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MBO è un acronimo sulla bocca di tutti, nelle aziende di servizi finanziari (e non solo). Anche smart è un vocabolo inglese in gran voga: nonostante possa corrispondere, in dialetto ferrarese, al nostro “sgagià” (una persona sveglia, dall’intelligenza rapida, veloce a comprendere ed agire) che è quasi un sostantivo, smart è più propriamente un aggettivo. Quando si parla di smart work si intende il lavoro agile, smart city è la città intelligente, Smart è il nome dell’automobilina che puoi parcheggiare in un fazzoletto anche nella metropoli (non a caso è l’auto più rubata a Roma). Dentro questo aggettivo convivono sfumature di senso che hanno a che fare con la rapidità, la semplicità, la sveltezza. Ma SMART, nel gergo dell’organizzazione aziendale, è anche un acronimo, coniato dall’ economista Peter Drucker, l’inventore del sistema MBO (Management by Objectives): per approfondire la storia del Mbo e la figura di Drucker [Vedi qui] 

Si tratta di un sistema tanto propagandato quanto tradito nei suoi elementi fondativi, almeno nel sistema bancario italiano, al punto da generare effetti opposti a quelli che dovrebbe indurre. Il motivo può essere sintetizzato con una frase: l’MBO (o “gestione per obiettivi”) dei nostri manager non è SMART. Peccato che SMART sia il metodo coniato dal suo creatore, Peter Drucker, la declinazione in cinque voci di una vera e propria “cassetta degli attrezzi” per far funzionare un MBO. Se non lo si conosce e non lo si utilizza, il rischio è quello di generare un mostro. Vediamo cosa si intende con l’acronimo SMART.

S sta per “specifico”: Un obiettivo deve essere definito, e va indicato anche come raggiungerlo.

M sta per “misurabile”. Deve essere possibile in ogni momento verificare dove ci si trova rispetto al traguardo.

A sta per “achievable”, cioè “raggiungibile”.

R sta per “rilevante”, cioè un obiettivo coerente con gli scopi aziendali

T sta per “temporizzato”, cioè legato ad una scadenza temporale predeterminata.

Facciamo qualche esempio.

Specifico: Aumentare del 30% la percentuale di risparmio gestito tra i propri clienti è un obiettivo specifico. Se non mi viene indicato come fare, quando la mia clientela è anagraficamente più vecchia della media, e il mio territorio ha avuto negli ultimi due anni il 20% delle filiali chiuse, mi si lascia in mezzo al mare. Non mi importa come lo fai, basta che lo fai. Esattamente il contrario di quello che teorizzava Drucker.

Misurabile: ci sono banche in cui i dipendenti stessi si costruiscono gli appunti excel artigianalmente per sapere come sono messi, perchè gli strumenti di controllo di gestione aziendali aggiornano i dati di produzione dopo settimane, dovendoli pescare da archivi coi quali spesso non dialogano. Come faccio a sapere dove arrivare se non so dove mi trovo?

Achievable (Raggiungibile): qui entra in gioco il termine “condivisione”, una delle parole dal significato più travisato all’interno delle banche. “Condividere” dovrebbe significare raggiungere un accordo sui contenuti. “Condividere”, per chi “discute” un budget con il proprio sottoposto, significa spesso metterlo al corrente che deve arrivare lì. Punto. Se l’obiettivo è raggiungibile in astratto, ma non in concreto, il problema si salda con quello della specificità, e porta alle distorsioni più gravi, come vendere prodotti alle persone sbagliate per raggiungere un obiettivo che è stato assegnato senza tenere conto delle condizioni di quel contesto.

Rilevante: ha senso concentrare le energie della rete commerciale in una campagna martellante per far indebitare la clientela “debole” (ad esempio cessione del quinto dello stipendio o della pensione per ripagare un debito) e nel frattempo perdere volumi importanti su clientela “forte” ma non adeguatamente presidiata, magari dopo essere stata assorbita per effetto di una incorporazione? (provare, per credere, a fare un giretto di opinioni ‘fuori dai denti’ tra i clienti e le associazioni di categoria di Bergamo e Brescia, orfane di UBI).

Temporizzato: se il tempo prefissato è un anno solare, non può in corso d’opera diventare (anche) tre mesi. Soprattutto, l’obiettivo trimestrale non può essere penalizzante ai fini del consuntivo annuale se non viene raggiunto, e non essere premiante ai fini del consuntivo finale se viene raggiunto, ma a fine anno per qualche ragione non si raggiunge il 100% del target. Troppo comodo (per l’azienda), beffardo (per il dipendente).

