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Probabilmente nessuno nel non lontano 2008, quando il prezzo del petrolio schizzava a 146 dollari al barile, si sarebbe mai immaginato di vedere meno di un decennio dopo il suo valore ridotto di 120 dollari. Ma ciò che più ci avrebbe stupiti all’epoca, stremati dalle notizie che promettevano devastanti aumenti dei prezzi di tutte le merci destinate a entrare nelle nostre case, sarebbe stato non solo l’oscillare dei prezzi fra i 26 ed i 40 dollari al barile, ma addirittura l’essere in qualche modo allarmati da queste cifre.

Il petrolio è la fonte di energia più utilizzata del pianeta e i suoi derivati diventano carburante per la stragrande maggioranza di veicoli in circolazione a livello mondiale. È dunque chiaro perché le sue variazioni di prezzo si ripercuotano sugli andamenti delle economie di tutto il mondo. Ma come mai, ora che il prezzo è basso, gli economisti sembrano essere allarmati come un tempo? E soprattutto, perché il prezzo si è ridotto a meno di un quinto di quello a cui sembravamo doverci abituare in passato?
Partendo dalla storia, bisogna dire che se da un lato il fabbisogno energetico è aumentato notevolmente nell’ultimo decennio a livello mondiale, la domanda di petrolio è rimasta tutto sommato stabile. Questo a causa soprattutto della maggiore presenza sul mercato di energia ricavata da fonti alternative, non necessariamente rinnovabili, quali il gas naturale, il nucleare e le diverse energie verdi che, anche se non ancora mature, si affacciano con sempre maggior vigore sul mercato. Una domanda stagnante però, di per sé, non basta a giustificare un simile tracollo dei prezzi: la principale causa di tutta questa instabilità è data da quella che potrebbe essere la fine della leadership sul mercato di uno dei più grandi cartelli della storia: l’Opec.
Recentemente, infatti, in America sono andate affermandosi nuove tecniche di estrazione del greggio tramite il fracking, in grado di utilizzare lo scisto bitumoso per estrarre da giacimenti le cui caratteristiche ne rendevano impossibile lo sfruttamento con i metodi tradizionali. Come se non bastasse, si sta scoprendo che di petrolio (che si diceva dover finire entro cinquant’anni), soprattutto nelle Americhe, ce n’è molto di più di quanto non si pensasse. Il fracking ha un unico problema: anche quello ‘di nuova generazione’, rispetto ai metodi tradizionali, è più costoso. Di quanto? Fino a poco tempo fa di molto e l’Opec ha cercato di strozzare la concorrenza sul nascere, abbassando i prezzi al punto da rendere del tutto sconveniente la produzione. O almeno ci ha provato: se fino a giugno 2014 il prezzo del petrolio era di 106 dollari al barile, un anno dopo era già più che dimezzato, anche se, stando a quanto era stato preventivato dagli esperti del settore, sarebbe bastato un prezzo attorno ai 60 dollari al barile per accompagnare fuori dal mercato la concorrenza. Quello che i produttori arabi probabilmente non si aspettavano è che i frackers fossero così duri a mollare l’osso: anziché desistere, i produttori americani hanno fatto grandi investimenti nel miglioramento dell’efficienza delle tecniche di estrazione e, almeno per il momento, sopravvivono anche grazie alla spinta degli aiuti di Stato per l’estrazione di petrolio, negli Usa di gran lunga maggiori di quelli offerti per la ricerca e sviluppo di energie rinnovabili. D’altra parte la posta in palio è colossale, come colossali sono le ripercussioni che avranno gli esiti di questa guerra economica negli equilibri geopolitici mondiali. Per adesso l’accanimento a ribasso dell’Opec e la perseveranza dei frackers, a cui si sommano il recente rallentamento (con conseguente diminuzione di domanda energetica) dell’economia cinese e gli investimenti in fonti alternative, hanno portato a un eccesso di offerta di greggio sui mercati internazionali e questo non fa che abbassarne ulteriormente il prezzo. Se un paese come l’Arabia Saudita è in grado di guadagnare dalle esportazioni di petrolio fino ad un prezzo minimo di vendita di 10 dollari al barile, è anche vero che questa strategia a ribasso l’ha portata a bruciare, per non incasso, una media di 2 miliardi di dollari a settimana da quasi un anno a questa parte.

È lecito chiedersi cosa ci riservi il futuro. Tutto è possibile nel breve periodo con oscillazioni che potrebbero portare il prezzo da 10 a 60 dollari al barile (verosimilmente più contenute, da 20 a 50 direi). Se poi i produttori americani dovessero desistere sotto i colpi di questi ribassi concorrenziali, il petrolio schizzerebbe in alto, tornando circa a 100 dollari al barile; leggermente più contenuti sarebbero se fossero i produttori arabi a dover accettare definitivamente sul mercato la presenza dei frackers: a questo punto i prezzi salirebbero sì, ma sarebbero tenuti a bada dalla concorrenza. Sempre ammesso che frackers e Opec non formino una sorta di giga-cartello internazionale volto a mantenere i prezzi a livello di monopolio, in questo caso sarebbe davvero difficile intervenire legalmente non esistendo una figura di antitrust intercontinentale. A tutto ciò si sommano altre infinite variabili quali la domanda futura generale e l’andamento delle singole economie. Sono in forte aumento gli investimenti in ricerca e sviluppo per metodi di sfruttamento delle fonti di energia rinnovabili le quali, ancora assolutamente insufficienti a livello di efficienza a sostituire il combustibile fossile, rappresentano inevitabilmente il futuro del mercato energetico. Nel frattempo si sta affacciando con grandissima decisione sul mercato del greggio l’Iran, il quale, oltre che sul nucleare, per il suo sviluppo punta a portare entro il 2021 da 2,7 a 4,1 milioni di barili la sua produzione annua di petrolio e questo andrà ad aggiungere merce in un mercato già di per sè saturo. Si tratta di fattori che inevitabilmente andranno ad incidere sul prezzo del petrolio ed in generale sugli equilibri economici mondiali del futuro.

Un quadro complesso e bizzarro si presenta quindi ai mercati internazionali, inermi di fronte a questa guerra di prezzi. Ciò che più preoccupa è l’imprevedibilità degli andamenti futuri del petrolio nel breve periodo, i cui sbalzi improvvisi possono rivelarsi deleteri per un’enorme vastità di attività, ma non è tutto: un prezzo troppo basso, oltre a mandare in crisi le aziende produttrici (comprese quelle nostrane) e a creare un forte disincentivo all’investimento sulla ricerca di fonti energetiche rinnovabili, va ad alimentare la stagnazione deflativa che affligge i mercati occidentali. I prezzi continuerebbero a calare insomma. Senza un’inflazione leggermente maggiore si rischia di eliminare gli stimoli a ogni tipo di investimento in quanto il denaro aumenta “automaticamente” il proprio valore nel tempo. Sembra un’assurdità, ma in una società totalmente dipendente dalle fonti di energia fossile come quella odierna, se queste improvvisamente si trovano a essere abbondanti e a prezzi convenienti, si porrebbe avere l’effetto di frenare la crescita più che di sospingerne la corsa.

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Fulvio Gandini


Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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