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essuno si sarebbe aspettato un caso così bizzarro, io meno che mai. Eppure di gente strana ne ho conosciuta tanta, e a volte gli aggettivi non bastano a rendere l’idea dopo più di trenta anni di un lavoro che mi compiaccio di definire carriera. Alcuni credono che un dirigente scolastico, un tempo denominato pomposamente Preside, sia impegnato soprattutto a sbrigare pratiche cartacee, scambiarsi mail, telefonate, coordinare riunioni più o meno affollate, on line o di persona, convocazioni disciplinari e altre noiose, spesso esasperanti attività da scrivania. È un errore, almeno nel mio caso: in realtà è un lavoro soprattutto psicologico, a volte decisamente psichiatrico, se mi si concede questa distinzione sommaria tra diversi stati di disagio mentale. Troppe volte mi è toccato districarmi tra sentimenti di rabbia, tristezza, ammirazione, soddisfazione, disgusto, risate irrefrenabili e voglia di piangere. Sentimenti miei e altrui. Ma nulla è riuscito a produrre in me uno sconcerto e un’angoscia così profonda quanto il caso del professor Oreste Metaponto, docente di filosofia nel liceo da me diretto fino a pochi mesi fa. Il turbamento, direi perfino le turbolenze, suscitati dal comportamento di Metaponto erano aggravati dal carattere insolitamente mite del professore. La vicenda aveva suscitato un notevole scalpore e poiché il liceo in questione si trova in una tranquilla cittadina della provincia piemontese dove tutti si conoscono, io stesso sono finito al centro di sgradevoli pettegolezzi. Perciò, una volta sistemata la pratica, ho chiesto di essere trasferito a Milano, dove ora da un paio di mesi vivo e lavoro protetto da un gradevole anonimato. Mi scuso per questa lunga ma doverosa premessa e per uno stile di scrittura che mia moglie e alcuni colleghi definiscono antiquato e solenne quanto un panciotto di seta grigia dalla cui tasca si intravede la carica a molla di un orologio a cipolla. Hanno usato proprio questa beffarda similitudine. Purtroppo la mia formazione classica e ancor più il linguaggio ministeriale a cui mi sono dovuto giocoforza adattare mi impediscono di esprimermi diversamente. Perciò, incurante di sciocche insolenze, esporrò il caso in questione.

Il prof. Metaponto, di Vallo di Lucania, che a differenza di quanto molti credono si trova in Campania, era giunto nella nostra cittadina piemontese su sua precisa richiesta di trasferimento. Era un mio coetaneo, sui sessanta, un’età nella quale difficilmente si decide di cambiare in modo così drastico la propria esistenza. Immaginai che dietro quella scelta ci fosse un lutto, un divorzio traumatico o qualche scandalo o malefatta del professore, ma era impossibile andare oltre vaghe supposizioni: la riservatezza di Metaponto era impenetrabile ai comuni mortali come ai cinesi le mura della città proibita. Stando ai pettegolezzi pare che non avesse parenti di sorta, se non un’anziana sorella con la quale aveva da tempo interrotto qualunque rapporto. Coltissimo, serio, irreprensibile, puntuale, Metaponto sorrideva spesso con un sorriso benevolo, a volte inconsapevolmente altezzoso, ma non rideva mai. Correva voce che non perdesse mai la pazienza con i suoi studenti, un fenomeno più che raro, direi soprannaturale, i quali studenti del resto dimostravano per lui grande rispetto. Era uno di quei professori di filosofia che avevano il dono di esporre in modo chiaro le domande chiave e far emergere i principali dubbi che sorreggono e percorrono, come i tubi di acciaio di un lungo ponte sull’oceano, il pensiero dei filosofi di tutti i tempi. E da queste domande riusciva a risalire a risposte parziali ma chiare, accessibili a ragazzi di sedici o diciotto anni, facendo sì che fossero gli studenti stessi a ritrovarsele davanti agli occhi senza capire come. Anche se, alla fine, su tutto trionfava il dubbio, che a sua volta suscitava la curiosità e quindi la voglia di porre nuove domande. Insomma, un vero Maestro del dialogo socratico, dicevano alcuni. In pochi anni era riuscito a diventare un modello di insegnante, rispettato perfino dai colleghi più scadenti i quali, come si sa, sono sempre i primi ad accanirsi con mille meschini pretesti su chi vale più di loro. Solo un paio di colleghi di matematica e fisica si azzardavano a giudicarlo un abile fanfarone, ma se lo dicevano solo in privato, attenti a non farsi sentire.

