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L’ideologia manageriale nata nelle aziende si è diffusa nell’intera società sostenuta da una filosofia, da metodi, strumenti e riti: essa è fondata sul calcolo, sull’efficienza, sul rapporto costi-benefici, sulla misurazione continua della performance, sull’uso sistematico di indicatori e di indici che sostituiscono di fatto il rapporto diretto con le persone. E’ fuor di dubbio che questo approccio porti dei vantaggi per le organizzazioni ma, insieme a questi, porta anche numerosi rischi e veri e propri problemi patologici che emergono con forza quando saperi, nati e cresciuti nel mondo delle grandi imprese orientate al profitto, vengono applicati con poco discernimento nelle piccole e medie imprese dei distretti industriali, nel mondo del non profit e nella Pubblica amministrazione.

Che forma assume questo sapere quando viene applicato al problema delle persone che lavorano in un’organizzazione o, meglio, al cosiddetto tema della gestione delle risorse umane? Che relazione ha tutto questo con la qualità dell’offerta e il perseguimento dei fini dell’organizzazione?
La disciplina del management, si sa, è molto semplificatrice, orientata al concreto; adotta spesso un’immagine di essere umano riduttiva ed eccessivamente schematica. In questa prospettiva l’azione gestionale cerca di definire i comportamenti umani usando regole e norme, e si sforza di influenzarli attraverso meccanismi basati su incentivi e disincentivi, il cui scopo ultimo è quello di stimolare la motivazione ed aumentare le performance.

Questo tipo di strategia si regge su due semplici assunti:
• il lavoro comporta sforzo e fatica e le persone tendono a farlo controvoglia;
• la motivazione principale delle persone, se non l’unica, è rappresentata dal guadagno o dal timore di perderlo.

Negli ultimi decenni dispositivi fondati su questi assunti sono entrati a far parte del senso comune (si trovano citati perfino sui giornali sportivi e di moda) ed hanno trasformato profondamente le relazioni umane contribuendo grandemente a sostenere il passaggio dalla logica del dovere, dell’onore derivante dall’applicazione impeccabile delle proprie capacità, del gusto derivante dal lavoro ben fatto, alla logica asettica degli obiettivi e della performance basata su indici e incentivi. L’esperienza dimostra però che queste procedure, così apparentemente razionali, spesso falliscono: gli uomini e le donne che vi sono sottoposti infatti, modificano il proprio comportamento ma non necessariamente nel senso immaginato dagli “astuti” pianificatori.

Perché questo accade? Che effetti causano queste strategie razionali che sembrano nascondere ad un tempo una straordinaria presupponenza ed una altrettanto grande ingenuità? Perché malgrado tutto, tanto gli apostoli dell’ordine manageriale con i suoi metodi di gestione, azione e valutazione, quanto la vulgata comune continuano a credere nell’assoluta necessità di misurare e premiare il merito?
Per dirimere almeno in parte la questione, conviene concentrare l’attenzione sulla motivazione (che è l’altra faccia del bisogno) e sull’ambiente di regole in cui le persone agiscono.

Contrariamente ad alcuni pregiudizi, le persone agiscono in base ad (almeno) due tipi di motivazione molto diverse tra di loro:
• la motivazione intrinseca legata al gusto di fare qualcosa che piace e dà soddisfazione;
• la motivazione estrinseca connessa al posporre la soddisfazione e sostituirla con guadagni successivi solitamente di tipo monetario.

Questi due tipi di motivazione rispondono a bisogni personali molto differenti e non sono sommabili tra di loro: azioni come il dono, l’altruismo, il volontariato o il rispetto delle norme sociali, la responsabilità verso l’ambiente e il rispetto verso le culture, sono fondate su motivazioni intrinseche delicate e complesse. Introdurre la remunerazione economica in tale sistema – come mostrano esemplarmente le ricerche condotte da Bruno Frey – è non solo inutile ma anche dannoso: un po’ di azione interessata immessa in un sistema disinteressato è sufficiente a distruggerlo.

Un’organizzazione è composta da più persone; al suo interno tuttavia le modalità con cui queste interagiscono sono diverse:
• in alcuni casi lavorano in gruppo (con altre persone);
• in altri casi in relativa autonomia (accanto ad altre persone).

