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da: ufficio stampa Partito Democratico Ferrara

“Credo che si debba evitare di ascrivere la vittoria dell’uscita della Gran Bretagna dall’Unione europea per via referendaria come manifestazione di populismo. Non credo, in altri termini, che la categoria del populismo (cos’è?) sia utile per capire la vittoria del Leave sul Remain. Ha votato oltre il 72 % degli aventi diritto e l’uscita dall’Unione europea è stata promossa da quasi il 52% di questi. Dunque, il Regno Unito è diviso quasi a metà. Questa articolazione ha qualcosa di molto profondo e, credo, di istruttivo anche al di qua della Manica.

Il voto pare tradurre nella sua bipartizione non tanto modelli diversi di ragionamenti sull’Unione europea, perché la Gran Bretagna ha molto avuto dall’Unione. Il voto è lo specchio di un regno spaccato, perché se il risultato finale è, per semplificare, 52 a 48, il voto locale è spesso sbilanciato in un senso o nell’altro rispetto al risultato finale. Le aree che maggiormente promuovono l’uscita sono le grandi città dove si assiste a molti effetti della crisi, come Birmingham, i vecchi distretti industriali dell’ovest, i sobborghi di Londra, alcune campagne, mentre bocciano l’idea dell’uscita la maggior parte della ricca Londra, le città universitarie di Cambridge e di Oxford (ovviamente, direi), la Scozia e, di misura, l’Irlanda del nord, spesso in dissidio con l’Inghilterra. Socialmente, dai dati si direbbe che i giovani si sono pronunciati per non uscire dall’Unione, mentre gli anziani, e tutti gli impauriti dalla crisi che ha colpito i lavoratori oltre i 40 anni sono stati più a favore dell’uscita.

Certo il PIL inglese ha tenuto in questi anni: ma come si è ripartito? Se il PIL cresce e gli effetti non si vedono se non per alcuni, allora il PIL non parla di nulla, se non di esclusione. E gli esclusi un colpevole devono trovarlo. Giusto o no che sia, ragionevole o scellerato, questo modo di pensare è normale e con questo dobbiamo fare i conti.

Il no all’Europa uscito dalle urne britanniche non si spiega solo con la storica vocazione a un isolamento a un senso solo del Regno Unito, ma si spiega anche con un rifiuto all’Europa così com’è. Non è una questione di insofferenza alle regole, ma dell’idea che questa Europa non realizzi gli intenti dei padri fondatori e che non sia nemmeno sulla strada giusta per realizzarli: è incapace di realizzare quella valorizzazione delle differenze fra i popoli europei, mentre appare intenta nella sua maggioranza (i conservatori!)a omologare e non a integrare (un concetto diverso): omologazione di regole, poi, che spesso danno la sensazione, e nel voto non importa purtroppo se coincidente con la realtà o no, che esse portino vantaggi a pochi.

Lo dico da europeista convinto: serve un cambiamento profondo, che solo noi progressisti possiamo promuovere, ma ricordo che se in Italia alle elezioni europee ha vinto il PD, e dunque il Partito socialista europeo, così non è stato quasi in nessuna parte d’Europa, dove invece si sono affermati i conservatori e i popolari. La crisi europea è economica e occupazionale, ma è una crisi economica e occupazionale anche perché c’è crisi politica e culturale: dov’è il piano di investimenti Juncker? Come è tradotto? Quando oltre alla stabilità si deciderà di puntare anche sulla crescita? Non vogliono essere, queste, domande retoriche, sono domande vere che attendono risposte. Da parte mia le risposte stanno nella convinzione di un lavoro da perseguire con tenacia in Italia e in Europa da parte del PD e di tutti i partiti riformisti per promuovere libertà insieme all’eguaglianza. Questo ha chiesto il voto in Italia del 2014″

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Riceviamo e pubblichiamo


PAESE REALE

di Piermaria Romani

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