Metaponto non interrogava: chiamava lo studente alla cattedra secondo il rituale più tradizionale – non assumeva mai quelle pose giovanili o pseudo democratiche di certi insegnanti che si siedono in circolo insieme agli studenti o addirittura al banco con loro, o poggiano il deretano sulla cattedra accavallando le gambe o perfino si siedono sul pavimento in postura yoga con jeans poco puliti – e esordiva di solito con la seguente domanda: “Che cosa ha da chiedermi oggi?”. Gli studenti impiegarono un po’ di tempo ad abituarsi a quell’uso del ‘Lei’ e a quei metodi, ma alla fine lo trovarono divertente. I più intelligenti lo giudicavano perfino stimolante. Anche perché quasi sempre il prof. rispondeva alle domande con un’altra domanda, vecchio trucco poliziesco, o con frasi vaghe, parabole, enigmi da decifrare o indovinelli. E nessuna domanda, anche quelle più apertamente provocatorie, lo metteva in crisi.

Quando Giampiero Trocchi, studente della terza C pluribocciato e plurisospeso, da tutti conosciuto come Giampiero Culonero, ormai un uomo cresciuto, gli chiese: “Mi dica, prof., ma lei preferisce gli studenti maschi o le studentesse femmine?” gli sghignazzi osceni della classe furono soffocati dall’imperturbabile risposta di Metaponto: “Caro Trocchi, data l’età degli studenti sarebbe più interessante che rispondesse lei a un simile quesito. In ogni caso la ringrazio della domanda, perché mi permette di introdurre Lei e i suoi colleghi a uno dei più stimolanti argomenti della filosofia classica. Tra i greci, e non solo tra loro, l’idea dell’inferiorità della donna era molto radicata e l’omosessualità maschile, come nel caso di Socrate e Platone, era considerata una pratica sessuale di rango più elevato. Oggi le cose sono molto cambiate, ma non troppo, già questo dovrebbe farLa riflettere, e secondo alcuni l’erotismo è una forma raffinatissima di conoscenza. Perciò io preferisco tutto ciò che accresce la mia conoscenza del mondo e dell’umanità.”

“E quindi? – lo incalzò Trocchi che non voleva mollare la presa.

“Lascio a lei giudicare dai miei comportamenti. Ma le assicuro che quanto viene chiesto agli altri apre abissi sterminati su ciò che bisognerebbe chiedere a se stessi. E le consiglio di leggere Platone, Foucault e il Marchese De Sade, dai quali scoprirà che in fatto di erotismo c’è un universo da scoprire.”

Tra gli studenti circolavano molti aneddoti sui metodi del prof. Metaponto, tra i quali il più famoso riporta la seguente risposta alla domanda impertinente se lui credesse in Dio. “Chi sono io per permettermi una convinzione così ambiziosa? Da anni mi chiedo se Dio, dotato di mezzi di gran lunga superiori ai miei, creda in me, e ancora non ho trovato una risposta convincente. Per credere a qualcosa o a qualcuno servono informazioni di prima qualità e un gran coraggio. Un coraggio sovrumano, direi. Perciò, essendo io umano e non sovrumano, solo dopo aver capito se Dio crede in me potrei azzardare una risposta a quanto lei mi chiede.”

Molti ricordano ancora le sue divagazioni sulla musica celeste degli astri e l’armonia universale sorretta da infinite combinazioni numeriche, divagazioni accompagnate da una piccola tastiera elettronica per far capire agli studenti l’origine dell’attitudine per la metafisica. Suonava note o accordi, scale ascendenti e discendenti e chiedeva agli studenti quali pensieri o sentimenti evocassero. Un insegnante straordinario, nel senso letterale di totalmente fuori dall’ordinario, senza essere pazzo, come invece, posso assicurarvi, capita con un’infinità di insegnanti.

