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“La solitudine è indipendenza: l’avevo desiderata e me l’ero conquistata in tanti anni. Era fredda, questo sì, ma era anche silenziosa, meravigliosamente silenziosa e grande come lo spazio freddo e silente nel quale girano gli astri.”
(Hermann Hesse)

Sono un punto solo nel deserto rosso:
oggi è questa la mia dimensione, un punto
che non ha lunghezza, larghezza, profondità,
caduto dalla parte più alta del cielo su una terra
piena di silenzio e pura improvvisamente.
Ti scrivo da una zona rossa, ed è questa la verità:
i confini sono tracciati, il rosso ha riempito lo spazio,
vuoto, neutro, senza uscita, e tutti sono come me,
punti soli, senza illusione, nella prima primavera
del millennio che al tempo sta cambiando la faccia.
Ti scrivo e da questa stanza sussurro che se un punto
non ha dimensioni è perché forse le ha unite tutte in sé?
Pensarsi è unirsi – mentre la notte e il giorno
hanno un unico colore e impariamo a pensarci –
e un bene, come mai, nuovo?

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Osservi le persone, allontani un sentimento –
il deserto rosso, la scena, fermo-immagine.
Oggi il cielo aveva l’azzurro di un affresco
sopra le teste in fila davanti al supermercato:
soli, in proporzioni, distanza e silenzio,
si sgranava qualcosa, una polvere, lapislazzulo.
Era il cielo che si scioglieva? Ma il senso?
Così ha detto, così ho spinto, la polizia e tutti,
mani nel lattice, bocca nel cotone – forse
una divisa da restauro per salvare il cielo
dalla corrosione – e gli uomini da che cosa?
Nel carrello il cibo rimbalza, la plastica scricchiola,
le confezioni scontate sembrano la stessa riserva
di cose pulite della pubblicità. Nel deserto
solo un lampo – bianco e alto l’albero del pane.

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In un sonno lunghissimo, mentre il silenzio intorno
alla zona rossa si allarga, ho sognato di essere un delfino
che risaliva il Rio delle Amazzoni, entrava in una vena
segreta e alla bocca del Tevere tornava, affondava, apriva
le onde nell’Hudson, nel Reno roteava. La sorgente
del Tamigi e la baia di Wellington erano affluenti,
di corso in corso la forza del mare si allenava,
il Fiume Giallo riscaldava la Neva, e su zattere di pino
i morti scomparivano, nudi, e sentivo freddo ma c’erano
le stelle, perché nello spazio bruciano ma non riscaldano,
e potevo toccarle senza morire. Ho sognato tanti corpi,
i codici, i caratteri, la logica del profitto ancora impressi
nelle rughe. Poi c’era una cosa più lontana, una scintilla,
un volto, un sogno lucido: il cambiamento? Il delfino salta
molto più del perimetro di una zattera, ogni secondo.

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Lei andava in una notte bianca, le porte
automatiche dei negozi si aprivano,
le cellule fotosensibili la riconoscevano,
dall’alto i led rossi espandevano la faccia.
Lei camminava in una forma nera, vuota –
dove è stata, dove sarà, l’acqua ora che scende
nella doccia, in un transfert autoindotto,
memoria di cose comprate, plastica, parole –
le persone, quante sono, si toccano? -, lei che scivola
in un linguaggio inesistente millimetro per millimetro
scorre nel cortocircuito: ha spento la casa, la collina,
i fari delle auto, i cani ti cercano – inodore e insapore.
Esce bagnata, beve un bicchiere. Cosa da niente:
quando ha incontrato qualcuno per amicizia? Ti scrivo
a piedi nudi, la nuca fredda. Lei è la luna, e sola.

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La stanza è un eden selvatico. Ti scrivo?
Non so dove cresce il grano. Nell’aria di aprile
una forma, il campo in lontananza, le labbra.
Ma com’era la bocca sulla pancia, le punte
si piegavano nell’inguine? Il grano cresceva
sulle labbra, verde, minerale, denso – dico
altro? Non ho, non io, non sento – cerco
la schiena, stringo le ginocchia: cosa salva
le persone autentiche? Desideri un mondo
verde, minerale, denso – chiedi solo cura?
Allora ascolta aprile, ovunque, com’è caldo,
pazzo, violento, rimuovi ogni mancanza.
Resisti a occhi chiusi, non respirare, pensa
un deserto…non me, non ho, non sento
il grano fuori nel vuoto che lotta immobile.

