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L’Europa si è illusa, colpevolmente, che riguardasse l’Italia e le sue coste. Adesso che si estende come una marea incontenibile dalla Grecia ai Balcani, dall’Ungheria alla Germania, dalla Serbia all’Austria fino alla Gran Bretagna e chissà fino a dove, allora il voluminoso dossier finisce con urgenza sul tavolo Ue.

Le stiamo vedendo le immagini dei telegiornali: non c’è filo spinato, non c’è confine né varco presidiato, che possa fermare un’onda inarrestabile e di proporzioni tali da scomodare la parola esodo. Non si può fermare perché la disperazione umana porta a superare ogni ostacolo: in mare, dentro una valigia, nel vano motore delle auto, nei carrelli degli aerei, sotto e dentro i camion.
Qualcuno prova a suggerire che il fenomeno si può solo, a questo punto, cercare di governarlo il meglio che si può, possibilmente usando la testa. I perché sono tanti e anche qui ci vorrebbe testa per metterli in fila. E invece, almeno per quello che si sente in casa nostra, sembrano prevalere le sparate di chi dimostra, come dice Enrico Vaime, di avere perso uno dei sensi: il senso del ridicolo.

Come quelli che dicono che è colpa del governo se c’è questa invasione, oppure il sindaco che vuole aumentare le tasse ai cittadini che danno accoglienza, lo stesso che non si presenta neppure all’incontro chiesto dal prefetto per vedere di dare risposta come si può all’emergenza, il quale, sindaco, appartiene allo stesso partito del ministro che anni fa chiedeva aiuto proprio agli amministratori locali per far fronte all’identica emergenza. Oppure quei politici che chiedono a gran voce la chiusura di centri accoglienza che gli stessi compagni di partito, quando solo ieri erano al governo, hanno aperto. Parole urlate e gettate come benzina in un clima pericolosamente già rovente, e in evidente carenza di regia, senza curarsi delle conseguenze pur di lucrare qualche risultato elettorale.

Parole senza spina dorsale lasciate cadere con imperdonabile noncuranza in un contesto sempre più confuso da fatti che si susseguono al ritmo incalzante e senza memoria della cronaca, strattonando, disorientando e prendendo a schiaffi il sostrato emotivo del paese. Come i casi recenti di Anatolij Korol, l’ucraino entrato in Italia da clandestino e morto nel tentativo di sventare una rapina a Castello di Cisterna nel Napoletano, l’eroe, e l’orrendo massacro dei coniugi catanesi di cui è accusato il 18enne ivoriano Mamadou Kamara, ospite del Cara di Mineo.

Ci si aspetterebbe ben altro da chi si definisce classe dirigente, che modula cinicamente il suo vuoto dire a seconda che sia al governo o all’opposizione e che, evidentemente, fatica a capire che questo modo di fare è all’origine di un astensionismo elettorale che ha rotto gli argini e che sta seriamente compromettendo la qualità democratica delle istituzioni.

Ad esempio, sotto i riflettori del dibattito è finito proprio il Cara di Mineo in provincia di Catania. Invece di assistere, anche sui canali tv, a delle corride verbali inutili, è troppo chiedere che si spieghi che Cara è la sigla di Centro di accoglienza per richiedenti asilo? Chiedere se è proprio inevitabile se per distinguere chi abbia diritto allo status di rifugiato dagli altri, in questo paese, a quanto pare, servano tempi biblici? Chiedere perché al lato opposto dell’entrata del centro, con tanto di sbarra e personale in divisa per i controlli, c’è un buco nella rete di recinzione dal quale entra ed esce chi vuole, come ha mostrato una semplice troupe televisiva, con tanto di taxi che portano i passeggeri chissà dove, consentendo il proliferare di un’economia costruita sull’illegalità, il grande buco che tanto sembra connaturato a questa disgraziata Italia? Se, come dice Marcello Sorgi, dalle testimonianze dell’affare Mafia Capitale pare che un euro della dote giornaliera che lo Stato dà per ogni immigrato finisca nelle tasche del malaffare, è pensare male che questo andirivieni sia funzionale a chi lucra in modo sporco e criminale sul fenomeno migratorio?

E’ sbagliato pensare che se questa è l’immagine che l’Italia dà della gestione del problema, in Europa, i freddi nordici, abbiano più di un motivo per ritenere tutto questo poco serio? Le risposte a tali domande, come a tante altre, non risolveranno un problema ormai ben più grande delle nostre stesse spalle nazionali, ma aiuterebbero anche tutti noi a sentirci in uno stato di diritto e non nella famosa Casa delle libertà di Corrado Guzzanti.

