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Nina
Un racconto di Carlo Tassi

A volte il mio lavoro mi porta a sentire storie che non vorrei mai sentire. Peggio è quando poi devo scriverle. Come quella che ho saputo dalla bocca di un balordo ubriaco conosciuto appena.
In cambio di una bottiglia di vodka scadente m’ha raccontato la storia di una ragazza tanto bella quanto sfortunata.

Era una ragazza bellissima e veniva da un paesino della Ex Jugoslavia.
Capelli color miele, occhi verdi e pelle olivastra, una bellezza come solo tra i Balcani se ne può trovare. Un’anima quindicenne resa orfana da una guerra bastarda. Un’antilope tra i maiali, da un campo profughi all’altro, fino all’orfanotrofio di Barbablù. Il direttore, un tizio viscido e corrotto, la vede e fiuta l’affare. In cambio di un bel gruzzolo la cede a due lupi in giacca, cravatta e tatuaggi. Un vero patto tra belve: la giovane preda è catturata, altra carne fresca per l’Organizacija è assicurata.
La fanciulla viene presto iniziata, la sua anima annientata. Amore, romanticismo e dolcezza saranno presto scordati. Gli stessi sogni, come cuccioli indesiderati, saranno soffocati. Il suo nuovo mondo è un pattume lercio da raschiare.
Una bambina diventata donna in poche settimane, nel modo più becero e spietato.
Un’altra vergine stuprata, calpestata, masticata e sputata. Pronta all’uso.
Svuotata di tutto e riempita soltanto d’eroina da non poterne più fare a meno. Come vuole la procedura, una puttana ubbidiente vale giusto un’altra puntura. Avanti il prossimo!
Ma la ragazza dagli occhi color smeraldo è bellissima, la più bella tra le schiave di quel lurido reame. Non può passare inosservata e il capo difatti l’ha notata.
Così il vento cambia improvvisamente, e l’incantevole gioiello biondo è d’un tratto curato e ripulito. Rimesso a nuovo per esser coccolato. La bambola prediletta dell’orco.
Mesi d’inferno, dal terrore della guerra alla disperazione della schiavitù. Poi questo paradiso bugiardo, perverso, fatto di catene dorate e caramelle avvelenate: l’harem del grande boss.

Però l’anima della ragazza non è ancora morta, i ricchi maiali hanno fatto male i conti. Una sera, una possibilità da cogliere senza paura. Niente da perdere se non la vita.
Le catene sono allentate, una piccola distrazione del padrone basta e avanza.
La ragazza ha imparato a fingere bene, è furba e veloce, ruba dei soldi e fila via lontano. In treno, in corriera, in autostop. Trova un’altra città, una grande metropoli, caotica, indifferente, ciò che serve per scomparire.

Per strada migliaia di facce le girano intorno di continuo, una folla assente d’estranei distratti, in altro affaccendati. Sola e trasparente il più possibile per la costante paura d’esser trovata, mentre la fame le morde lo stomaco. Soprattutto la fame. Perché la libertà da sola non basta. Perché deve fare i conti con la propria sopravvivenza e capisce che le resta sempre e solo una scelta: vendere l’unica merce che possiede.
Settimane, mesi, battendo i marciapiedi di periferia come un fiore tra i rifiuti, ancora uno splendido fiore dopotutto. Vivere da emarginata dormendo dove capita, fare sesso per quattro soldi, mangiare qualche pasto caldo alla mensa, farsi una doccia in qualche bettola per poi offrirsi ai clienti, infine procurarsi la dose serale d’eroina per sfuggire agli spettri del mattino. Ogni giorno è un conto alla rovescia col proprio nulla da perdere. Nessuno scopo, nessuna speranza, soltanto un altro buco nella carne per riaccendere il calore buono dei ricordi.

Ma una sera incontra un uomo. È più grande, ha soldi per pagare e far regali, ben presto diventa il suo miglior cliente. Forse nasce qualcosa. Nuove attenzioni, distrazioni. Un sentimento imprevisto o un’insolita avventura? Certamente attrazione, magari qualcosa di più. Lui le trova un posto dove stare, dice di volerle bene, fa promesse vaghe, ma appare e scompare e lei resta sola spesso. Come la volta che scopre d’essere incinta. Incinta di lui.
Lui si fa vivo e lei glielo dice. Lui reagisce freddamente. Tra i due qualcosa cambia e si rivela: due mondi troppo distanti, inconciliabili.
Lui la rassicura, la porterà in clinica, le pagherà l’aborto. Poi le dà dei soldi, un bacio in fronte e se ne va in modo strano. Lei resta lì, una mano sulla pancia a guardare la porta che si chiude. L’uomo non tornerà più. Altra solitudine, nuova delusione, ennesimo tradimento. Ma la pancia cresce e crescerà fino alla fine. Nove mesi tra gli stenti, contro ogni logica, ingiustamente, nel più completo abbandono.
Eppure nel suo seno cresce qualcosa per cui lottare, per cui vivere e tornare a sperare, lo sente ed è forte. La vita che nasce fa strani scherzi, s’aggrappa, resiste testarda, insegue ostinata la luce anche nelle tenebre più profonde.
Quindi resiste. Sopravvive nove mesi all’inferno per lei, per la figlia che verrà.

