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Dall’inchiesta Aemilia a Roma Capitale a Expo, le più recenti indagini giudiziarie hanno disvelato una vasta trama che in Italia coinvolge politica, mondo imprenditoriale, fino a lambire i vertici della cosa pubblica, fra corruzione, evasione e penetrazione, quando non vera e propria colonizzazione, delle organizzazioni criminali. Il fenomeno è preoccupante non solo, o non tanto, per la dimensione espressa dalle fredde cifre, quanto per la sua pervasività: l’illegalità diviene un fenomeno collettivo e l’onestà un fenomeno individuale.
L’elemento più allarmante è la progressiva perdita del senso del bene comune e del bene pubblico, che sfocia in disinteresse o accettazione sociale dei reati commessi contro la cosa pubblica, come se a perderci fosse solo lo Stato, inteso come qualcosa di diverso e di distante dall’intera collettività formata da ciascuno di noi. E in questo clima d’indifferenza, fino alla vera e propria tolleranza dell’illegalità, che trova terreno fertile la penetrazione delle organizzazioni criminali.
Ecco perché nella battaglia contro l’illegalità è fondamentale il fronte culturale. Sono stati diversi gli appuntamenti dedicati ai fenomeni di illegalità diffusa nel nostro paese nella tre giorni di Unifestival. Uno dei più interessanti sabato pomeriggio ha affrontato un tema solitamente poco considerato, ma in realtà basilare se si vogliono formare quegli ‘anticorpi’ così importanti nel contrasto e soprattutto nella prevenzione di fenomeni criminali come mafie e corruzione: come si insegna la mafia? Come si formano i professionisti di domani, avvocati, notai, commercialisti, architetti, ingegneri, dirigenti pubblici (per esempio degli enti locali o delle aziende sanitarie locali), che purtroppo molto probabilmente avranno a che fare con criminalità e corruzione nel proprio lavoro quotidiano e che dovranno imparare a riconoscere queste realtà per non entrare a far parte di quella zona grigia che tutto confonde. Perché in futuro non si possano più sentire le parole: “io non sapevo”, “io non immaginavo”, “io non avevo capito”.

La parola chiave uscita dal seminario di sabato è stata: interdisciplinarietà. “La mafia è un fenomeno molto complesso, con caratteri radicati nel tempo e nello stesso tempo in continuo cambiamento – ha detto Stefania Pellegrini, titolare di corsi su mafia e antimafia al dipartimento di scienze giuridiche dell’Università di Bologna – perciò per analizzarlo e comprenderlo, per poterlo poi insegnare, servono competenze specifiche ma anche una visione pluridisciplinare. Ad esempio non si può prescindere da un discorso storico, ma poi bisogna attualizzarlo”. “Non si riesce ad affrontarlo da tutte le prospettive, da qui l’importanza di un dialogo fra studiosi con competenze in ambiti diversi”, conclude Pellegrini. A questo proposito Alberto Vannucci dell’Università di Pisa ha portato l’esperienza pratica del “Master in analisi, prevenzione e contrasto della criminalità organizzata e della corruzione”, nato sei anni fa, progettato insieme a “Libera. Associazioni, nomi e numeri contro le mafie” e “Avviso pubblico”, che nell’ultimo anno ha contato più di trenta iscritti. L’interdisciplinarietà è “l’approccio cardine” della didattica, con corsi di storia, diritto, sociologia, statistica, economia, comunicazione, ma è anche la caratteristica dei nostri studenti: neolaureati in scienza giuridiche o in scienze della comunicazione, futuri componenti delle forze dell’ordine, neodiplomati alle scuole di specializzazione per la pubblica amministrazione.
Vittorio Mete, che insegna sociologia dei fenomeni politici all’Università di Catanzaro, e Donato La Muscatella, referente del Coordinamento Provinciale di Ferrara di Libera, hanno richiamato la necessità di un maggiore rigore scientifico quando si trattano questi temi. La Muscatella ammette che “la società civile a volte si è arrogata compiti e competenze non suoi”, mentre “la cooperazione culturale deve avvenire nel rispetto reciproco dei ruoli”. Anche Mete è preoccupato dalla “confusione dei piani del discorso” derivante da “una sorta di colonizzazione” che le università sempre di più subiscono nell’organizzazione di eventi su mafie e illegalità. Da una parte ci sono le attività curriculari, “ci sono i corsi specifici sul tema e parallelamente i corsi di altre discipline che continuano a svolgersi come se il tema non esistesse, ad esempio si insegna a redigere un bilancio senza mai porre il problema di qualcuno che chiede di falsificarlo”; dall’altra parte si fanno attività parallele nelle quali “l’università perde la propria specificità e diventa l’ennesimo spazio per discutere di mafie” e dove non si rispettano più le competenze specifiche: giornalisti diventano statistici, giuristi parlano da storici e così via. Senza dimenticare che questa mancanza di chiarezza “è dovuta anche alla relativa mancanza di ricerche accademiche” su mafie, corruzione e illegalità e al fatto che, anche per la natura dei temi, “in questi eventi non si spiegano solo i meccanismi di funzionamento e gli strumenti di prevenzione e contrasto, ma le riflessioni sono permeate da giudizi di valore”, continua Mete: “è come se un esperto di nutrizione invece che darci solo notizie sulla corretta alimentazione e darci una dieta bilanciata ci facesse continuamente discorsi su quanto è dannoso il grasso corporeo”.

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Federica Pezzoli


Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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Periscopio propone un nuovo modo di essere giornale, di fare informazione. di accostare Alto e Basso, di rapportarsi al proprio pubblico. Rompe compartimenti stagni delle sezioni tradizionali di quotidiani. Accoglie e dà riconosce uguale dignità a tutti i generi e tutti linguaggi: così in primo piano ci può essere una notizia, un commento, ma anche una poesia o una vignetta.  Abbandona la rincorsa allo scoop, all’intervista esclusiva, alla firma illustre, proponendo quella che abbiamo chiamato “informazione verticale”: entrare cioè nelle  “cose che accadono fuori e dentro di noi”, denunciare Il Vecchio che resiste e raccontare Il Nuovo che germoglia, stare dalla parte dei diritti e denunciare la diseguaglianza che cresce in Italia e nel mondo. .

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