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da: Ferrara sotto le Stelle

In 20 anni di attività l’elusiva band scozzese è divenuta l’archetipo di un post-rock basato su lunghi brani chitarristici che alternano momenti morbidi e dilatati a vere esplosioni di fragore sonico, forgiando un suono maestoso e potente.
La loro unica data italiana sarà focalizzata sulla sonorizzazione di Atomic, il celebrato documentario di Mark Cousins, costruito interamente da immagini di archivio, un caleidoscopio impressionistico degli orrori del nucleare.

Quello di Ferrara non sarà un “classico” concerto dei Mogwai, quanto la riproposizione integrale del loro ultimo album, composto da versioni rielaborate della musica registrata per la colonna sonora del celebrato documentario del regista Mark Cousins, Atomic: Living in Dread and Promise”, andato in onda su BBC la scorsa estate.
Quindi sullo schermo scorreranno le immagini del film, costituito integralmente da materiale di repertorio, un caleidoscopio impressionistico degli orrori del nucleare – marce di protesta, Guerra Fredda, Chernobyl e Fukushima – ma anche della bellezza sublime del mondo atomico, e di come radiografie e scansioni MRI hanno migliorato le nostre vite.
La colonna sonora dei Mogwai incapsula l’incubo della guerra nucleare, ma anche le sue qualità oniriche: un concerto concepito per far pensare e lasciare il segno.