Poi ci sono i paletti. Primo esempio: se raggiungi gli obiettivi commerciali ma non completi i corsi di formazione, sei fregato: niente premio, o premio tagliato. Peccato che la formazione, fondamentale per Drucker proprio per fornire al manager gli strumenti per gestire i propri obiettivi e quelli della propria squadra, adesso sia quasi tutta on line: moduli lunghissimi, da fare a spizzichi durante i ritagli di tempo (quali?) tra un cliente e l’altro, che diventano folli rincorse di fine anno per passare il test (copiando le risposte da altri) e ottenere la certificazione. In questa spirale, il contenuto formativo che rimane addosso al dipendente è inconsistente. Eppure l’azienda si considera a posto, perchè tanto i moduli sono a disposizione e se la maggior parte dei dipendenti li completa, formalmente la formazione è fatta.

Secondo esempio: se il tuo responsabile ti valuta scadente, o carente in alcuni aspetti delle competenze, non vai a premio pur avendo raggiunto i targets. E pensare che Drucker aveva in mente proprio di rendere misurabile in maniera oggettiva la prestazione del collaboratore, sottraendola alle paturnie del capo di turno.

Terzo esempio: NPS negativo. Se i clienti assegnano un basso indice di gradimento al servizio (anche se dovuto a problemi organizzativi e non alla incompetenza o maleducazione del dipendente) il premio individuale può essere decurtato o non essere proprio assegnato. In questo modo si scarica sul singolo addetto il costo che dovrebbe essere addebitato ad una cattiva organizzazione.

In tutto ciò, mai che si possa cogliere un indice di qualità “sociale” della consulenza: quanto credito è stato erogato ad aziende del terzo settore; quali crediti erogati fanno assumere un rischio eccessivo, meritevole di correggere il dato quantitativo; quali indici introdurre per misurare il rischio reputazionale. Il risultato è che un sistema che dovrebbe essere semplice e misurabile diventa un interminabile manuale, cervellotico e bizantino, di regole ed eccezioni (tutte quantitative, o legate all’arbitrio del capo) aventi lo scopo fondamentale di rendere il raggiungimento del premio il più difficile possibile.

In questa situazione, il problema dell’assegnazione di obiettivi individuali anche a dipendenti che non hanno incarichi manageriali (novità foriera di inquietanti scenari, se non circoscritta) diventa, per paradosso, l’ultimo dei problemi. Il primo dei problemi è che nessuno si fida del sistema, perchè nessuno ci capisce nulla, e questo, lungi dal creare dipendenti “orientati al risultato”, aumenta la demotivazione, la sensazione di essere presi in giro.

Ovviamente, non è così per tutti. Esiste una limitata categoria di quadri aziendali i cui riconoscimenti ad personam scavano un solco imbarazzante tra la loro gratifica e le briciole (quando arrivano) della truppa, fatto che contribuisce, tra l’altro, ad alimentare la malsana abitudine di alcuni “manager” di identificare la loro attività con la vessazione dei collaboratori. Ed è inevitabile: quando un’azienda premia il manager che usa il bastone, se questo bastone porta in un modo o nell’altro al risultato (ancora una volta: non importa come, mentre per Drucker era fondamentale), il manager riceve un incentivo a interpretare il suo ruolo in maniera bovina.

Appare, in conclusione, evidente che non basta adottare formalmente sistemi di gestione per obiettivi ricolmi di termini anglosassoni, a volte del tutto travisati(la parola budget viene costantemente usata al posto della più corretta target, per fare un altro esempio) per far funzionare l’azienda in modo sano. Sotto questo profilo, le relazioni industriali avrebbero urgente bisogno di fare un enorme salto di qualità, nella direzione di una contrattazione degli algoritmi che fungono da base di calcolo per l’ MBO, la cui interpretazione “all’italiana” accontenta pochi e scontenta molti; una sorta di riproduzione, su scala aziendale, di una cattiva politica redistributiva del reddito.

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Nicola Cavallini

E’ avvocato, ma ha fatto il bancario per avere uno stipendio. Fa il sindacalista per colpa di Lama, Trentin e Berlinguer. Scrive romanzi sui rapporti umani per vedere se dal letame nascono i fiori.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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