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Quando c’è un terremoto, la terra sotto i piedi trema non solo dal punto di vista fisico, ma anche dal punto di vista psicologico ed emotivo. La ricostruzione di una comunità, di conseguenza, non riguarda solo il paesaggio esteriore, ma anche il mondo interiore e quello delle relazioni dei cittadini delle zone colpite.
Superato il trauma dovuto all’emergenza, inizia appunto la fase della ricostruzione, ma quali sono le politiche messe in atto nel nostro paese e come si relazionano le istituzioni con la popolazione terremotata? E i cittadini come reagiscono a questo sconvolgimento del loro mondo, interiore ed esterno?

Dopo l’ultimo sisma di Amatrice, il governo ha segnalato il modello emiliano come esempio da seguire per la gestione del dopo-catastrofe, dando l’incarico di commissario alla ricostruzione a Vasco Errani, ex-governatore dell’Emilia. E proprio l’Emilia è stata il ‘campo d’indagine’ di Silvia Pitzalis – all’attivo un dottorato in storia con indirizzo antropologico all’Alma Mater di Bologna – nel suo ‘Politiche del disastro. Poteri e contro poteri nel terremoto emiliano’ (Ombre corte), nel quale i poteri sono le istituzioni e la loro macchina emergenziale, mentre i contro poteri sono le politiche dal basso messe in atto dai cittadini.
La tesi di Silvia Pitzalis è che il ‘disastro’ – dal terremoto all’alluvione – rappresenta una possibilità per le istituzioni di applicare specifiche strategie politiche e tecniche di governo che depotenziano la capacità auto-organizzativa dei cittadini. E si scopre che se esiste una shock economy che si mette in moto all’indomani di un evento calamitoso, forse non è un caso che dopo tutte le calamità naturali cui abbiamo assistito negli ultimi anni sul nostro territorio, l’Italia non ha ancora una legge quadro nazionale che regolamenti le modalità di azione e di intervento in occasione di calamità naturali.
D’altra parte però, come reazione a queste politiche imposte dall’alto, ma anche in maniera autonoma, emergono comportamenti di rifiuto da parte delle popolazioni, che danno vita a meccanismi di solidarietà e organizzazione dal basso. L’emergenza e la fase post-emergenza diventano quindi anche occasioni per (ri)costruire e (ri) generare non solo reti di relazioni informali, ma vere e proprie pratiche di cittadinanza attiva.

Solitamente quando si tratta di eventi sismici si parla sempre di emergenza e poi di politiche per la ricostruzione. Il suo libro, invece, si intitola ‘Politiche del disastro’, ci può spiegare cosa intende?
Quando si parla di disastri sui media e tra l’opinione pubblica si tende sempre a far leva sulla sofferenza delle vittime, sulla loro impossibilità di reazione, sui problemi nella fase emergenziale prima e in quella della ricostruzione poi, dovuti unicamente dall’eccezionalità dell’evento. Il discorso pubblico alimenta una visione della catastrofe fisica e tecnico-ingegneristica, legittimata da scientificità, che però tralascia gli aspetti socio-culturali di questi eventi. Questa lettura eclissa le responsabilità sociali e politiche, causa e conseguenza di questi eventi.
Partendo dall’osservazione del rapporto tra cittadinanza e istituzioni l’intento del libro è sottolineare in primis la necessità di un approccio che alimenti anche una visione politica dell’evento catastrofico. Sebbene il disastro sia un momento altamente traumatico, che accentua situazioni di crisi pre-esistenti il libro intende sottolineare il carattere rigenerativo di questi eventi, ovvero la loro capacità di stimolare tra la popolazione colpita la creazione di percorsi e soluzioni alternativi alle procedure imposte dall’alto, evidenziando le criticità di queste ultime. Questo processo evidenzia il carattere politico del disastro.