Istintivi e imprevedibili, gli scozzesi MOGWAI hanno coniato un marchio post-noise-rock ormai inconfondibile: digressioni, feedback e alternanze tra quiete e turbamento che culminano spesso in apoteosi di rumore schizofrenico. Il loro modello è evidentemente rappresentato dagli americani Slint, di cui riprendono la formula di un rock strumentale, con rari interventi vocali al limite del parlato. Rispetto ai maestri di Louisville, però, i Mogwai sono meno freddi e contenuti, meno cerebrali e molto più melodici, dimostrando una voglia di giocare coi topoi del rock proprio mentre lo si sta scardinando, ma anche un’etica tutta giocata su una rappresentazione delle emozioni non mediata dalla ragione.
Esponenti della scena di Glasgow, i Mogwai nascono nel 1995 con un organico di tre soli elementi. Nel 1997 autoproducono il loro primo Lp, Ten Rapid, sulla loro etichetta personale, la Rock Action. Il sottotitolo di questo disco è “Collected Recordings 1996-1997”: si tratta, infatti, della raccolta completa delle prime composizioni che hanno permesso al pubblico britannico di conoscere la band.
Dopo l’uscita di Ten Rapid la fama della band cresce enormemente e, approfittando del fermento che si sta sviluppando a Glasgow grazie all’alternativa sonora proposta dalla Chemikal Underground, vengono messi sotto contratto dall’etichetta. Dopo pochi mesi arriva 4 Satin Ep, caratterizzato da un incrocio tra sperimentazione e moderno progressive.
Assoldato un altro chitarrista, il terzo, i Mogwai entrano in studio per registrare il loro primo “vero” album, Young Team, un vero manifesto dell’arte drammatica della band, capace di costruire atmosfere da thriller tra silenzi minacciosi e controllati scoppi di maestosa furia chitarristica. Colpisce l’uso di distorsioni e dissonanze in chiave non tanto noise o disturbante, quanto pittorica, giocata sulla ricercatezza dei timbri e degli effetti tattili del suono, che li avvicina all’estetica shoegaze. Ne scaturisce una sorta di kolossal per camerette solitarie, privo di barocchismi e velleità narrative. Young Team può essere considerato una sintesi parecchio inquieta di un decennio musicale, gli anni ’90, che era cominciato con due dischi sconvolgenti come “Spiderland” degli Slint e “Loveless” dei My Bloody Valentine, due mondi sonori rispetto ai quali i primi Mogwai trovano una crepuscolare via di mezzo.
Nel 1999 i Mogwai rientrano in studio per la registrazione di Come On Die Young, album che esce sempre per la Chemikal Underground. Un disco che alcuni hanno definito come la quiete dopo la tempesta. Il mood introverso e depresso dei primi anni del nuovo millennio, che non a caso vedrà trionfare le brume artiche degli islandesi Sigur Rós, ma anche gli amniotici Radiohead di “Kid A”, è qui anticipato. L’edonismo del brit-pop sembra invece già distante nel passato e l’asse stesso della musica britannica passa da Londra a Glasgow, come se si sentisse l’esigenza di un contesto più raccolto.
Il capitolo successivo è Rock Action (2001): le scelte sonore non sono troppo distanti, la violenza non è scomparsa, è semplicemente più illusoria, celata dietro atmosfere oniriche e leggere. I Mogwai convergono verso la forma-canzone più classica, riducendo fortemente il minutaggio medio dei brani e quello complessivo dell’opera.
Nel successivo Happy Songs for Happy People il gruppo scozzese opera una specie di sintesi tra il passato e le vie nuove, eliminando quasi del tutto le parti cantate in maniera tradizionale (ricorrono in un paio di brani al vocoder), ma allo stesso tempo limando dal loro suono gli aspetti più abrasivi e rumorosi, andando alla ricerca di una musica che sia più vicina alla pura forma, all’acquarello ambientale, guidando l’ascoltatore verso una catarsi che pacifica, piuttosto che verso l’inquietudine delle cupe esplosioni e dell’alternarsi di toni che caratterizzavano i dischi che li hanno resi celebri.
Mr. Beast (2006) è un ritorno a ciò che era, alle esplosioni deflagranti e ai feedback più urticanti. Ma è anche l’estremo del suo predecessore, perché il romanticismo doloroso finge di trattenersi per poi lasciarsi andare in impeti di violenza lancinante e delicata.
Il successivo The Hawk Is Howling (2008) restituisce invece i Mogwai a lunghe suite interamente strumentali, attraverso le quali cimentarsi liberamente, da un lato, con la propria perizia compositiva e confermare, dall’altro, tutti i caratteri di un suono consolidato, anzi ricondotto quasi alla sua matrice primigenia.
Simile modalità realizzativa ed evoluzioni calibrate del consolidato suono-Mogwai caratterizzano anche Hardcore Will Never Die, But You Will (2011), un lavoro nel quale la band scozzese passa in rassegna varie sfaccettature della propria declinazione di un rock in un certo senso “classico”, ancorché ampiamente innestato di saturazioni di feedback, pulsazioni elettroniche e incandescenti fughe psichedeliche.
La capacità evocativa del quintetto scozzese trova finalmente consacrazione in una colonna sonora, grazie alla serie francese Les Revenants, che narra le avventure di persone morte che misteriosamente tornano a vivere, ma la cui resurrezione coincide con strani e inspiegabili avvenimenti.
Les Revenants fa della delicatezza e della purezza il proprio tratto somatico principale. Mira al cuore per direttissima anziché passando da strade e metafore. Degli imponenti arrangiamenti e delle coltri strumentali a cui la band ci aveva abituato non resta quasi nulla: scomposte ai minimi termini, esse prendono la forma di lievi tocchi d’archi, dolci pioggerelle di synth e ritmi quasi accennati.
I Mogwai formato soundtrack stupiscono non poco, rivelando un ennesimo nuovo volto e aggiungendo un’altra tessera al già eterogeneo puzzle della loro carriera.
Nove mesi più tardi, Rave Tapes porta a compimento il sound che i quattordici gioielli della colonna sonora avevano sviluppato in un universo parallelo: si tratta del definitivo approdo del quartetto scozzese ad una dimensione intimista, dove la melodia diviene elemento centrale e i crescendo perdono energia per guadagnare colore, con tastiere e sintetizzatori a tracciare la rotta e arginare ermeticamente le esondazioni di chitarra, basso e batteria.
Ad aprile 2016 i Mogwai pubblicano una nuova colonna sonora: Atomic, rivisitazione delle musiche composte l’estate precedente per il documentario “Atomic: Living In Dread And Promise” diretto da Mark Cousins per la Bbc, realizzato per ricordare un drammatico anniversario: i 70 anni dalla tragedia di Hiroshima. La band scozzese si è immersa completamente nell’atmosfera, recandosi anche a visitare il Parco della Pace di Hiroshima, e ha partorito dieci tracce dal tono profondamente evocativo, affidandosi in maniera quasi esclusiva all’uso dell’elettronica. In Atomic tutto è pensato in funzione dello scopo narrativo, seguendo un filo logico strumentale allo svolgimento di uno storyboard, anche se documentaristico. Ed i risultati sono sorprendenti: la visione della pellicola mostra un perfetto connubio fra suono e immagini, ma l’apparato musicale resta coinvolgente anche se svincolato dal documentario. Ormai alla pari con tutti i più quotati compositori di colonne sonore contemporanei, i Mogwai non riuscirebbero a partorire un’operazione malriuscita neppure se ci si impegnassero davvero. E anche in questo caso non si smentiscono.

I Mogwai sono: Stuart Braithwaite (chitarra, voce), Barry Burns (chitarra, piano, sintetizzatore, voce), Dominic Aitchison (basso), and Martin Bulloch (batteria).

Mogwai: “Ether”:

MOGWAI play ATOMIC
Piazza Castello – Ferrara – Mercoledì 6 luglio
Posti a sedere

Orari:
Apertura casse: ore 18:00
Apertura porte: ore 20:30
MOGWAI on stage: ore 21:45

Ingresso: 30 euro
Info: 348-6117254

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Riceviamo e pubblichiamo


Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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