Costruire indici e meccanismi di misurazione della performance nei due casi è molto diverso. Sembrerebbe logico affermare che il lavoro di squadra richieda incentivi collettivi (evitando con cura quelli personali) mentre per l’altro tipo di lavoro meglio si adattino incentivi individuali. Tuttavia non è detto che i due sistemi funzionino sempre. Per quanto riguarda il primo, la letteratura è concorde nel mettere in risalto come nel gruppo possa annidarsi il “passeggero clandestino” che approfitta degli sforzi degli altri ed è del pari noto il fenomeno della regressione della “performance” verso la media, dove i più capaci abbassano la propria prestazione e si adattano a fare meno di quello che potrebbero o perdere addirittura la propria motivazione.

Un incentivo è una forma premiante che implica regole ed una certa competizione; tuttavia per vincere il premio:
• si può correre più forte degli altri;
• si può sabotare l’azione degli altri concorrenti.

Nelle organizzazioni a volte è l’eccesso di concorrenza che mette le persone a lavorare le une contro le altre, distruggendo quella fiducia che è indispensabile al lavoro di squadra. E’ quello che accade quando, non essendo possibile confrontare performance in rapporto a prestazioni specifiche ed oggettive, si confrontano le persone per ordinarle lungo una graduatoria: una strategia che impatta pesantemente sulle emozioni e che tende a distruggere lo spirito di squadra e a favorire l’imbroglio.

Indici ed incentivi vengono sempre inglobati nelle strategie personali dei diversi attori sociali e vengono considerati come vincoli ed opportunità; in tale situazione:
• alcuni tendono a spostare l’attenzione dalla reale qualità del lavoro alla massimizzazione degli indici stessi e
• alcuni ad eliminare quelle componenti del lavoro che non sono espressamente riconosciute dalle misurazioni.

Si tratta di un rischio gravissimo che investe proprio quelle mansioni multitasking (per loro natura complesse e difficili) che riguardano gran parte dei processi di lavoro che sono tipici del mondo dei servizi e, più in generale, dei nuovi contesti lavorativi.

Di fronte a queste difficoltà potrebbe sembrare buona cosa ridare valore al giudizio dei capi, a quello dei superiori. Questo giudizio tuttavia è particolarmente soggettivo, non verificabile ed è esposto agli inganni dei furbi e ai raggiri degli adulatori e dei ruffiani (yes men). Senza nulla togliere all’utilità potenziale della valutazione basata su indici e su incentivi, il quadro che emerge è tutt’altro che chiaro ed omogeneo come mostra esemplarmente la raccolta di casi riportata nel saggio “Le strategie assurde” della sociologa aziendale Maya Beauvallet (le cui tesi sono qui liberamente riprese). Si intuisce piuttosto l’esistenza di un pregiudizio meccanicista, retaggio della vecchia cultura industriale e burocratica, che rappresenta un po’ il trionfo della logica della gestione su quella della leadership. Emerge insomma (e con molta chiarezza) che il tema della misurazione della performance per il riconoscimento di incentivi in grado di contribuire a migliorare la qualità del servizio (o prodotto) offerto è tutt’altro che di facile soluzione.

Prima di predisporre un meccanismo di incentivi o un indice è importante dunque considerare gli effetti imprevisti e quelli perversi che può produrre in varie parti del sistema e, inoltre, gli effetti collaterali che possono gravare anche sui soggetti non direttamente interessati come i cittadini e i pazienti, i clienti, gli utenti dell’organizzazione che attiva il sistema di indici ed incentivi.

Se sei un manager o un dirigente, prima di farlo, pensaci bene! Passaparola!

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Bruno Vigilio Turra

È sociologo laureato a Trento. Per lavoro e per passione è consulente strategico e valutatore di piani, programmi e progetti; è stato partner di imprese di ricerca e consulenza e segretario della Associazione italiana di valutazione. A Bolzano ha avuto la fortuna di sviluppare il primo progetto di miglioramento organizzativo di una Procura della Repubblica in Italia. Attualmente libero professionista è particolarmente interessato alle dinamiche di apprendimento, all’innovazione sociale, alle nuove tecnologie e al loro impatto sulla società. Lavora in tutta Italia e per scelta vive tra Ferrara e le Dolomiti trentine.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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