Cos’ è la shock economy?
Dagli anni Duemila le scienze sociali hanno messo in luce come le procedure di intervento da parte istituzionale siano sempre più spinte da interessi sovra-locali, affidando al settore privato la gestione del post-disastro. Vengono così calate sui cittadini procedure che rientrano nel paradigma della ‘shock economy’. Questo concetto, elaborato dalla Klein intorno al 2007 e sviluppato poi da altri autori (Gotham & Greenberg 2014; Button & Schuller 2016; Barrios 2017), si presenta come un fenomeno socio-politico in cui il disastro diventa un’occasione per applicare specifiche politiche e tecniche di governo che inibiscono le capacità economiche dei singoli, il loro accesso ai mezzi di sussistenza e alle risorse del territorio. Inoltre, depotenziando la loro capacità di produrre forme oppositive al potere dominante, questa strumentalizzazione della catastrofe, finalizzata al potenziamento di interessi capitalistici, aumenta stati di incertezza e precarietà già innescati dalla catastrofe.

La criminalità organizzata e i meccanismi di corruzione, come si inseriscono nelle politiche del disastro?
La shock economy di cui ho parlato prima, privatizzando la catastrofe, crea terreno fertile per l’intromissione all’interno del processo della criminalità organizzata e della corruzione. Si è visto anche con la maxi-operazione anti-mafia Aemilia, conclusasi il 28 gennaio del 2015 con 117 arresti, che ha visto coinvolti numerosi imprenditori edili a cui era stata affidata parte della ricostruzione e alcune figure politiche locali legate alle zone terremotate. Alle autorità si imputano relazioni poco chiare con diversi imprenditori di ditte nel settore dell’edilizia e del movimento terra, vincitori di appalti milionari per la ricostruzione post-terremoto, arrestati perché accusati di corruzione mafiosa soprattutto con la ‘Ndrangheta.

È vero che ancora oggi – dopo che l’Italia è stata colpita da diverse calamità naturali delle quali tre terremoti sono solo la punta dell’iceberg – manca una legge quadro nazionale che regolamenti le modalità di azione e di intervento in occasione di eventi catastrofici?
Purtroppo la classe politica da l’Aquila – in cui il post-disastro era nelle mani del centro destra di Berlusconi – passando per l’Emilia fino a oggi – in cui al governo è il centro-sinistra del Partito democratico – non è stata in grado di elaborare una legge di validità nazionale che definisca precisamente i diritti e i doveri nel post-disastro. Non essendoci una legge quadro che regoli in maniera uniforme come agire nel post-disastro, la sua gestione viene affidata a sempre nuove leggi, il che lascia spazio alla discrezionalità dei poteri al governo, minando l’uguaglianza tra i singoli.

Quali differenze fra la gestione del sisma di Bertolaso a L’Aquila e il modello di Errani in Emilia Romagna? E ora che è commissario per il terremoto nell’Italia centrale, quali similitudini e diversità si possono riscontrare?
Come a l’Aquila e in Emilia, anche nel post-sisma dell’Italia centrale, sebbene sia stato dato maggior peso alle istituzioni locali, le ordinanze emanate impongono dall’alto norme che non rispondono alle esigenze del territorio e della popolazione colpita. Queste decisioni vengono prese da tecnici e politici che molto spesso conosco ben poco del contesto in questione. Si crea una potente macchina burocratica che anziché snellirlo, rende il percorso verso la ricostruzione più lungo e tortuoso.
Se si osservano comparativamente i tre terremoti avvenuti in Italia negli anni Duemila (Abruzzo 2009, Emilia 2012, Centro-Italia 2016-2017) in tutti e tre in casi emergono negligenze e mancanze da parte delle istituzioni non solamente nel post-terremoto, ma anche nella precedente gestione socio-politica riguardo la tutela e il monitoraggio del territorio, la prevenzione dei disastri e le politiche edilizie.
A mio avviso un approccio socio-culturale all’analisi di questi fenomeni aiuterebbe a far emergere questioni cruciali inerenti l’importanza della percezione socio-culturale del rischio, la costruzione di una ‘educazione alla prevenzione’ e di una più profonda conoscenza sociale e culturale del territorio, per avviare in ultimo la costruzione di una coscienza critica dove al centro stia il cittadino e non la norma.

