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di Valerio Lo Muzio

“Ho perso tutto” dice con lo sguardo nel vuoto e la voce sicura, di chi è convinto di aver ormai superato la tempesta. Ad aver “perso tutto” è Francesco, 38 anni e un passato da giocatore accanito, la sua passione erano le scommesse sportive e la sala ippica dove ha buttato tutti i suoi soldi, ininterrottamente per undici lunghi anni. Un decennio della sua vita fatto di sotterfugi, di inganni, prima alla famiglia e poi a se stesso per continuare a servire quella dipendenza che è il G.a.p. , comunemente conosciuta come gioco d’azzardo patologico. “E’ peggio dell’alcolismo” dice Francesco, un nome di fantasia, perché preferisce rimanere anonimo “Scommettevo sempre, passavo 5 ore tutti i giorni nella sala scommesse, non riuscivo neanche a più a seguire un evento sportivo se non ci avevo giocato”. Francesco, si apre e racconta:“Nella mia carriera di giocatore, ho perso 300 mila euro, ma soprattutto 11 anni di relazioni sociali, di rapporti con mia moglie, mi sono perso l’infanzia di mia figlia”.

Francesco, ormai non gioca più da 5 anni, è entrato a far parte di Giocatori Anonimi Bologna, un’associazione senza fini di lucro che, grazie a tecniche di condivisione della malattia e un programma di astinenza e recupero strutturato in 12 passi, combatte l’azzardopatia. Il gioco d’azzardo patologico, è stato infatti classificato come una dipendenza comportamentale dal ‘Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders’ , la bibbia degli psicologi di tutto il mondo. Basti pensare che in Emilia Romagna, quarta regione italiana per fatturato da gioco d’azzardo (8.534 milioni di euro nel 2012) ), secondo le stime CNR su dati Ipsad (rilevazione sul consumo di alcol, fumo, sostanze illegali e sul gioco d’azzardo che viene svolta in Europa), sarebbero circa 10 mila i giocatori ad alto rischio di dipendenza, mentre secondo la Regione, nel 2012 erano 800 i giocatori con una dipendenza dal gioco in cura presso l’Ausl. Nel panorama nazionale, le cifre invece sarebbero molto più elevate, secondo l’inchiesta Azzardopoli condotta dall’associazione Libera, sono infatti 800 mila i giocatori patologici in tutto lo stivale, il gioco d’azzardo è un business da 80 miliardi l’anno, ovvero il 4% del pil nazionale.

Iniziare a giocare è facile, lo conferma anche Francesca 31 anni, entrata volutamente nel 2008 in Giocatori Anonimi, perché “mi sentivo intrappolata in un qualcosa più grande di me” confessa. Francesca ha iniziato a inserire soldi nelle slot machines all’età di 14 anni, attirata dalle vincite “era adrenalina pura” racconta “giocavo la paghetta settimanale, finché raggiunta un’indipendenza economica ho iniziato a fare sul serio”. E’ proprio la vincita l’input iniziale, secondo la dottoressa Maria Grazia Masci, psicologa in forza al Sert (servizio per le tossicodipendenze) del’ Ausl di Bologna, “generalmente si parte da una vincita, ma questo non basta, per diventare giocatori patologici c’è un’unione tra i problemi dati dalla vulnerabilità psicologica e biologica e i problemi sociali”. Anche secondo Carlo, 47 anni ed ex giocatore patologico, la vincita “non aiuta i giocatori patologici, anzi peggiora le cose”, quando gli chiediamo spiegazioni, lui sospira e ci racconta la sua storia: “feci una grossa vincita al totocalcio dei cavalli, vinsi trentasette milioni di lire con una schedina da 18mila lire, con quelli progettavo di chiudere i miei debiti con le banche, di sistemarmi e tenermi qualcosa da parte, però nonostante i buoni propositi, mi sono giocato tutto”.

Una cosa che caratterizza e accomuna in qualche modo tutti i giocatori patologici sono le convinzioni errate, quegli stravolgimenti della realtà, che la psicologa del Sert definisce “distorsioni cognitive”, e che Francesco ricorda con una distaccata e fredda lucidità rivedendosi come riflesso in uno specchio in “quei pomeriggi dove, perdevo 5 mila euro, poi all’ultima corsa ne vincevo 500, tornavo a casa convinto di aver vinto anziché aver perso 4.500 euro. Perché quando sei malato, passa tutto in secondo piano, non importa se hai vinto o hai perso, l’importante è il giocare”. Il costo maggiore della patologia del gioco lo paga la società, a causa delle continue perdite, i giocatori infatti, mettono a repentaglio la stabilità economica della propria famiglia “ci sono situazioni in cui i padri si sono giocati i soldi per mandare all’università i figli” rivela la Masci. Ma i soldi in qualche modo, il giocatore riesce sempre a trovarli “il giocatore è come un genio della finanza” racconta Francesco : “Riducendosi a chiederli in prestito, spesso dagli amici” continua “ma c’è anche chi ricorre a situazioni non propriamente legali pur di continuare a giocare”. “La cosa di cui ti priva il gioco” ricorda Francesca “è la serenità, ogni volta che entravo in casa erano urli e alle volte si arrivava anche alle mani, ero frustrata da quel continuo perdere soldi”.

Ma da questa piaga si può guarire? “No, non si può guarire – racconta Francesco – è impossibile, ma si può smettere di giocare, è una malattia per la quale bisogna chiedere aiuto e va tenuta monitorata, noi non possiamo giocare neanche 50 centesimi perché ti riporterebbe nello stesso vortice da cui siamo usciti” Come dire: Fine pena mai.

[© www.lastefani.it]

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Redazione di Periscopio


Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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Se già frequentate  queste pagine, se vi piace o almeno vi incuriosisce Periscopio, la sua nuova veste grafica e i nuovi contenuti vi faranno saltare di gioia. Non esiste in natura un quotidiano online con il coraggio e/o l’incoscienza di criticare e capovolgere l’impostazione classica di questo “il giornale” un’idea (geniale) nata 270 anni fa, ma che ha introdotto  dei codici precisi rimasti quasi inalterati. Nemmeno la rivoluzione digitale, la democrazia informava, la nascita della Rete, l’esplosione dei social media, hanno cambiato di molto le testate giornalistiche, il loro ordine, la loro noia.

Tanto che qualcuno si è chiesto se ancora servono, se hanno ancora un ruolo e un senso i quotidiani.  Arrivano sempre “dopo la notizia”, mettono tutti lo stesso titolo in prima pagina, seguono diligentemente il pensiero unico e il potente di turno, ricalcano in fotocopia le solite sezioni interne: politica interna, esteri, cronaca, economia, sport…. Anche le parole sembrano piene di polvere, perché il linguaggio giornalistico, invece di arricchirsi, si è impoverito.  Il vocabolario dei quotidiani registra e riproduce quello del sottobosco politico e della chiacchiera televisiva, oppure insegue inutilmente la grande nuvola confusa del web.

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Con il quotidiano di ieri, così si diceva, oggi ci si incarta il pesce. Non Periscopio, la sua “informazione verticale” non invecchia mai e dal nostro archivio di quasi 50.000 articoli (disponibile gratuitamente) si pescano continuamente contenuti utili per integrare le ultime notizie uscite. Non troverete mai, come succede in quasi tutti i quotidiani on line,  le prime tre righe dell’articolo in chiaro… e una piccola tassa per poter leggere tutto il resto.

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