bambino mio! Amor mio! Angeli del paradiso, aiutatemi! Ma Ferruccio non rispose più. Il piccolo eroe, il salvatore della madre di sua madre, colpito d’una coltellata nel dorso, aveva reso la bella e ardita anima a Dio.

Edmondo De Amicis, Sangue Romagnolo, fa parte di Cuore, Milano, Treves,1886
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Cover: elaborazione grafica di Carlo Tassi

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Redazione di Periscopio


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Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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