Il suo è anche uno studio sulle dinamiche individuali e collettive e sulle politiche dal basso messe in moto da eventi come questi.
Ho tentato di dare risalto a queste politiche dal basso analizzando le pratiche elaborate dai membri del Comitato di terremotati Sisma.12. Queste sono state considerate come modalità propositive e attive di reazione al terremoto. Per queste persone l’evento è stato un’occasione, un momento a partire dal quale ha preso forma una forte necessità di mutamento in risposta alla crisi. Volontà che prende vita dalla condivisione di un immaginario collettivo verso la creazione di un futuro migliore.
Sisma.12 è un comitato nato già nell’estate, durante assemblee nei campi autogestiti del cratere, cioè creati e organizzati direttamente dalla popolazione, da quei cittadini che si rifiutavano di servirsi di quelli gestiti della protezione civile. Nell’ottobre del 2012 si è dato uno statuto, descrivendosi come apartitico, trasversale e territoriale, infatti racchiudeva diverse provenienze politiche – dal Movimento cinque stelle al Pd ai Verdi – comunque tutte facenti riferimento alla galassia della ‘sinistra storica’ novecentesca. L’apice delle sue attività è stato il 2013. Poi c’è stato un tentativo di istituzionalizzazione: si è tentata la candidatura alle ultime regionali attraverso una lista civica autonoma. Questo però ha dato origine a critiche all’interno dello stesso comitato. Ora chi è rimasto nel Comitato lavora anche su altre battaglie, come per esempio quella per il referendum contro le trivelle o la campagna Stop Ttip. Inoltre hanno cercato di creare una rete con alcuni comitati nati dopo il sisma nel Centro Italia e insieme a queste realtà, proprio partendo dall’analisi dell’esperienza nel mio volume, stanno cercando di migliorare le loro pratiche.

In conclusione, gli eventi disastrosi e le calamità possono avere un potenziale generativo e creare nuovi modelli di (r)esistenze?
Partendo dal caso specifico, ho cercato di dimostrare che gli eventi calamitosi, oltre a possedere un devastante potere di disintegrazione fisica e socio-culturale, si possano presentare come dei momenti dai quali gli esseri umani, superato lo shock iniziale, producono nuove modalità di esistere socialmente, politicamente, culturalmente, ovvero modalità di ri-esserci nel mondo che nascono e si costruiscono dalle macerie, dall’incipit all’azione che la violenza dell’evento determina.

Nel suo libro lei usa il metodo etnografico. Ci può spiegare cosa significa in termini di ricerca sul campo e quali sono i vantaggi, rispetto ad altri tipi di studi?
Questa domanda tormenta gli antropologi da almeno quant’anni. Le dirò, l’opinione (modesta e personale) che io mi sono fatta finora. Fare etnografia significa prima di tutto ascoltare, osservare ed interpretare esperienze utili alla comprensione della realtà. Per questo motivo l’etnografia è, prima di tutto, un’impresa pratica. Sono convinta che malgrado storicamente l’etnografia sia stata accusata di aver prodotto un sapere strumentale al dominio – pensiamo al prezioso materiale prodotto da etnografi ed antropologi durante il colonialismo – a maggior ragione oggi più che mai l’utilizzo di questa metodologia deve essere in grado di produrre un sapere che stimoli una critica della società che parta dalle esperienze di chi ne vive contraddizioni e ingiustizie. Solo così l’etnografia può contribuire all’elaborazione di traiettorie di cambiamento e rinnovamento che giovino al miglioramento di quella stessa società.

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Federica Pezzoli


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