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Ricordo che l’emozione dominante avvertita una volta tornato dalle lunghe vacanze in montagna, da bambino, era il fastidio per il rumore, in particolar modo quello del traffico.
Dopo pochi giorni, il mio orecchio si abituava al ritmo ordinario della vita di città e tutto era accettato come fine reale della vacanza estiva e ritorno alla normalità.
Ancora non potevo sapere che quella sarebbe stata una immagine che mi avrebbe aiutato nelle scelte fatte poi da adulto.
Quello stesso silenzio che da bambino ascoltavo così profondo solo sopra i duemila metri, lo avrei ritrovato da adulto, con mia grande sorpresa, dentro di me.

Amo le parole. Alcune sono sempre con me. Altre non le uso mai, proprio non le sopporto.
Una di quelle che mi hanno accompagnato fino a qui è assorto.
Essere assorto nel senso di tutto preso da, ma non in modo frenetico, anzi, al contrario, non dipendente dalle cose fuori, ma concentrato sull’interiorità.
Quando si è assorti quasi il mondo scompare con tutto il suo carrozzone variopinto, non si è più toccati da nulla, ma si sente via via l’allargarsi dello spazio del silenzio tutto intorno a noi.

Non vorrei essere frainteso.
Amo il chiasso di una classe di ragazzi durante l’intervallo a scuola, gli scherzi fatti tra amici, la musica ad altissimo volume di un concerto.Tirare tardi dopo una cena in vacanza è bellissimo!
Non sono fatto per la vita eremitica.
Voglio solo dire che non finisce lì.
Che il meglio deve ancora arrivare e che l’ho visto giungere davvero solo quando la giovinezza diventa ricordo.

Perché serve la stagionatura, proprio come per certi cibi o per un buon vino.
Serve avere visto soprattutto cosa è la fine.
Averla vista nel volto di una persona cara.
Quando il dolore strappa la pelle e gonfia gli occhi.
Quando si bestemmia contro il cielo. Quando sembra che il senso sia terminato.
È allora che un altro sguardo si posa sulle cose.
È la vera perdita della verginità, dove quella sessuale è solo la anticipazione inconscia di una perdita inaccettabile, tanto che deve essere ammantata di piacere per essere vissuta positivamente, anzi cercata.
Dopo, tutto cambia. Soprattutto la notte, tempo non  più solo dedicato ad un sonno ristoratore, ma anche quello della materializzazione dei propri fantasmi.
E cambiano le giornate.
Bisogna inventarlo un senso per alzarsi tutte le mattine.
Poi giorno dopo giorno, ma serve tempo, ecco che motivazioni e azioni diventano più lente perché ognuna ha bisogno di essere scelta, voluta, ben ponderata.
E alla sera ci si ritrova a ripensare quanto amore si è ricevuto e quanto dato.
E i conti non tornano mai.
Ma va bene così.

Nasce un piacere strano, prima sconosciuto, nel viaggiare dentro, a rimanere con sé stessi.
Solo cosi si possono riconoscere e mettere assieme i pezzi.
Solo così tornano i ricordi.
E i ricordi è necessario scriverli. Tutte le cose che non si scrivono si perdono.
Fortunato chi ha l’abitudine di tenere un diario. Ritroverà quando servirà il proprio tesoro intatto.

Non sopporto le etichette, figurarsi quando, per sminuirne il significato, viene appiccicato il cartellino di  tristezza a questo genere di considerazioni.
Tristezza è un’altra parola a me cara.
Tra i sentimenti, infatti, quello della tristezza è forse tra quelli più profondi, ma anche quello interpretato in modo maggiormente ambiguo.
Scrive Alessandro D’Avenia: “La tristezza è uno di quei sentieri sul crinale della vita, che spesso non vogliamo affrontare, perché la nostra cultura accetta solo il ‘positivo’ e ci priva così del coraggio per vincere la paura del ‘negativo’. Eppure la tristezza è un sentimento ‘positivo’, perché ci pone in condizione di guarire dal dolore che la genera: il nostro corpo si difende dalla malattia segnalandola proprio attraverso il sintomo di dolore. Noi invece vogliamo eliminare dalla vita tutto ciò che ci sembra ‘improduttivo’, come macchine da cui ci si attende sempre una performance ineccepibile. Ma noi siamo vivi e dobbiamo rivendicare il nostro diritto alla tristezza come vita ferita che cerca di guarire.”