E aiuterebbe anche prendere sul serio il monito lanciato recentemente dal sindaco di Ferrara. Stupisce che per qualcuno Tiziano Tagliani, che evidentemente sa cosa significa avere a Ferrara la sede del museo nazionale dell’ebraismo e della shoah, non sappia distinguere lo sterminio del popolo ebraico, teorizzato fino alla follia della soluzione finale e attuato con glaciale e spietata contabilità da Adolf Eichmann, dal fenomeno immigratorio.
Per fortuna c’è chi si è accorto, ma c’è voluta una sua precisazione, che al di là delle parole riportate delle sue dichiarazioni, quello è stato un puntualissimo e urticante monito contro l’indifferenza. E’ l’indifferenza verso le tante, troppe, morti di oggi, in fondo al mare e in ogni dove, che è paragonabile a quella di ieri – cancellerie, diplomazie, intellettuali, classi sociali, opinioni pubbliche, chiese – il cui silenzio ha permesso che accadesse uno dei più grandi crimini mai compiuti contro l’umanità.

Ancora oggi fa comodo pensare che quella fu colpa di una maschia e prominente mascella, oppure di una classe dirigente fuori di testa e sanguinaria, perché fa sempre comodo trovare il capro espiatorio. Ma la storia non è andata così. Non c’è nulla di irriverente in questo accostamento, dunque, e la stessa lezione della memoria che ci insegna il mondo ebraico non è un elemento da custodire gelosamente e da riservare in una purezza filologica dentro una teca di vetro, ma è un patrimonio morale che deve continuare a risuonare come una campana nelle coscienze, in presenza di ogni forma d’indifferenza che tenti di annullare la distanza che separa l’umanità dalla barbarie.

Ben venga, dunque, questo appello contro l’indifferenza lanciato da un rappresentante di quelle istituzioni, che la Costituzione italiana ha voluto come migliore risposta proprio a quel sonno della ragione. Un monito che invita a impostare il problema anche di questo inarrestabile esodo, senza indietreggiare nemmeno di una virgola dal principio che tutti coloro che ne fanno parte sono esseri umani e che qualsiasi soluzione venga presa per gestirlo – condivisibile o no, risolutiva o provvisoria – parta da questo presupposto irrinunciabile, perché, come ha detto Enzo Bianchi gli altri siamo noi. Il che significa che se cominciamo, sia pure pressati da qualsiasi stato di necessità, a riconoscere la dignità umana a corrente alternata, prima o poi tutti siamo in pericolo. Ecco perché non ha senso neppure la polemica fra Matteo Salvini e papa Bergoglio, o fra il sindaco di Bondeno e don Domenico Bedin.

Come ha scritto Massimo Gramellini, mettere insieme il leader della Lega e papa Francesco è come far discutere Einstein e il mago Oronzo, ma lasciando stare per un attimo i torti e le ragioni sul pezzo, persone come don Bedin e don Giorgio Lazzarato – per fare due esempi ferraresi – sono da considerarsi, anche laicamente, delle risorse e non degli ostacoli, perché continuano a far risuonare nelle coscienze lo stesso monito lanciato dal sindaco di Ferrara.
Un’identica campana il cui rintocco etico richiama tutti a marcare le distanze dall’indifferenza, che è l’anticamera del disumano. E loro lo fanno partendo dall’assunto che l’uomo è sempre creatura, cioè creato a immagine e somiglianza del creatore. Un registro, quello evangelico, che comunque lo si veda è un aiuto, un punto di sutura, in un tempo confuso e nel quale troppi sembrano dare il proprio meglio per consumare distanze, divisioni, conflitti.

E’ un punto di partenza, certo, non un punto di arrivo, rispetto alle tante risposte che ancora mancano ad un problema che tanti definiscono ormai epocale, ma partire col piede giusto fa la differenza.

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Francesco Lavezzi

Laurea in Scienze politiche all’Università di Bologna, insegna Sociologia della religione all’Istituto di scienze religiose di Ferrara. Giornalista pubblicista, attualmente lavora all’ufficio stampa della Provincia di Ferrara. Pubblicazioni recenti: “La partecipazione di mons. Natale Mosconi al Concilio Vaticano II” (Ferrara 2013) e “Pepito Sbazzeguti. Cronache semiserie dei nostri tempi” (Ferrara 2013).

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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