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Quando si affacciò alla politica nei fatidici anni Sessanta, la mia generazione ebbe la fortuna di incontrare tanti (non tutti) buoni maestri che seppero contemperare passioni ed impeti giovanili con la quotidianità della politica, che prevedeva dialogo e mediazione, concretezza ed efficienza. Ci insegnarono anche che c’erano dei paletti oltre i quali non si poteva andare. Si creò una generazione critica e assetata del “nuovo” (vedi il Sessantotto), ma anche consapevole e salda nei valori, una generazione che doveva ascoltare e imparare da tutti, ma anche convinta di essere dalla parte giusta.
Questo dialogo intergenerazionale è venuto a mancare attorno alla fine degli anni Ottanta, inizio anni Novanta. Sono stati gli anni in cui, sotto le macerie del muro di Berlino che ha sancito il fallimento storico del “socialismo reale”, il PCI divenuto PDS ha cominciato a “cambiar verso”. Qualcuno ha colto l’occasione, a nome e per conto della modernità e del realismo politico, per avviare un lento ma incessante processo di revisione che di fatto risponde a un fallimento, proponendo un’omologazione, adottando sistemi e metodi politici sino ad allora tenacemente avversati. Ci si è liberati dell’ingombrante figura di Berlinguer e si sono scelti con disinvoltura nuovi interlocutori a dritta (destra DC) e a manca (PSI craxiano). Sono arrivati gli anni di Tangentopoli e a Ferrara è scoppiata la vicenda CoopCostruttori. Segnali inequivocabili che qualcosa di serio stava avvenendo: il partito che aveva fatto della legalità e della questione morale un architrave su cui poggiare qualsiasi ipotesi di rinnovamento era in piena mutazione genetica.
Si avviava una stagione politica del tutto oscura e dagli approdi imprevedibili. Qualcosa di profondo stava cambiando in una sinistra che alternava segretari D’Alema, Fassino, Veltroni, Bersani, e sigle Pds, Ds, Pd, a getto continuo, sperando di coprire una crisi e un vuoto politico evidenti. Accusare, come fa Renzi, i suoi predecessori di eccesso di antiberlusconismo come causa prima dell’immobilismo è ridicolo. Assolti con formula piena per non aver commesso il fatto. Le colpe vere e gravi sono assai più complesse. Innanzi tutto, a differenza del premier, penso stiano nel non aver contrastato a sufficienza il fenomeno Berlusconi, portatore di modelli culturali, politici ed economici aberranti, che hanno intaccato la fibra morale del paese, facendo strame dell’etica pubblica (e privata). La mancata soluzione del conflitto d’interessi è un macigno che peserà in eterno su quel PDS, DS e ora PD. La sinistra di governo e di opposizione si ritagliò un ruolo subalterno e di ambigua acquiescenza. Secondo: in quegli anni forze retrive o conservatrici hanno imposto una globalizzazione economica che ha nelle leggi di mercato un totem intoccabile, un assioma sul quale ormai si sono allineate anche la sinistra italiana ed europea, che pure erano nate per cambiare mercati e rapporti di forza. Latitano progetti ed idee alternative. Risultato?
Siamo alla globalizzazione dei soprusi, non dei diritti per i ceti più deboli. Siamo alla mercificazione brutale del lavoro, alla violazione dei diritti elementari degli uomini, alla ideologizzazione della produttività come unico metro di misura. Si ritorna all’Ottocento con nuove, ma non meno brutali, forme di schiavitù (vedi caporalato o delocalizzazioni). Il primato della finanza sulla politica è strabordante e quest’ultima risponde cercando di strutturarsi anch’essa per oligarchie. Meno democrazia, meno partecipazione, meno controlli, uomini malleabili senza passato e storia, che imporrebbero coerenza, da catturare con il luccichio del potere. Un capo, un popolo.
Questa lunga premessa per dire che Renzi non è il nuovo. Chi pensasse questo prende un clamoroso abbaglio. Il fiorentino è chiamato a completare l’opera di cancellazione della sinistra italiana, confinandola unitamente ai sindacati in una posizione residuale. Vuole creare il partito “degli 80 euro”, che non si ponga grandi problemi di democrazia, partecipazione, di legalità, di rinnovamento. Mance contro acquiescenza. Si esagera? Di fatto la destra gongola e si prepara a completare la transumanza, già a buon punto, inalberando i vessilli renziani. Tutti gli italiani che considerano il potere un fine e non un mezzo sono attratti dalle sirene del premier, che da parte sua fa il possibile per rimuovere ostacoli. Le tesi è che berlusconismo e antiberluconimo si equivalgono nelle responsabilità per il mancato decollo del paese. Il messaggio “il primo Berlusconi (cioè quello della P2, di Mangano stalliere, di Dell’Utri mediatore con la mafia) non mi dispiaceva” non è incidentale, stende un tappeto rosso ai nuovi adepti provenienti da destra perché non impone una storia e dei valori da condividere, li assolve per il passato berlusconiano: Verdini, Previti, Dell’Utri, Cosentino, pari sono ai Rodotà, Zagrebelski, Borelli, Flores D’arcais.
La rottura con il renzismo di parte consistente del popolo di sinistra non è “sentimentale”, come sostiene D’Alema, ma è più grave: è valoriale, identitaria, e tocca la storia e la coscienza di molti di noi. È prevedibile che la disaffezione alla politica e al voto, che con Renzi è aumentata, vada crescendo. Che altri gufi si aggiungano ai due milioni già volati via nelle amministrative recenti, votando altrove o disertando i seggi.
Senza il Centro non si vince è l’altro mantra che si ripete ossessivamente. Ma quale centro? Quello che si conquista solleticandone egoismi, istinti irrazionali, corporativismi, oppure quello che pure il PCI si seppe conquistare in Italia arrivando al 34,4%? Un ceto medio “riflessivo” conquistato in nome del bene comune e di interessi generali. L’Emilia e non solo costruì un blocco sociale dagli orizzonti ampi: città vivibili, servizi efficienti, welfare di sostegno ai più bisognosi, piani regolatori rigorosi, zone industriali all’insegna di uno sviluppo economico ordinato e non selvaggio, città e centri impegnati a sviluppare saperi e cultura. Comunità si coniugava con solidarietà.

