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Siamo nel 2016, e il dialetto i giovani lo parlano poco; e ci sono loro, questa compagnia che il ferrarese l’ha scelto come lingua, che fa gli ottantacinque anni di attività, che ha recitato sotto le bombe, che si è presa delle mitragliate in bici, che fa quindici spettacoli all’anno e che ha una ragazza diciottenne che va sul palco del Comunale con loro; e prendono applausi e la gente per strada li ferma e gli fa i complimenti. “I tempi son cambiati”, direbbe qualcuno, o forse “si stava meglio una volta”: ecco magari anche no, perché “noi questo accantonamento del dialetto ancora non lo sentiamo, noi il nostro pubblico ce l’abbiamo”. E allora è dal 14 agosto del 1931 che la Straferrara fa la stessa cosa che ama fare da sempre.

“Quest’anno festeggiamo gli anni al Teatro comunale – racconta Rossana Spadoni, direttrice e attrice storica della compagnia – uno spettacolo che racchiuderà tanti pezzi delle nostre commedie. Nel corso della nostra esistenza abbiamo vissuto momenti di grande interesse della gente per quello che facevamo e altri in cui questo andava calando. Come una ruota. Subito dopo la guerra c’è stata una grande voglia di dialetto: un periodo di successo enorme, con degli incassi favolosi, perché la gente voleva ridere; recitavamo tutte le sere. Poi abbiamo avuto un momento di calo negli anni ’50 e ’60, nel periodo dei drammoni, dei film tipo I figli di nessuno. La gente a quell’epoca amava molto piangere. E in quella fase abbiamo messo a punto delle commedie proprio tipo I figli di nessuno, che portavamo in giro. Poi arrivano gli anni ’70, in cui assistiamo a una ripresa. Periodo in cui mio marito, Beppe Faggioli, è subentrato a mio papà, Ultimo Spadoni, fondatore della compagnia, che si era un po’ stancato. Beppe ha cercato di rinnovare proponendo commedie più attuali, poi cercavamo di fare dei classici, come le commedie di Goldoni”.

Ma quelli della Straferrara non si sono mai fermati, neanche nel ’45, con gli inglesi alle porte, quando la prima granata del 22 aprile “è proprio scoppiata dove stavamo recitando, perché recitavamo anche in quel periodo, al pomeriggio, poiché alla sera c’era il coprifuoco naturalmente. E quindi tutti gli attori sono scappati via; siamo fuggiti nei rifugi con i vestiti che avevamo indosso, per cui c’era chi correva per le strade vestito da prete magari… Poi c’è stata la Liberazione. Dopo quindici giorni, il 10 maggio, avevamo già ripreso l’attività. Abbiamo preso anche delle mitragliate: andavamo a recitare in bicicletta, allora le macchine non c’erano, e giù giù quando arrivavano le mitragliate”.

Non sono comunque i soli a fare teatro dialettale, né in Italia né in provincia. “A Ferrara c’è anche il Teatro Minore, che da più di vent’anni lavora in maniera simile alla nostra. Poi molti paesi hanno la loro filodrammatica: Mirabello, Quartesana, Formignana… Ci sono molti gruppi nella nostra provincia. Col Teatro Minore qualche anno fa abbiamo fatto Madonna Frara ch’è vvgnù in Villa, una commedia del ‘600 trovata nella biblioteca degli Estensi a Modena, e c’erano più di settanta persone in scena. Poi abbiamo fatto anche La castalda, altra commedia classica, del 1902, sempre collaborando col Teatro Minore. A livello regionale invece qualche scambio: venivano loro e noi andavamo da loro; questo a Modena, a Bologna… Adesso meno, devo dire la verità, poi non c’è più mio marito, Beppe Faggioli, che era l’organizzatore capo; io la porto avanti come posso… ho 85 anni, quindi bisogna che mi controlli un po’!”.

Ma com’è nata la Straferrara? E – verrebbe da chiedersi – verrà tenuta ancora in vita? “La Straferrara è partita nel ’35, con alla guida (per 35 anni) mio papà, Ultimo Spadoni, a cui è subentrato mio marito e, con la sua scomparsa, infine io, circa tre anni fa: è sempre rimasta in famiglia la direzione. Una parte di chi ha dato il via all’organizzazione nel ’35 proveniva da altri gruppi già esistenti di Ferrara; molti dall’Estense, dove recitavano soprattutto in italiano; anche in dialetto, ma molto meno. Invece mio papà voleva fare una cosa solo dialettale.

Adesso, entra sempre qualche nuovo giovane. Quest’anno è entrata una ragazza diciottenne: nello spettacolo che porteremo al Comunale per l’anniversario, e dove reciteremo praticamente tutti, avrà una parte anche lei. E’ anche la più giovane; la più anziana invece sono io: 84 anni, fra poco 85 [nata il 23 gennaio 1931, ndr]. Mio papà mi ha messo in scena che avevo 4 anni… Un bel po’ che calco il palcoscenico. Poi, per il resto, abbiamo rappresentate un po’ tutte le fasce di età. Di giovani sotto i 30 anni ne abbiamo 7 o 8, di 25 che siamo complessivamente. E pensare che non hanno neanche una sede: “Solo per pochi anni ci avevano trovato una bella sede – spiega Rossana – però non definitiva, e non c’eravamo soltanto noi, ma anche l’Accademia corale, il Circolo mandolinistico… Era stata ricavata dalla chiusura del manicomio di via Ghiara. Avevano dato queste sale alle organizzazioni culturali di Ferrara, però poi hanno venduto e quindi non siamo più riusciti ad averne una. Adesso siamo ospiti del circolo di San Giorgio, dell’Ente Palio. E lo usiamo per fare le prove. E poi andiamo dove ci chiamano per fare gli spettacoli, di solito una quindicina all’anno. Quest’anno un po’ meno perché ci siamo riservati del tempo per preparare la rappresentazione degli 85 anni al Comunale, che porteremo il 5 gennaio”.

Gli spettacoli della normale programmazione invece dove si possono vedere? “Noi – continua Rossana – abbiamo tutti gli anni la Sala estense che è del Comune, che ce la concede. E’ un bell’esempio di solidarietà. Ché noi ci sosteniamo soltanto con l’ingresso del pubblico, non abbiamo nessuna sovvenzione. Quindi le spese per scene, viaggi, macchinisti, le copriamo con il ricavato dal pubblico. E’ sempre stato il pubblico a sostenerci, perché di sovvenzioni non ne abbiamo proprio mai avute”.

Dopo tanti anni di attività, mi viene da chiederle che rapporto si è creato con il loro pubblico. Non mi lascia finire: “I ferraresi ci amano molto. Il dialetto è più apprezzato dalla popolazione, come devo dire, semplice. Noi continuiamo ad avere il nostro pubblico, molto molto numeroso il pubblico di mezza età, avremo in media due terzi di pubblico con una certa età, e un terzo di giovani. Non c’è la corsa della gioventù, ecco. Però vedo i bambini, perché i bambini vengono con le nonne e con le mamme. Le persone ci incontrano per strada e ci fermano, ci fanno i complimenti. Alla fine della stagione all’Estense sono saliti sul palcoscenico e hanno fatto la foto con noi. È il pubblico che ci dà sostegno, sotto tutti i punti di vista, morale e materiale, più di chiunque altro”.

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Emanuele Gessi

Cresciuto a Ferrara, ha vissuto a Torino per fare l’università, poi ha trascorso un periodo in Danimarca per lavoro e volontariato.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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