Sono le tre di un grigio pomeriggio di novembre. Una cameretta senza riscaldamento al primo piano d’una vecchia bettola abbandonata. Rimasugli d’un pasto e poche cose di nessun valore sparse intorno. Dal letto sfatto, sudicio, la ragazza s’alza a sedere, poi si piega in due dal dolore. Fitte nella pancia, il travaglio s’annuncia così. Lei stringe i denti, i dolori compaiono a intervalli regolari come le contrazioni. Fuoriesce abbondante il liquido dal ventre colandole sui piedi. Aumenta il dolore. La bimba spinge, vuole uscire.
La ragazza s’accuccia in un angolo, spinge e urla e spinge. Lacrime e sangue, come si dice. E poi dolore e rabbia, e finalmente la gioia d’un vagito.
L’accoglie in grembo, senza più forza né fiato, le resta solo un pianto muto di gioia impastata a disperazione. Una bellissima bambina di tre chili e mezzo. La guarda, l’accarezza con le esili dita insanguinate. Un fagottino che si muove appena, fragile e forte d’una forza inaudita. Tutto il suo mondo è ora racchiuso in quel nuovo esserino.

Ma l’incanto dura poco. Le lenzuola inzuppate di sangue, escrementi e placenta, l’odore acre, il cordone da tagliare, la sporcizia dappertutto. La bimba piange, non smette, ha fame, ha freddo. La madre ha perso molto sangue, è debole, non ha latte. Cerca di cullarla, di calmarla, l’avvolge nell’ultimo panno pulito rimasto. Le canta una vecchia ninna nanna d’anni spensierati, spezzati: la sua infanzia in Kosovo.
La lotta è impari. Vincono la fame e il freddo. La giovane madre è sconfitta, in preda al delirio, decide cosa fare. Aspetta fino a tarda sera, esce con la piccolina e s’avvia lungo la strada tra le ombre delle baracche. Si ferma davanti al cassonetto dell’immondizia, lo apre, bacia la sua bimba un’altra volta, la depone delicatamente all’interno e se ne va.
Forse la mattina arriva all’improvviso, come un lampo accecante. La ragazza apre gli occhi in preda al terrore, stavolta lucida, di nuovo presente. Cerca di ricordare dove ha portato la sua bambina. Corre fuori in preda al rimorso, sperando che non sia troppo tardi. Arriva al cassonetto, lo apre, non trova nulla. Svuotato, completamente, come il suo ventre, il suo cuore, il suo mondo.
Torna alla bettola, non corre più, cammina lentamente, inebetita da troppo dolore. Sale le scale, entra nella piccola stanza dove poche ore prima era nata sua figlia. Fruga nella borsetta, afferra il coltello che teneva per difendersi dai clienti violenti o da quelli del racket se mai l’avessero trovata.
La lama è affilata. L’affonda nelle braccia e la trascina all’interno della carne squarciandosi entrambi i polsi. Lo fa con rabbia, in profondità, da recidere vene, arterie e nervi. Il sangue esce a fiotti e ricopre tutto, mentre lei s’adagia nel letto ormai fradicio. In pochi minuti il calore l’abbandona, si trasforma in gelo e il gelo si trasforma in un sonno profondo, privo di dolore e di respiro.
La morte arriva così, come un sollievo, come una vecchia amica premurosa.

Almeno questo è ciò che molti hanno creduto sia successo, compreso l’ubriaco che ho di fronte.

La storia appena ascoltata è angosciante, spietata, dura come poche altre sentite in passato. Mi lascia dentro un certo malessere, un sapore amaro, inevitabile.
Ma questa storia non finisce qui.
Il fatto è che l’ubriaco s’ammutolisce. Il suo sguardo è sperso chissà dove. Prende la bottiglia per scolarsela tutta. Io gli blocco il braccio, Temo che col pieno di vodka non sia più in grado di raccontare il resto, sempre che un resto da raccontare ci sia.