Qualcuno potrebbe trovare interessante un elenco dei tanti esempi di interrogazioni, o meglio scambi di domande, tra Metaponto e i suoi alunni, ma al momento sono tenuto a raccontare soltanto quanto accadde verso la fine del mese di febbraio del corrente anno. Gli eventi precipitarono nell’arco di un paio di settimane, non di più. Pare che il professore fosse rimasto particolarmente impressionato dall’attacco dell’esercito russo all’Ucraina. Non che avesse mai detto nulla di esplicito in proposito, la sua riservatezza, o evasività che dir si voglia, riguardava non solo la sua vita privata ma ancor più le opinioni politiche e l’orientamento religioso. Era imbattibile quando decideva di rifugiarsi in un’ambiguità indecifrabile. Mentre tutti gli altri insegnanti, e perfino molti studenti, non parlavano d’altro che di quella guerra, spesso litigando furiosamente in una cacofonia di opinioni discordi, lui si asteneva da qualunque commento. Sembrava perfino che in aula docenti si sforzasse di non ascoltare. Ma da un segnale preciso si poté capire quanto fosse turbato da quegli avvenimenti: comparve all’improvviso, ripetendosi con frequenza quasi regolare, un tic nervoso che gli provocava un tremito all’angolo sinistro del labbro superiore. Il labbro si sollevava e il canino sinistro usciva allo scoperto. Inutile dire che parecchi studenti, trovato finalmente un punto debole, si esercitarono nell’imitazione di quel tic e in poco tempo parecchi di loro erano diventati dei veri virtuosi di sollevazione del labbro.

Intanto però, nello spazio di pochi giorni, Metaponto smise progressivamente di fare lezione. Si sedeva in cattedra e diceva agli studenti: “Parlate voi. Il futuro del mondo, bello o brutto che sia, siete voi. Io non ho più nulla da dire.” Subito dopo partiva il tic nervoso con conseguente apparizione del canino. Lo sconcerto tra gli alunni, e subito a seguire tra i colleghi, fu indescrivibile. Il rispetto che fino a poco prima i ragazzi riservavano al professor Metaponto iniziò a scemare rapidamente. Dopo tre o quattro ore di lezione, o meglio di mancata lezione con gli studenti che chiacchieravano amabilmente, giocavano coi cellulari o semplicemente, come si usa dire, combinavano un gran casino facendo a gara di smorfie con le labbra, fui costretto a convocare Metaponto per un chiarimento. Aleggiava nell’aria il sospetto di una crisi psichiatrica. Le uniche frasi che ripeteva, secondo le testimonianze riportate da alcuni, erano: “Se prima non c’era la risposta, adesso è sparita pure la domanda.” E poi: “Tutto il resto è silenzio.” Quest’ultima è una citazione da ‘Amleto’, la conosco da tempo, la prima invece ha origini oscure, almeno per me. Ed è esattamente questa la frase con cui esordì quando lo convocai in presidenza per darmi spiegazioni.

“Forse ha bisogno di un periodo di riposo, professore. O magari di cure mediche. Non crede?” Cercai di usare il tono più gentile del mio repertorio.

Metaponto scuoteva la testa, con il suo sorriso mite venato di malinconia, come a esprimere compassione per i miei tentativi di capirci qualcosa, e subito dopo partiva il tic nervoso. Da piemontese ho imparato che capire la gente del meridione non è semplice. Poi quel giorno, osservandolo meglio, intravidi trapelare dai suoi occhi scuri qualcosa che suggeriva la presenza lontana del mare. O meglio mi sembrava, quando si perdeva nella distrazione come spesso accadeva, di percepire  da quello sguardo una nostalgia, una sorta di sfaldamento della linea dell’orizzonte al confine tra il mare e il cielo. Non saprei spiegarmi meglio di così. Altri tentativi di ottenere qualche spiegazione da quell’uomo si risolveva con perifrasi di quella stessa frase: “Non c’è più la domanda, dopo che è scomparsa la risposta a qualsiasi domanda. Cosa vuole che le dica?” oppure “Lei Preside mi domanda qualcosa senza sapere perché me lo domanda. Se non se lo chiede come faccio a rispondere?”

Fosse stato un altro sarei andato in bestia in pochi minuti, ma quell’uomo meritava rispetto, attenzione e pazienza. Mi sarebbe perfino piaciuto essergli amico. Speravo disperatamente che si prendesse un mese di aspettativa per malattia o per qualsiasi altra ragione e mi togliesse di torno quel tormento, ma invece lui arrivava a scuola ogni giorno, puntuale e imperturbabile, e si sedeva in cattedra senza dire o fare assolutamente nulla. Se non la solita solfa: “Parlate voi. Ormai il futuro del mondo siete voi. Io non posso esservi di aiuto, non ho più nulla da dire.”

