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I numeri sono come gli animali. Non parlano, ma si esprimono attraverso segnali che noi dobbiamo saper cogliere con animo puro e mente scevra da pregiudizi. In entrambi i casi, chi non vuole o non riesce a capire finisce col fargli dire quello che vuole.
I risultati elettorali in Emilia Romagna si caratterizzano per due fatti eclatanti: l’enorme livello di astensione, dal 68% delle regionali scorse al 37%, e la sostanziale invarianza rispetto al passato del risultato finale delle coalizioni principali, con il centrosinistra che prende il 49% dei voti (era al 52%) ed il centro destra che passa dal 36% al 30%. Il M5s, che pure cresce dal 6% al 13% rispetto alla tornata precedente, continua a perdere consensi, era il 24% alle politiche del 2013 ed il 19% alle europee. Le formazioni a sinistra del Pd, con Sel dentro alla coalizione di centrosinistra al 3% e L’Altra ER al 4% (5,5% assieme alle regionali del 2010), raggiungono un buon risultato, se confrontato con il 4% raccolto dalla Lista Tsipras alle europee. Costante attorno al 2,5% il risultato delle formazioni centriste (Ncd + Udc).
Il fatto che l’elevatissimo livello di astensione non abbia modificato in termini sostanziali i rapporti di forza fra i principali blocchi dimostra che il fenomeno ha interessato più o meno in ugual misura tutti gli schieramenti. Detto in altri termini, le ragioni che stanno dietro alla grande disaffezione dimostrata dagli elettori non si sono scaricate su una parte politica in particolare – semmai hanno colpito in modo del tutto contro intuitivo più la destra all’opposizione che la sinistra che governava, ma dimostrano un atteggiamento di condanna indiscriminato nei confronti della politica tout court, perché è del tutto ovvio che un calo di affluenza di oltre il 30% ha almeno in parte una valenza dichiaratamente punitiva. Questo aspetto peculiare, in una regione che solo alle scorse europee aveva in un contesto generalizzato da una scarsa affluenza al voto dimostrato una tenuta maggiore delle media nazionale (il 70% contro il 57%), deve a mio parere essere interpretato in modo diverso rispetto al fenomeno più generale della crescente disaffezione elettorale a cui evidentemente si somma. Si tratta infatti di un avvertimento preciso e ultimativo che un numero molto elevato e, ripeto, largamente trasversale di elettori ha voluto mandare ai vertici della politica regionale, accomunati nel medesimo giudizio di indegnità. Da questo punto di vista si potrebbe speculare che l’effetto dell’inchiesta sui rimborsi spesa anomali dei consiglieri regionali, che ha interessato tutti i gruppi consiliari, è stato molto maggiore del fatto all’origine della fine anticipata della legislatura, vale a dire la vicenda giudiziaria che ha coinvolto Vasco Errani. Con queste elezioni si è manifestata una scollatura profondissima fra i cittadini e l’istituzione regionale che i nuovi eletti, con un’ovvia sottolineatura per la maggioranza e per la nuova giunta, dovranno cercare di ricucire al più presto, sia applicando regole severe e trasparenti al proprio operato, sia dimostrando una maggiore e fattiva presenza dell’ente sul territorio. Se c’è un limite infatti che ha caratterizzato sinora negativamente l’attività degli organismi regionali, al di là delle specifiche scelte operate, è una sostanziale distanza dai cittadini, che in larga parte ancora non ne conoscono le (ampie) competenze e non ne comprendono gli effetti pratici sulla loro vita quotidiana.
Se questo, a mio modo di vedere, è lo schema interpretativo generale entro cui collocare “i numeri” usciti domenica 23 novembre, vale comunque la pena accennare ad altri fatti rilevanti che se ne possono trarre. Fa scalpore il crollo elettorale della rinnovata Forza Italia, che viene “doppiata” in termini di consensi dalla Lega. Va senza dubbio messo in conto l’effetto di traino esercitato dal candidato presidente, ma non vi è dubbio, anche guardando ai dati della Calabria, che la ripresa auspicata da Berlusconi non si è minimamente manifestata. Su questo punto specifico, chi nei mesi e settimane scorsi aveva paventato il ritorno dell’ex cavaliere, rilegittimato a suo dire dal patto del Nazareno, ha avuto un’altra occasione per ricredersi.
Il calo dei consensi al M5s, come detto, pare ormai inarrestabile e lo scettro del partito antisistema sembra ormai essere passato alla Lega, nonostante i patetici tentativi di Grillo negli ultimi mesi di rincorrere il partito di Salvini sui temi della xenofobia e dell’uscita dall’euro. Anche in questo caso viene dimostrata la vecchia regola per cui gli elettori, quando si trovano a dover scegliere fra l’originale ed un’imitazione, non hanno mai dubbi. In termini politici più generali, emerge tuttavia prepotente la necessità di sviluppare una proposta più coerente e precisa sulle tematiche dell’immigrazione, della sicurezza e della legalità. Se infatti le tentazioni isolazioniste ed autarchiche in economia si contrastano facendo riforme che invertano il segno della crisi, su queste questioni occorre essere in grado di dare ai cittadini delle risposte concrete che intervengano sul disagio crescente, soprattutto nelle periferie delle grandi città, ma non solo, e rafforzino la presenza dello Stato, non inteso solo come tutore dell’ordine pubblico, sul territorio. E’ una necessità ineludibile per un partito che si intesta la quasi totalità dell’azione di governo.
Da ultimo, e non poteva mancare, una riflessione sugli effetti sul voto delle roventi polemiche che scuotono il Pd sulle questioni del lavoro e della crisi economica. Senza entrare qui nel merito, si notano sul piano elettorale impatti tutto sommato limitati, anche attribuendo completamente a questo fattore l’aumento percentuale di consensi ai partiti che si collocano a sinistra del Pd, senza cioè tener conto dell’elemento identitario che porta i loro elettori tradizionali a subire meno degli altri il fascino dell’astensione. In termini di voti complessivi, sommando quelli di Sel e di l’Altra ER, non vengono raggiunti quelli totalizzati dalla lista Tsipras alle europee scorse.
A mo di post scriptum, un’ultimissima considerazione relativa ai commenti di molti sia in rete che sui giornali a proposito del presunto subitaneo disfacimento dello zoccolo duro di consenso al Pd. A mio parere si tratta di una non-notizia, in quanto il progressivo sgretolamento della massa di votanti “senza se e senza ma” a favore dei partiti eredi del Pci era in atto da molto tempo, come le analisi dei flussi elettorali hanno regolarmente indicato almeno a partire dalla seconda metà degli anni ’90. Il fatto di volerlo considerare ancora come qualcosa di politicamente rilevante è solo frutto di grave pigrizia intellettuale, comprensibile in molti compagni ammalati di nostalgia, ma inscusabile da parte di commentatori professionisti, incapaci di adattare i loro schemi mentali alla realtà.

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Raffaele Mosca


Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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