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Marchionne è morto. Viva Marchionne! È quanto la vulgata corrente va ripetendo da giorni con un eccesso di lodi. Appena appresa la notizia delle gravi condizioni di salute dell’ad Fca, con una velocità che svela perfettamente il cinismo di questo sistema di produzione, è immediatamente stato sostituito ai vertici aziendali. Ormai alcuni giorni fa prima della sua morte avvenuta ieri. Ed impressiona questa velocità tanto che ci si chiede: se ciò avviene ai livelli alti figuriamoci nell’ultimo anello della catena! E vien fatto di pensare che nonostante la nostra individualità, la nostra insostituibile unicità siamo tutti pezzi di ricambio di un meccanismo che non ammette inciampi. Perché non si perda un attimo, perché la catena di comando deve essere sempre in perfetta efficienza, perché il governo dei flussi finanziari non ammette incertezze. E i mercati hanno bisogno di sapere, di avere notizie sullo stato di salute dei top manager affinché le fluttuazioni di borsa non ne risentano. E così ecco le postazioni fisse delle Tv di tutto il mondo davanti l’ospedale svizzero che hanno trasmesso servizi giornalistici quotidiani ad ogni edizione di tg. Non c’è spazio per un fatto intimamente ed esclusivamente privato come la morte. Forse il più privato di un’esistenza umana. Non c’è spazio per la pietà, per la compassione. Business is business. A questo modo di procedere si sono accodati tutti i mezzi di informazione. Fin dal primo giorno, con un corpo ancora pulsante seppur in condizioni irreversibili, tutti i tg hanno mandato in onda i cosiddetti “coccodrilli” sulla figura del manager italo-canadese, che di solito si fanno a babbo morto. Un cattivo gusto con pochi precedenti nella storia del giornalismo. Tanto che il primo giorno, di primo acchito, accendendo la Tv l’impressione è stata che la notizia fosse la già avvenuta scomparsa di Marchionne. Altrettanto ha fatto la carta stampata pubblicando spaginate a go go. E poi servizi giornalistici quotidiani. Tutto diventa spettacolo. Eclatante in modo artificioso, perché occorre vendere i giornali e le inserzioni pubblicitarie negli stessi e nelle tv. Tutto diventa sensazionale. Come se mai nessuno morisse ogni giorno, ogni istante nel mondo. Dall’immigrazione alla morte di Marchionne tutto è spettacolo con una finalità economica.
Non c’è tempo da perdere. Le borse reclamano certezze. La morte di una persona non può, non deve interferire con i mega flussi finanziari. È un dettaglio insignificante. E qui sta la parabola di Sergio Marchionne. Lui che ha portato Fca con tutti i suoi marchi (da Ferrari a Alfa Romeo) a Wall Street. Sapeva perfettamente che queste sono le regole del gioco del mercato globale che non si sarebbe commosso più di tanto per la sua scomparsa quando fosse giunto il momento che non immaginava così presto. Siamo noi comuni mortali che restiamo attoniti difronte a tanto cinismo, a questa rapida sostituibilità.
Da più parti si sono sprecate le lodi al manager, come se noi italiani avessimo ancora un’industria automobilistica da difendere. Abbiamo solo degli stabilimenti (quelli sopravvissuti, Termini Imerese ha chiuso e Pomigliano non è in ottima salute) di un’impresa che ha sede legale ad Amsterdam, sede fiscale a Londra e un cervello strategico a Detroit. È bene saperlo per non illudersi. Questo è quanto è avvenuto in questi anni in estrema sintesi. Con la politica che è rimasta a guardare impotente, come oramai avviene per tutti i processi di globalizzazione, e a subirne le conseguenze. Le decisioni di politica industriale, di assetti politico-economici, non le prendono più i parlamenti, ma i mercati globali. E questo è quanto è successo anche a noi con Fiat. Non mi dilungherò sulla democrazia interna all’ex Fiat (esiste una letteratura corposa in merito alla quale ho dato un piccolissimo contributo col mio libro Rappresentanza sindacale, rappresentanza politica e tutela del bene comune. Cgil e Pci nella Fiat degli anni ’80, Festina Lente edizioni). Marchionne in questo è stato in perfetta continuità con la storia ultra centenaria della Fiat di discriminazione politico-sindacale e di negazione dei diritti. Nulla di nuovo da questo punto di vista. Di nuovo c’è stata la rottura con Confindustria nel 2012 e l’uscita dall’associazione degli industriali con conseguente disdetta dei contratti nazionali di categoria.
Cosa sarà adesso della produzione automobilistica in Italia è presto per dirlo. Marchionne credeva nei marchi di alta gamma, quelli che potevano garantire un margine di profitto più alto (Alfa Romeo, Maserati, Ferrari) tutti prodotti in Italia. Vedremo cosa sarà del nuovo assetto dirigenziale. Di certo la notizia di martedì scorso delle dimissioni di Alfredo Altavilla, responsabile per l’Europa di Fca, indicato da alcuni come il successore di Marchionne, e che avrebbe simbolicamente rappresentato la permanenza in mani italiane del massimo vertice aziendale, non promette nulla di buono. Altavilla è considerato uno degli artefici del distacco da General Motors e della fusione con Chrysler e indicato come “ministro degli esteri” di Fca. Manley, attuale ad di Fca nominato all’indomani del peggioramento delle condizioni di salute di Marchionne, ha assunto ad interim le funzioni di Altavilla. Cosa ciò significhi in termini di ricadute strategiche, anche nel nostro paese, lo scopriremo nei prossimi mesi.
In questa globalizzazione dei mercati in un settore come quello della mobilità individuale, alla politica forse resta il compito fondamentale di definire le linee strategiche di quale tipo di mobilità dei cittadini si vuole nelle nostre città per i prossimi decenni. Forse questo è un terreno in cui la politica può riappropriarsi del ruolo che le è stato sottratto dalla globalizzazione. Semmai questo ruolo volesse giocarlo, ma ho dei dubbi ce ne sia la consapevolezza. Perché parlare di automobili significa parlare di mobilità che è un tema strettamente politico. Dietro la parvenza di scelte manageriali e di mercato su quali modelli sfornare e con quali caratteristiche in realtà c’è un’idea precisa di società, una società basata sul trasporto individuale, dunque sull’individualismo, sulla massima libertà nell’uso delle risorse e degli spazi urbani (si dimentica troppo facilmente che le auto private occupano uno spazio che è collettivo, per non parlare della qualità dell’aria e dell’incidentalità), in cui queste risorse e questi spazi sono usati in primo luogo da chi ha il potere economico per farlo a cui le case automobilistiche principalmente guardano. E tutti gli altri restano a piedi. In senso letterale. Sul tipo di mobilità, collettiva o individuale, si gioca un pezzo importante della partita della democrazia poiché la mobilità ha a che fare con la possibilità di partecipare alla vita democratica sociale ed economica del proprio paese e delle proprie città. E allora puntare sul trasporto collettivo vuol dire scommettere sulla partecipazione delle fasce più deboli della società, sull’inclusione e non sull’esclusione. Un tema questo, ovviamente, che non si può imputare a Marchionne o a chi per lui, ma che attiene al ruolo della politica se non vuole essere un’ancella dell’economia.