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Enrico Berlinguer

La politica ha l’enorme responsabilità di sollecitare negli uomini il meglio e il peggio di sé stessi. Non è l’arte del possibile, ma la quotidiana fatica di rendere possibile ciò che si ritiene giusto. Difficile sostenere che nella sua lunga storia la sinistra abbia lavorato per il tanto peggio tanto meglio. Guardare indietro si può e si deve, altrimenti i libri e la storia andrebbero al macero. Chi non ha passato non ha neanche futuro. Il Berlinguer della questione morale, del governo mondiale dell’economia, dell’austerità e della sobrietà per popoli il cui benessere derivava dallo sfruttamento del terzo mondo e dal saccheggio delle risorse del pianeta è quanto mai attuale (e scomodo). Di sedicenti innovatori le cronache politiche sono zeppe. Anche Craxi si considerò tale. Poi è finita come sappiamo

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Paolo Mandini

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di Piermaria Romani

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Caro lettore

Dopo molti mesi di pensieri, ripensamenti, idee luminose e amletici dubbi, quello che vi trovate sotto gli occhi è il Nuovo Periscopio. Molto, forse troppo ardito, colorato, anticonvenzionale, diverso da tutti gli altri media in circolazione, in edicola o sul web.

Se già frequentate  queste pagine, se vi piace o almeno vi incuriosisce Periscopio, la sua nuova veste grafica e i nuovi contenuti vi faranno saltare di gioia. Non esiste in natura un quotidiano online con il coraggio e/o l’incoscienza di criticare e capovolgere l’impostazione classica di questo “il giornale” un’idea (geniale) nata 270 anni fa, ma che ha introdotto  dei codici precisi rimasti quasi inalterati. Nemmeno la rivoluzione digitale, la democrazia informava, la nascita della Rete, l’esplosione dei social media, hanno cambiato di molto le testate giornalistiche, il loro ordine, la loro noia.

Tanto che qualcuno si è chiesto se ancora servono, se hanno ancora un ruolo e un senso i quotidiani.  Arrivano sempre “dopo la notizia”, mettono tutti lo stesso titolo in prima pagina, seguono diligentemente il pensiero unico e il potente di turno, ricalcano in fotocopia le solite sezioni interne: politica interna, esteri, cronaca, economia, sport…. Anche le parole sembrano piene di polvere, perché il linguaggio giornalistico, invece di arricchirsi, si è impoverito.  Il vocabolario dei quotidiani registra e riproduce quello del sottobosco politico e della chiacchiera televisiva, oppure insegue inutilmente la grande nuvola confusa del web.

Periscopio propone un nuovo modo di essere giornale, di fare informazione. di accostare Alto e Basso, di rapportarsi al proprio pubblico. Rompe compartimenti stagni delle sezioni tradizionali di quotidiani. Accoglie e dà riconosce uguale dignità a tutti i generi e tutti linguaggi: così in primo piano ci può essere una notizia, un commento, ma anche una poesia o una vignetta.  Abbandona la rincorsa allo scoop, all’intervista esclusiva, alla firma illustre, proponendo quella che abbiamo chiamato “informazione verticale”: entrare cioè nelle  “cose che accadono fuori e dentro di noi”, denunciare Il Vecchio che resiste e raccontare Il Nuovo che germoglia, stare dalla parte dei diritti e denunciare la diseguaglianza che cresce in Italia e nel mondo. .

Con il quotidiano di ieri, così si diceva, oggi ci si incarta il pesce. Non Periscopio, la sua “informazione verticale” non invecchia mai e dal nostro archivio di quasi 50.000 articoli (disponibile gratuitamente) si pescano continuamente contenuti utili per integrare le ultime notizie uscite. Non troverete mai, come succede in quasi tutti i quotidiani on line,  le prime tre righe dell’articolo in chiaro… e una piccola tassa per poter leggere tutto il resto.

Sembra una frase retorica ma non lo è: “Periscopio è un giornale senza padrini e senza padroni”. Siamo orgogliosamente antifascisti, pacifisti, nonviolenti, femministi, ambientalisti. Crediamo nella Sinistra (anche se la Sinistra non crede più a se stessa), ma non apparteniamo a nessuna casa politica, non fiancheggiamo nessun partito e nessun leader. Anzi, diffidiamo dei leader e dei capipopolo, perfino degli eroi. Non ci piacciono i muri, quelli materiali come  quelli immateriali, frutto del pregiudizio e dell’egoismo. Ci piace “il popolo” (quello scritto in Costituzione) e vorremmo cancellare “la nazione”, premessa di ogni guerra e  di ogni violenza.

Periscopio è quindi un giornale popolare, non nazionalpopolare. Un quotidiano “generalista”,  scritto per essere letto da tutti (“quelli che hanno letto milioni di libri o che non sanno nemmeno parlare” F. De Gregori), da tutti quelli che coltivano la curiosità, e non dalle elites, dai circoli degli addetti ai lavori, dagli intellettuali del vuoto e della chiacchiera.

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