“È tutto?” gli chiedo “Ma tu come facevi a conoscerla questa ragazza?”
“La bambina…” sussurra.
“La bambina?” lo incalzo “Sai che fine ha fatto?”
“È viva sai… ora dovrebbe avere nove anni!” dice.
“E come s’è salvata?”
“Nina si chiama… ha gli occhi verdi di sua madre!”
A questo punto afferro la vodka e gliela sfilo dalle mani. Lui mi guarda con odio e fa una smorfia. “Ridammela!” ordina rabbioso, mentre il suo fiato puzzolente mi si appiccica addosso.
Mi tappo il naso e gli mostro la bottiglia piena ormai per metà. “Se la rivuoi mi devi raccontare la fine della storia… siamo d’accordo?”
“Per niente amico… ridammi la bottiglia! Le cose regalate non si restituiscono!” raglia sempre più minaccioso.
Mi rendo conto adesso che l’ubriaco appartiene alla categoria di quelli molesti. Gli ridò la vodka sperando di calmarlo, mentre nel nostro angolo l’aria è diventata irrespirabile.
Lui agguanta la bottiglia e mi sorride. È evidente che l’umore degli alcolizzati è assai mutevole e soggetto a cambi repentini, come in questo caso.
Mi chiedo se questo balordo non fosse uno di quegli sgherri del racket sulle tracce della ragazza. Se così fosse mi sarei cacciato in un bel guaio, ma se appartenesse all’organizacija non potrebbe mai essersi ridotto così. Gli osservo le braccia: nessun tatuaggio.
“Allora vuoi sapere la fine della storia?” mi chiede.
“Certo, sono qui apposta, ti ascolto!” faccio io.
“Dunque… quella notte arriva il camion dell’immondizia. Uno dei netturbini sente il pianto disperato della neonata, apre il cassonetto e la trova lì dentro, avvolta in una coperta chiusa da un fermaglio. La raccoglie e la porta subito in ospedale. Era affamata e infreddolita, ma la cosa che preoccupava di più era che soffriva di una forma abbastanza grave di astinenza da eroina… Ma fu curata e alla fine si salvò!”

“E tu come sai tutto questo?” gli chiedo.
“Perché io ero il medico che l’ha curata, amico mio!” dice.

Rimango senza parole. L’ubriaco che avevo di fronte, imbruttito, incattivito, era stato un medico dell’ospedale. “Quindi tu saresti il dottore che ha salvato la figlia di quella povera ragazza? Ma come fai a conoscere la storia di sua madre?” gli chiedo.
“Certo… io l’ho salvata!” dice. Fa una breve pausa, poi alza la bottiglia come per brindare, se la tracanna tutta e aggiunge: “Perché io conoscevo sua madre”
“Ah… ma allora come hai saputo che la bambina era sua figlia?” chiedo io sempre più perplesso.
Lui fa un lungo sospiro, un’altra zaffata puzzolente. Però, nonostante il litro di vodka nello stomaco, sembra stranamente lucido. “È semplice… ho visto il fermaglio che aveva quando l’hanno trovata. C’era il nome di sua madre, Nina. L’ho riconosciuto, gliel’avevo regalato io!”

La storia era decisamente interessante. Già immaginavo come l’avrei intitolata.

“L’hanno deciso quelli del tribunale di darle il nome di sua madre. E…” s’interrompe.

“Ti ascolto” dico io.

“Io sono suo padre! Io ho illuso sua madre e poi l’ho abbandonata! Avevo una famiglia, moglie e figli. Ero un medico stimato… ho avuto paura di perdere tutto e l’ho lasciata da sola nella merda… ma l’amavo davvero! Poi ho visto quella bambina, mia figlia. Ho saputo dalla polizia in che modo era morta sua madre… Tutto per colpa mia! Ho iniziato a bere e alla fine ho perso tutto ugualmente, famiglia, lavoro… Tutto”

Penso che avrei dovuto capirlo subito. “Ma c’è una bambina di nove anni che magari vorrebbe conoscere suo padre… Potresti ricominciare da lei” gli dico.

Lui sorride. È un sorriso amaro, consapevole, lucidissimo. Non è il sorriso che di solito t’aspetti di trovare sulla faccia di un alcolizzato. “Nina ce l’ha già una famiglia. È stata adottata. I suoi genitori sono brave persone. Lei va a scuola, fa una vita normale. Io che c’entro? Poi ho la cirrosi. Mi restano solo pochi mesi e li voglio scontare così”
Si alza, barcolla, mi ringrazia per la bevuta, mi saluta e se ne va.

Di quell’uomo non ho più saputo nulla.

Ottima, anzi pessima storia. La intitolerò Nina.

One (U2, 1991)

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Carlo Tassi

Ferrarese classe 1964, disegna e scrive per dare un senso alla sua vita. Adora i fumetti, la musica prog e gli animali non necessariamente in quest’ordine. S’iscrive ad Architettura però non si laurea, si laurea invece in Lettere e diventa umanista suo malgrado. Non ama la politica perché detesta le bugie. Autore e vignettista freelance su Ferraraitalia, oggi collabora e si diverte come redattore nel quotidiano online Periscopio. Ha scritto il suo primo libro tardi, ma ha intenzione di scriverne altri. https://www.carlotassiautore.altervista.org/

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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