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Per lo Stato sono Centri di identificazione ed espulsione, per chi ci sta dentro sono centri di deportazione. I Cie, quei luoghi tanto simili ad un carcere, ma senza volerlo essere, sono oggetto del documentario “Limbo” di Matteo Calore e Gustav Hofer, presentato qualche giorno fa alla sala Boldini e introdotto dal professor Paolo Veronesi, docente di Diritto costituzionale dell’Università di Ferrara.

Per i Cie, ha usato una definizione ancora più tranchant il Dipartimento di giurisprudenza che ha organizzato tre giornate di approfondimento sul tema, dal titolo “La galera amministrativa degli stranieri in Italia”. Ne ha parlato Luigi Manconi firmatario assieme a Lo Giudice – entrambi senatori del Pd – di un emendamento, passato alla fine dello scorso anno, che porta la durata massima della permanenza nei Cie da 18 mesi, come aveva voluto la Lega Nord, a 3 mesi. Ne ha parlato anche una docente di Oxford che ha messo a confronto il sistema italiano con quello inglese.
Dentro ai Cie, finiscono gli stranieri che vengono trovati senza documenti. Una volta dentro, non possono uscire, ma solo incontrare i familiari e l’avvocato, ed hanno fino a tre mesi di tempo per regolarizzare la loro situazione. Se questo non accade, vengono rimpatriati nel paese di origine.
Questo fa gioire molti in nome della pulizia etnica che si vuole attuare in Italia. Per altri, è un’aberrazione legislativa, che andrebbe soppressa.

Il documentario racconta, attraverso quattro storie, quanto poco basti a stravolgere per sempre esistenze piuttosto ordinarie, comuni a tanti italiani. Alejandro è arrivato vent’anni fa dal Salvador con genitori, moglie e figli, tutti hanno sempre lavorato, finché lui a causa della crisi, è stato messo a casa, non è riuscito a trovare un lavoro in tempo utile per rinnovare il permesso di soggiorno ed è stato chiuso nel Cie, ed ora deve lasciare qui la famiglia e tornare da solo nel suo paese.
Karim è arrivato dall’Egitto che era molto piccolo, di fatto è cresciuto in Italia, parla con un forte accento milanese ed è finito nel Cie perché in un momento di sbandamento della sua vita, ha dimenticato di rinnovare il permesso.
Bouchaib è arrivato dal Marocco, ed all’inizio ha avuto vita difficile, è stato anche in carcere, poi è riuscito a rifarsi una vita, si è fidanzato con una ragazza italiana dalla quale aspetta una figlia, ma il lavoro è ancora precario, per cui niente documenti, quindi finisce anche lui dentro al Cie.
Infine Peter è arrivato dalla Nigeria, sua moglie è riuscita ad ottenere il permesso di soggiorno prima di lui grazie ad un lavoro, lui intanto si occupa del figlio, per lo Stato però è un clandestino illegale per cui viene chiuso nel Cie ed allontanato dalla sua famiglia.
In Italia già è difficile essere italiani, essere stranieri è impresa spesso eroica. Non sono concesse debolezze, difficoltà, sbandamenti, perché ogni mancanza può portare alla fine del sogno di rifarsi una vita qui.

limbo-cie-documentario-zalab
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Il Cie è un limbo sospeso nell’incertezza, nell’angoscia e nella solitudine, sia per chi sta dentro, sia per i familiari fuori. Il documentario racconta in modo straziante il tentativo di queste famiglie divise di colmare con l’affetto, l’amore e la solidarietà i vuoti disumani della legge. E per quanto doloroso sia stare lontani, se non altro chi ha famiglia può chiamare qualcuno nei momenti di sconforto, altri, arrivati qui da soli, si abbandonano alla disperazione di vedere tutto finire dopo tanti sacrifici, e tentano il suicidio.

“Questo non è solo un racconto di migrazioni – ha spiegato, dopo il film, il regista Matteo Calore – ma ci racconta cosa sta succedendo oggi alla società e alla politica italiana. Con questo documentario vogliamo sostenere la necessità di una commissione d’inchiesta per monitorare i Cie e renderli più il linea con le normative sui diritti umani. Alla fine la nostra speranza però è che vengano chiusi”.

Per questo, assieme al documentario, Zalabcasa di produzione di Limbo, e collettivo di filmmaker che si occupa di tematiche sociali – sostiene le campagne #maipiùcie per la loro soppressione e LasciateCIEntrare per vigilare sui diritti.

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Stefania Andreotti

Giornalista e videomaker, laureata in Tecnologia della comunicazione multimediale ed audiovisiva. Ha collaborato con quotidiani, riviste, siti web, tv, festival e centri di formazione. Innamorata della sua terra e curiosa del mondo, ama scoprire l’universale nel locale e il locale nell’universo. E’ una grande tifosa della Spal e delle parole che esistono solo in ferrarese, come ‘usta’, la sua preferita.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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