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A contrastare la sirena del Festival di Sanremo con i suoi imperdibili riti di pancia, le sue naturalissime idiozie cosi vere, così italiane, con i suoi gorgheggi e la sua banalità, due film bellissimi vengono trasmessi alla tv: ’45 anni’ e ‘Gloria’, entrambi vincitori il primo nel 2015 dell’Orso d’argento per l’interpretazione ai due protagonisti, Charlotte Rampling e Tom Courtenay, e il secondo nel 2013 alla protagonista Paulina García, sempre per l’interpretazione .

’45 anni’ si svolge nella campagna inglese, i protagonisti – favolosi attori della new generation inglese – sono due maturi intellettuali che vivono nella campagna inglese tra libri, cani, amici intelligenti. Una vita della quale non si nasconde nemmeno l’incontro e la compartecipazione sessuale, dove le carni ormai stanche, il probabile odore della vecchiaia, vengono esibiti senza pudore, ma con la nobiltà che il corpo ha in sé nonostante il declino della fiorente giovinezza.
In questo mondo s’introduce, proprio alla vigilia dei festeggiamenti del quarantacinquesimo anniversario delle loro nozze, la notizia del ritrovamento sui ghiacciai delle Alpi del corpo della ragazza che il protagonista voleva sposare cinquant’anni prima . E la tragedia scoppia quando Kate s’accorge di non poter permettere di essere stata una seconda scelta per Geoff. Così nel giorno del festeggiamento la coppia balla la canzone che aveva siglato 45 anni prima il loro matrimonio, ‘Smoke gets in your eyes’ cantata dai Platters, e Kate nel volteggio finale stacca la mano da quella di Geoff perché la vita ora le si presenta nella sua cruda realtà di “fumo negli occhi”.

‘Gloria’ è una sessantenne cilena divorziata con due figli grandi che ha deciso di non rinunciare a una vita indipendente che le permetta di scegliere compagni anche occasionali, di andare a ballare e di non farsi mancare nulla dei piaceri della giovinezza. Nella sala da ballo che frequenta incontra Rodolfo, di lui s’innamora perdutamente e con lui intreccia una bollente storia di sesso, ma anche di condivisione di sentimenti. Non ha pudore nel mostrargli le sue carni stanche, sollecitandone l’amplesso, ma Rodolfo non può dimenticare la sua vita passata: una moglie che deve accudire e due figlie tiranne che lo portano ad abbandonare Gloria nel lussuoso albergo che avrebbe dovuto sancire una nuova vita. Gloria se ne disfa per tornare alla sua vita di sempre, all’illusione di poter superare la terribile presenza del passato mentre alla festa che conclude il film canta e balla la bellissima canzone di Tozzi, ‘Gloria’ appunto.

Che nel giro di due anni il cinema, specchio non deformato della realtà, ponga l’accento sulla necessità di non dimenticare la vita oltre la giovinezza e lo ponga anche sulla drammaticità della situazione della vecchiaia (e certamente il filone è stato iniziato dal capolavoro dei fratelli Coen, ‘Non è un paese per vecchi’) o dell’ingresso nella vecchiaia, mi sembra attinente al concetto stesso, drammatico, della presenza dei vecchi: spesso individuati come coloro che si devono rottamare, che tolgono lavoro ai giovani, che si consegnano un mondo che non riescono più a comprendere o ad organizzare, che si presentano come gli antagonisti dei vincitori delle proposte giovani al Festival di Sanremo siglando l’assoluta frattura generazionale. Così la stessa funzione delle canzoni, che ormai sono l’aspetto minore di una gara che mette in mostra l’attimo e che non intervengono se non in misura assai ridotta al trionfo della musica.
Mi stupisce che un giornalista che seguo e ammiro, Curzio Maltese, abbia dato un giudizio così riduttivo e sarcastico di un film che ammiro molto ‘La La Land’, indicandolo come la copia imitativa e sbiadita di un’America sull’orlo del trumpismo che insegue vecchi miti senza saperli rinnovare come appunto il musical.
In altri termini che non siano solo quelli delle canzoni, pur necessarie proprio perché rappresentano la banalità della vita, il destino dei ‘vecchi’ sembra ormai segnato in una specie di tollerante necessità colpevole del disastro dell’oggi.

Forse è vero, forse no. Certo se ne parla sempre di più e sicuramente una briciola di ‘verità’ (qualsiasi sia il senso che si vuole dare al termine) esiste.
Ma la domanda grossa, imbarazzante e a volte umiliante che rimane è ancora questa: che senso dare alla vecchiaia?
Io che in fondo, per l’attività che svolgo, sono privilegiato rispetto al destino di altri coetanei, in quanto ancora sembra che l ’intellettuale invecchiando migliori (!!!), mi domando se non sia ancora utile o meglio necessario rifarsi al terribile testamento che Cesare Pavese, non reggendone la sfida, siglò una volta per tutte come il mestiere di vivere.

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Gianni Venturi

Gianni Venturi è ordinario a riposo di Letteratura italiana all’Università di Firenze, presidente dell’edizione nazionale delle opere di Antonio Canova e co-curatore del Centro Studi Bassaniani di Ferrara. Ha insegnato per decenni Dante alla Facoltà di Lettere dell’Università di Firenze. E’ specialista di letteratura rinascimentale, neoclassica e novecentesca. S’interessa soprattutto dei rapporti tra letteratura e arti figurative e della letteratura dei giardini e del paesaggio.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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