Non sapevo più che fare. Se non che il caso, ammesso che esista, mi sollevò dalla responsabilità di una decisione. Finora ho omesso di riportare che Metaponto, pur tacendo e ormai ignorando completamente gli studenti, in quei pochi giorni ogni tanto si scuoteva dalla sua apatia e trascriveva delle brevi annotazioni sulla sua agendina rossa, una di quelle agende Moleskine oggi tanto di moda tra chi ostenta arie da intellettuale. Il colpo di grazia, o la soluzione finale del caso, la si chiami come si vuole, si presentò proprio attraverso il furto di quell’agendina. Uno studente o studentessa, nessuno lo ha mai saputo, approfittando dello stato di atarassia distratta di Metaponto, gliela sottrasse. E da quel momento, nonostante il professore avesse sporto denuncia formale e fatto protocollare in segreteria l’increscioso accadimento, non se ne seppe più nulla. In seguito a questo affronto scrisse una relazione nella quale comunicava la sua decisione di non tornare più a scuola. “Mi è assolutamente impossibile adempiere ai miei doveri dopo questa ignobile azione ai miei danni.” In seguito a ripetute assenze ingiustificate, dopo una lettera di richiamo inviata tramite raccomandata, inutili tentativi di convocazione in Presidenza per chiarire la sua posizione, dopo aver avvertito il Provveditorato dell’accaduto, per il professor Metaponto si aprì la procedura di licenziamento. Ma, come si sa, certe procedure burocratiche seguono tempi e ritmi estranei a quelli biologici della vita umana. Sì, perché il professor Metaponto venne ritrovato dieci giorni dopo sul greto del Po all’altezza di Reggio Emilia il giorno di Pasqua. Chissà dove e quando aveva preso la sua decisione per poi ricomparire sotto forma di cadavere proprio nel giorno in cui si celebra la Resurrezione.

Sto cercando di dimenticare, ma i sensi di colpa sono una brutta bestia, duri a morire. Non riesco a sottrarmi alle solite domande: ‘Forse avrei potuto dire, avrei potuto fare’ e altri inutili tormenti. Fatto sta che dopo pochi giorni il rinvenimento del cadavere nella cittadina di provincia, da me per fortuna abbandonata, ha cominciato a circolare la voce che uno strano fantasma, pallido e aggressivo, molto diverso da come avevamo tutti noi conosciuto il professor Metaponto, si trascina zoppicando per le strade e i vicoli, soprattutto al crepuscolo e di notte, ma a volte anche la mattina molto presto, e terrorizza i passanti con domande del tipo: “Tu credi davvero che il divenire possa scalfire la superiore maestà dell’Essere?” oppure “Da dove ha origine il Tempo?”. Per poi mettersi a strattonare i malcapitati urlando “Tira fuori la mia agendina rossa, brutto pezzo di merda, tanto tu che ne capisci dei miei appunti?” “Che ne capite voi tutti?” e poi, mostrando un canino gigantesco circondato da una gengiva color prugna, si mette  a inveire contro la categoria degli studenti. I passanti fuggivano appena lo intravedevano a distanza e a volte lui prendeva a inseguirli urlando. Agli occhi del fantasma chiunque poteva essere un parente del ladro o il ladro stesso, come se tutti gli abitanti della cittadina fossero complici o per lo meno omertosi. Così almeno si va raccontando.

Questa storia, ridicola e alla quale non ho mai prestato alcun credito, mi ricorda una vecchia novella di un famoso autore russo, anzi, di un autore ucraino di lingua russa. Ma in realtà penso sia un’invenzione di uno studente fantasioso, magari il ladro stesso. A volte gli studenti sono diabolici. Eppure circola con insistenza e contribuisce a mantenere in vita i miei dubbi, le mie supposizioni e i miei sensi di colpa. Appena possibile mi recherò a Vallo di Lucania e lì porterò dei fiori sotto la lapide del professor Metaponto. E lo farò ogni anno. Ma prima ancora dovrò scovare il ladro che ha rubato l’agendina rossa. Vivo a Milano, ma ho ingaggiato un investigatore per individuare, laddove tutto ha avuto inizio, chi sia il colpevole. Perché, lo confesso, più del senso di colpa mi tormenta la curiosità di scoprire cosa aveva scritto Metaponto su quell’agendina. Quali domande e quali risposte. Devo scoprirlo, ad ogni costo, fosse anche fra cento anni.

Racconto inedito, proprietà dell’autore.

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Sergio Kraisky


Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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