La letteratura e la poesia quando arrivano ad essere sublimi, liriche, arrivano a comprendere la vera natura dell’uomo e toccano inevitabilmente la tristezza.
Ma questa consapevolezza non genera rassegnazione.
Pensiamo a Leopardi, un lottatore della vita che cerca la bellezza.
Pensiamo a Ungaretti e paradossalmente a Pavese.
Fa comodo tacciare in modo svalutativo la tristezza, per portare le persone a non pensare, a vivere alla superficie una vita a metà.
“È che la tristezza sa aprire squarci che permettono di guardarsi dentro da una prospettiva nuova. Rende consapevoli. Dunque umani”, scrive Massimo Gramellini.
Si tocca la tristezza solo quando si va in profondità, quando ci si toglie la maschera.
Quando si avverte la solitudine.
Quando ci si accorge della sofferenza.
Di fronte a tali realtà non viene certo da ridere, ma può nascere l’impulso alla condivisione.
Tristezza è il sentimento che permette di avvicinarci all’altro, spinti dalla compassione verso di lui.
Avere lo stesso cuore. Tutto ciò non porta all’immobilità.
Anzi rimanere assorti nell’immergersi nella poesia, nella letteratura, nella contemplazione del bello, anche fisico, del corpo della propria donna per esempio, porta, dalla presa in carico del nostro limite, della nostra triste condizione comune, alla ricerca della vera nostra forza.
Quella forza che ci permette di rimanere umani, quando sentiamo nell’altro il bisogno della nostra presenza, unico modo per realizzare una aspirazione altrimenti inottenibile: raggiungere l’infinito attraverso il nostro essere finito.

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Roberto Paltrinieri


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Caro lettore

Dopo molti mesi di pensieri, ripensamenti, idee luminose e amletici dubbi, quello che vi trovate sotto gli occhi è il Nuovo Periscopio. Molto, forse troppo ardito, colorato, anticonvenzionale, diverso da tutti gli altri media in circolazione, in edicola o sul web.

Se già frequentate  queste pagine, se vi piace o almeno vi incuriosisce Periscopio, la sua nuova veste grafica e i nuovi contenuti vi faranno saltare di gioia. Non esiste in natura un quotidiano online con il coraggio e/o l’incoscienza di criticare e capovolgere l’impostazione classica di questo “il giornale” un’idea (geniale) nata 270 anni fa, ma che ha introdotto  dei codici precisi rimasti quasi inalterati. Nemmeno la rivoluzione digitale, la democrazia informava, la nascita della Rete, l’esplosione dei social media, hanno cambiato di molto le testate giornalistiche, il loro ordine, la loro noia.

Tanto che qualcuno si è chiesto se ancora servono, se hanno ancora un ruolo e un senso i quotidiani.  Arrivano sempre “dopo la notizia”, mettono tutti lo stesso titolo in prima pagina, seguono diligentemente il pensiero unico e il potente di turno, ricalcano in fotocopia le solite sezioni interne: politica interna, esteri, cronaca, economia, sport…. Anche le parole sembrano piene di polvere, perché il linguaggio giornalistico, invece di arricchirsi, si è impoverito.  Il vocabolario dei quotidiani registra e riproduce quello del sottobosco politico e della chiacchiera televisiva, oppure insegue inutilmente la grande nuvola confusa del web.

Periscopio propone un nuovo modo di essere giornale, di fare informazione. di accostare Alto e Basso, di rapportarsi al proprio pubblico. Rompe compartimenti stagni delle sezioni tradizionali di quotidiani. Accoglie e dà riconosce uguale dignità a tutti i generi e tutti linguaggi: così in primo piano ci può essere una notizia, un commento, ma anche una poesia o una vignetta.  Abbandona la rincorsa allo scoop, all’intervista esclusiva, alla firma illustre, proponendo quella che abbiamo chiamato “informazione verticale”: entrare cioè nelle  “cose che accadono fuori e dentro di noi”, denunciare Il Vecchio che resiste e raccontare Il Nuovo che germoglia, stare dalla parte dei diritti e denunciare la diseguaglianza che cresce in Italia e nel mondo. .

Con il quotidiano di ieri, così si diceva, oggi ci si incarta il pesce. Non Periscopio, la sua “informazione verticale” non invecchia mai e dal nostro archivio di quasi 50.000 articoli (disponibile gratuitamente) si pescano continuamente contenuti utili per integrare le ultime notizie uscite. Non troverete mai, come succede in quasi tutti i quotidiani on line,  le prime tre righe dell’articolo in chiaro… e una piccola tassa per poter leggere tutto il resto.

Sembra una frase retorica ma non lo è: “Periscopio è un giornale senza padrini e senza padroni”. Siamo orgogliosamente antifascisti, pacifisti, nonviolenti, femministi, ambientalisti. Crediamo nella Sinistra (anche se la Sinistra non crede più a se stessa), ma non apparteniamo a nessuna casa politica, non fiancheggiamo nessun partito e nessun leader. Anzi, diffidiamo dei leader e dei capipopolo, perfino degli eroi. Non ci piacciono i muri, quelli materiali come  quelli immateriali, frutto del pregiudizio e dell’egoismo. Ci piace “il popolo” (quello scritto in Costituzione) e vorremmo cancellare “la nazione”, premessa di ogni guerra e  di ogni violenza.

Periscopio è quindi un giornale popolare, non nazionalpopolare. Un quotidiano “generalista”,  scritto per essere letto da tutti (“quelli che hanno letto milioni di libri o che non sanno nemmeno parlare” F. De Gregori), da tutti quelli che coltivano la curiosità, e non dalle elites, dai circoli degli addetti ai lavori, dagli intellettuali del vuoto e della chiacchiera.

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