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Giuseppe Fornaro


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Caro lettore

Dopo molti mesi di pensieri, ripensamenti, idee luminose e amletici dubbi, quello che vi trovate sotto gli occhi è il Nuovo Periscopio. Molto, forse troppo ardito, colorato, anticonvenzionale, diverso da tutti gli altri media in circolazione, in edicola o sul web.

Se già frequentate  queste pagine, se vi piace o almeno vi incuriosisce Periscopio, la sua nuova veste grafica e i nuovi contenuti vi faranno saltare di gioia. Non esiste in natura un quotidiano online con il coraggio e/o l’incoscienza di criticare e capovolgere l’impostazione classica di questo “il giornale” un’idea (geniale) nata 270 anni fa, ma che ha introdotto  dei codici precisi rimasti quasi inalterati. Nemmeno la rivoluzione digitale, la democrazia informava, la nascita della Rete, l’esplosione dei social media, hanno cambiato di molto le testate giornalistiche, il loro ordine, la loro noia.

Tanto che qualcuno si è chiesto se ancora servono, se hanno ancora un ruolo e un senso i quotidiani.  Arrivano sempre “dopo la notizia”, mettono tutti lo stesso titolo in prima pagina, seguono diligentemente il pensiero unico e il potente di turno, ricalcano in fotocopia le solite sezioni interne: politica interna, esteri, cronaca, economia, sport…. Anche le parole sembrano piene di polvere, perché il linguaggio giornalistico, invece di arricchirsi, si è impoverito.  Il vocabolario dei quotidiani registra e riproduce quello del sottobosco politico e della chiacchiera televisiva, oppure insegue inutilmente la grande nuvola confusa del web.

Periscopio propone un nuovo modo di essere giornale, di fare informazione. di accostare Alto e Basso, di rapportarsi al proprio pubblico. Rompe compartimenti stagni delle sezioni tradizionali di quotidiani. Accoglie e dà riconosce uguale dignità a tutti i generi e tutti linguaggi: così in primo piano ci può essere una notizia, un commento, ma anche una poesia o una vignetta.  Abbandona la rincorsa allo scoop, all’intervista esclusiva, alla firma illustre, proponendo quella che abbiamo chiamato “informazione verticale”: entrare cioè nelle  “cose che accadono fuori e dentro di noi”, denunciare Il Vecchio che resiste e raccontare Il Nuovo che germoglia, stare dalla parte dei diritti e denunciare la diseguaglianza che cresce in Italia e nel mondo. .

Con il quotidiano di ieri, così si diceva, oggi ci si incarta il pesce. Non Periscopio, la sua “informazione verticale” non invecchia mai e dal nostro archivio di quasi 50.000 articoli (disponibile gratuitamente) si pescano continuamente contenuti utili per integrare le ultime notizie uscite. Non troverete mai, come succede in quasi tutti i quotidiani on line,  le prime tre righe dell’articolo in chiaro… e una piccola tassa per poter leggere tutto il resto.

Sembra una frase retorica ma non lo è: “Periscopio è un giornale senza padrini e senza padroni”. Siamo orgogliosamente antifascisti, pacifisti, nonviolenti, femministi, ambientalisti. Crediamo nella Sinistra (anche se la Sinistra non crede più a se stessa), ma non apparteniamo a nessuna casa politica, non fiancheggiamo nessun partito e nessun leader. Anzi, diffidiamo dei leader e dei capipopolo, perfino degli eroi. Non ci piacciono i muri, quelli materiali come  quelli immateriali, frutto del pregiudizio e dell’egoismo. Ci piace “il popolo” (quello scritto in Costituzione) e vorremmo cancellare “la nazione”, premessa di ogni guerra e  di ogni violenza.

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