In Bretagna i campanili delle chiese sono dita aguzze verso il cielo. In molti piccoli centri la chiesa è all’ingresso del paese, per ribadire che il divino vien prima dell’umano.
Il patrimonio storico della cattolicità è conservato generalmente con cura. Le chiese – anche se oggi molto meno frequentate – sono un elemento costitutivo della cultura bretone, dal medioevo all’età moderna. Cultura in maggior parte gotica, solidificata dal XV secolo in poi, severa, slanciata e non di rado imponente, con edifici in cui sono esposte statue più che quadri e nei quali c’è dunque la personificazione della religione più che la sua rappresentazione. La statua, pur essendo immota, è più vicina all’uomo, esprime un carisma ed un potere maggiore dell’immagine dipinta.
Si ritrova questo carisma nelle sculture funerarie dei calvari che si trovano nei 23 enclos parrocchiali dell’alto Finistère. Negli enclos la parrocchia è un luogo chiuso, ben delimitato dentro l’agglomerato urbano dai suoi confini: un luogo di culto, di eterno riposo dei morti – in tutti gli enclos sorgono ossari – e di residenza del curato, o del vescovo in alcuni casi, che erano autorità indiscusse. I calvari sono rappresentazioni in pietra della Passione di Cristo, con scene drammatiche di persone a volte crudeli e ghignanti che assistono o partecipano alle ultime ore di Gesù.
Il cattolicesimo bretone – trovo scritto a Guimiliau, un paesino di 900 abitanti – è legato ai propri santi, alle proprie campane – che nei paesi battono ancora oggi le ore – ai propri morti ed è diverso dal cattolicesimo romano che storicamente ha inteso impressionare, educare, sedurre.
L’immagine sorridente di papa Francesco, ritratta in un manifesto affisso qui e in molte altre chiese, supera forse questa dicotomia e impersona il cattolicesimo del Ventunesimo secolo che cerca l’uomo, lo interroga e lo responsabilizza. E lo vuole abbracciare.
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