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L’omicidio di Pontelangorino: le domande che restano aperte non riguardano i due ragazzi riguardano noi e il nostro sguardo sui fatti sociali. Ottanta euro subito, altri mille dopo il massacro. Su questa promessa si è consumata l’uccisione feroce della coppia di genitori di Pontelangorino. Un delitto che scaturisce da un patologico atto di amicizia, da una condizione esistenziale marginale e malata. La causa scatenante: una sfilza infinita di assenze a scuola e i rimproveri per il cattivo rendimento scolastico.

Due ragazzi che vivevano in simbiosi da quando erano bambini, trascorrevano giornate facendosi spinelli e giocando alla playstation. Il mondo di una vita senza centro: una stanza squallida con molti stracci accatastati per difendersi dal freddo. Possiamo immaginare la disperata impotenza dei genitori che forse avevano perso ogni speranza nella possibilità di aiutare il loro figlio. Una storia nota che vorrei commentare solo per tre aspetti che ci interrogano sul piano sociale e restano aperti.

Tre aspetti su cui i commenti degli opinionisti – in questo caso come in altri – sono confusi.
La prima riflessione investe una domanda ricorrente: si tratta di una patologia individuale o di una patologia sociale? Non intendo qui discutere il tema dal punto di vista giuridico, ma sottolineare come la categoria di patologia sociale prevalga troppo spesso nel nostro giudizio su vicende del genere. Quanto è utile e quanto, invece, fuorviante interpretare i fatti come espressione di una società malata che avrebbe smarrito il senso di colpa, che sarebbe incapace di legami sani, in balia di desideri malati e di derive consumistiche, in cui gli individui sarebbero vittime di una vita in cui si è perso il senso del limite? Ci troviamo piuttosto di fronte a personalità incapaci di provare emozioni e di dare salienza alle cose, di prevedere le conseguenze delle loro azioni, persino le più drammatiche. Un’affettività malata che si traduce in insipienza dei ragazzi. Lo rivela la dichiarazione “ho fatto una cazzata”, non molto di più che di ciò che potrebbe essere detto dopo avere rubato un motorino.

La seconda riguarda l’uso inflazionato della categoria del pentimento e del perdono. Assistiamo da molti anni all’uso della categoria del perdono come espediente per ridurre la pena. Un uso strumentale e inaccettabile della categoria del pentimento che si risolve in una lettera scritta troppo in fretta da un legale d’ufficio che segue un rito fin troppo diffuso: la richiesta di perdono. La dichiarazione così immediata di pentimento contribuisce a togliere salienza a ciò che è accaduto, a negarne la gravità. Non si tratta di invocare pene più severe, si tratta soltanto di rimettere con i piedi per terra la categoria dell’accertamento della responsabilità e la conseguente sanzione giuridica.

La terza questione: l’assenza del senso di colpa individuale, che è stato evocato come patologia sociale è un tema che ci riguarda come società. Se è così, allora dovrebbe essere percorsa la strada dell’accertamento della colpa insieme a quella della certezza della pena. Prima di questo, qualunque intervento suona come diminuzione della gravità del fatto. Resta un fatto duro – l’uccisione e la morte di due persone – oltre al gesto che ha portato a questo esito. Don Mazzi, a poche ore dal delitto dichiara: “i ragazzi non devono restare in carcere” e si candida ad ospitarli. Un altro messaggio grave in quanto intempestivo. La categoria del recupero, pure consustanziale alla nostra idea della pena – che non solo espiazione, ma anche occasione di un possibile ripensamento – non può annullare con un colpo di spugna il valore di ciò che è accaduto. Sono questioni che ci interrogano e che non possono essere coperte né da generici riferimenti alla liquefazione dei legami sociali, né dall’interpretazione da manuale di patologie individuali.

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Maura Franchi

È laureata in Sociologia e in Scienze dell’Educazione. Vive tra Ferrara e Parma, dove insegna Sociologia dei Consumi, Social Media Marketing e Web Storytelling, Marketing del Prodotto Tipico. Tra i temi di ricerca: le dinamiche della scelta, i mutamenti socio-culturali correlati alle reti sociali, i comportamenti di consumo, le forme di comunicazione del brand.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

Caro lettore

Dopo molti mesi di pensieri, ripensamenti, idee luminose e amletici dubbi, quello che vi trovate sotto gli occhi è il Nuovo Periscopio. Molto, forse troppo ardito, colorato, anticonvenzionale, diverso da tutti gli altri media in circolazione, in edicola o sul web.

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Con il quotidiano di ieri, così si diceva, oggi ci si incarta il pesce. Non Periscopio, la sua “informazione verticale” non invecchia mai e dal nostro archivio di quasi 50.000 articoli (disponibile gratuitamente) si pescano continuamente contenuti utili per integrare le ultime notizie uscite. Non troverete mai, come succede in quasi tutti i quotidiani on line,  le prime tre righe dell’articolo in chiaro… e una piccola tassa per poter leggere tutto il resto.

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