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20 giugno 2012
Giornata in memoria di Samia, la corritrice olimpica morta su un barcone a Lampedusa

Nella piccola cameretta condivisa con i fratelli, Samia aveva appeso il giornale sul quale apparve Mo Farah celebre mezzofondista britannico di origine somala.
Samia Yusuf Omar nasce nel 1991 a Mogadiscio, capitale della Somalia. Con la madre fruttivendola e orfana di padre, Samia e i fratelli cominciano a lavorare fin da piccola. Cresce nella Somalia martoriata dalla guerra civile, dal fondamentalismo, dal totale disinteresse della comunità internazionale e dalla dilagante povertà.

Samia non è come tutti gli altri ragazzi della sua età. Sin da piccola è dominata dalla passione e l’attitudine per la corsa. Vince tutte le gare per dilettanti somale, così inizia a partecipare a gare per professionisti, supportata dal centro olimpico somalo.

Il talento della giovane ragazza non ci mette molto ad emergere. Dopo aver dominato le competizioni Somale, si qualifica per i giochi olimpici di Pechino 2008.
Ha solo diciassette anni quando corre i 200 metri alle Olimpiadi, la più giovane in pista nella sua categoria. Con un tempo di 32”16 è ultima in assoluto in tutte le batterie, ma questo a Samia non interessa, l’importante è essere su quella pista.

Samia ha realizzato il suo sogno. Allenandosi tra scuola e lavoro, su piste sterrate e senza le classiche scarpe da corsa è riuscita ad arrivare alla massima competizione al mondo, tutto grazie la sua forza di volontà.
Il pubblico l’ha amata e sostenuta. Divenne, durante quei giochi olimpici, un esempio per tutto il mondo. Celebrata da tutti i giornali e le tv come la donna forte, capace di farcela da sola contro il mondo intero solo grazie alla propria forza.

Samia torna in patria fiera di se stessa, convinta che la volta successiva, a Londra, farà sicuramente meglio. La ragazza simbolo torna piena di speranza nella sua patria violentata prima colonialismo italiano, poi dalla feroce dittatura di Siad Barre e infine dal caos lasciato alla caduta di questo nel ’91.
Torna ad allenarsi per le strade squassate dai colpi di mortaio, con addosso abiti scuri e pesanti, che le coprono il volto, cosi che gli uomini appartenenti alle milizie al-Shabaab non si accorgano di lei.
Sono pochi in patria quelli che conoscono la sua identità di atleta olimpica, ancora meno quelli che hanno avuto il privilegio di vederla in tv.

Samia non si ferma, continua a correre per altri tre anni, sempre alla ricerca di un allenatore per Londra. Ma in Somalia è praticamente impossibile trovare qualcuno disposto a correre il rischio di venire condannato per aver preparato una donna ai giochi Olimpici.
Samia si appella con un tentativo disperato alla comunità internazionale. Quelle conoscenze fatte a Pechino tre anni prima le permettono di contattare giornali e televisioni senza farsi notare dal regime militare. Quelli stessi giornali che avevano amato la storia dell’eroina Somala, sembrano però essersi dimenticati completamente di lei, nessuno fa niente affinché la ragazza venga aiutata.

Per questo Samia decide di fare il grande passo: decide di lasciare il Mogadiscio e di raggiungere l’Europa.
Come tanti altri connazionali, come tanti uomini e donne africane, Samia sarà una clandestina una volta arrivata in Europa, e dovrà convivere con la dura accoglienza che l’aspetta. Non importa che lei abbia corso a Pechino alle Olimpiadi, non importa che sia la donna più veloce della Somalia, anche lei dovrà affrontare il deserto e il mare per cercare una vita dignitosa.
Samia attraversa Etiopia e Sudan su uno di quei camion stipati di persone, vede persone cadere e morire tra le dune del deserto. Arrivata in Libia ha dovuto subire le torture e le violenze di chi è prigioniero dei mercanti di uomini, attendendo il giorno in cui finalmente riuscirà a partire.

Riesce alla fine a salire su un barcone diretto verso le nostre coste, a Lampedusa. A largo della costa Italiana, la fatiscente imbarcazione comincia a cedere, tutte le persone ammassate lì sopra finiscono in mare, compresa Samia. Il 2 aprile 2012, a largo delle coste Italiane, Samia muore annegata insieme ad altri 10 uomini. 

Non capita spesso che tra chi cerca di attraversare il Mediterraneo ci sia un’atleta olimpica. Per questo la storia fu raccontata più volte, anche da televisioni e giornali locali. Su quel barcone Samia però non era l’unica a correre per sopravvivere. Mentre lei correva verso Londra, altri correvano verso familiari che li aspettavano, verso un lavoro, verso una vita diversa e più dignitosa, verso la speranza.
Tra le vie di Mogadiscio questo stesso giorno, il 20 giugno 2012, scesero donne e bambini, lavoratori e poveretti, per ricordare nella Giornata dei Rifugiati Samia, la corritrice olimpica. Pochi anni prima era il simbolo della forza delle donne, adesso invece è diventata un monito contro la propaganda occidentale che descrive i profughi che attraversano il mare come delinquenti e stupratori, come falsi bisognosi che rubare il lavoro agli italiani brava gente, e che sicuramente hanno tutti cattive intenzioni. 

«Noi sappiamo che siamo diverse dalle altre atlete. Ma non vogliamo dimostrarlo. Facciamo del nostro meglio per sembrare come loro. Sappiamo di essere ben lontane da quelle che gareggiano qui, lo capiamo benissimo. Ma più di ogni altra cosa vorremmo dimostrare la nostra dignità e quella del nostro paese.»
(Samia Yusuf Omar, 2008)

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Filippo Mellara

Abito a San Lazzaro (BO) e sono uno studente universitario di scienze della comunicazione. Impegnato socialmente nel cercare di creare un futuro migliore, più equo e giusto per tutti. Viaggiatore nel mondo fisico e spirituale, ritengo che la ricerca del sé sia anche la ricerca del NOI. Cresciuto tra Stato e Rivoluzione e Bertolt Brecht.

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