“Oltre al riferimento alla nuda geografia marziana e al più recente vissuto individuale e collettivo legato alla pandemia, il titolo della plaquette – ci avverte Maurizio Cucchi dalla breve Prefazione – ne contiene un altro, che rimanda al film del 1964 di Michelangelo Antonioni, intitolato appunto Deserto rosso, la prima pellicola a colori del regista. La vicenda narrata nel film ruota attorno al tormento esistenziale di una figura femminile, Giuliana, e a un tentativo di reciprocità sentimentale con un uomo, Corrado.” (in Giulia Cittarelli, Spazializzare il valore. Su “Dal deserto rosso” di Maria Borio, La Balena bianca, rivista online di cultura militante, 08/03/2022).

“La metafora della “zona rossa” va oltre i due anni passati. La zona rossa era quella della poesia del mio librino “Dal deserto rosso” (Stampa2009) – nel ricordo della fragrante Monica Vitti sullo sfondo del film omonimo. Giulia Cittarelli l’ha letta come una strategia per ripensare il valore dello spazio, antropologico e biopolitico: “mediare quella reciprocità di rapporti senza la quale non si è, di fatto, in nessun luogo”.
Ma considerando quanto abbiamo vissuto e stiamo vivendo: non è vero che, in poesia, il confine tra biopolitica e geopolitica può essere quasi invisibile?
Oggi la metafora della zona rossa è una sfida geopolitica del linguaggio. Accade al confine est dell’Europa che il linguaggio sia privato della possibilità di esistere e sia censurato, accade ovunque che siano troppe le parole sulla guerra (e sinonimi…) e poche quelle su una cultura di pace. Forse il deserto rosso è realmente lo spazio di trasformazione di quest’epoca (la chiamano Antropocene) dove non si tratta di far vincere o perdere la ‘democrazia’, ma di capire come indirizzarci non in modo preistorico a un nesso direi frattale, tremendamente preistorico: ‘potere-paura-guerra’.”(Maria Borio)

La plaquette di Maria Borio (“Dal deserto rosso”, I quaderni de La collana, a cura di Maurizio Cucchi, Stampa 2009 – 2021) è composta di due parti: “Ti scrivo da una zona rossa” (formata di quindici frammenti lirico-epistolari) e il poemetto “Millennio di primavera”. In questo numero di Parole a capo abbiamo scelto alcuni dei frammenti della prima parte di questa sua ultima produzione letteraria.
Maria Borio è poetessa e saggista. Dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea, cura la sezione poesia di Nuovi Argomenti. In precedenza ha pubblicato Trasparenza (collana “Lyra giovani” a cura di Franco Buffoni, Interlinea 2019) in uscita in traduzione negli USA. L’altro limite (pordenonelegge-lietocolle 2017) è stato tradotto in Argentina. Vite unite (in XII Quaderno di poesia contemporanea, Marcos y Marcos, 2015). Il suo ultimo libro di saggistica è Poetiche e individui (Marsilio 2018). Fra i premi di cui è stata vincitrice, il Mauro Maconi e il Città di Fiumicino. È redattrice del sito culturale “le parole e le cose”. Fondatrice del festival europeo “poesiæuropa”, collabora con i programmi di Radio 3 Rai e con la cattedra di letteratura italiana contemporanea dell’Università di Perugia.

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Gian Paolo Benini e Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Ferraraitalia. Per leggere i numeri precedenti clicca [Qui]

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Benini & Guerrini


Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

Caro lettore

Dopo molti mesi di pensieri, ripensamenti, idee luminose e amletici dubbi, quello che vi trovate sotto gli occhi è il Nuovo Periscopio. Molto, forse troppo ardito, colorato, anticonvenzionale, diverso da tutti gli altri media in circolazione, in edicola o sul web.

Se già frequentate  queste pagine, se vi piace o almeno vi incuriosisce Periscopio, la sua nuova veste grafica e i nuovi contenuti vi faranno saltare di gioia. Non esiste in natura un quotidiano online con il coraggio e/o l’incoscienza di criticare e capovolgere l’impostazione classica di questo “il giornale” un’idea (geniale) nata 270 anni fa, ma che ha introdotto  dei codici precisi rimasti quasi inalterati. Nemmeno la rivoluzione digitale, la democrazia informava, la nascita della Rete, l’esplosione dei social media, hanno cambiato di molto le testate giornalistiche, il loro ordine, la loro noia.

Tanto che qualcuno si è chiesto se ancora servono, se hanno ancora un ruolo e un senso i quotidiani.  Arrivano sempre “dopo la notizia”, mettono tutti lo stesso titolo in prima pagina, seguono diligentemente il pensiero unico e il potente di turno, ricalcano in fotocopia le solite sezioni interne: politica interna, esteri, cronaca, economia, sport…. Anche le parole sembrano piene di polvere, perché il linguaggio giornalistico, invece di arricchirsi, si è impoverito.  Il vocabolario dei quotidiani registra e riproduce quello del sottobosco politico e della chiacchiera televisiva, oppure insegue inutilmente la grande nuvola confusa del web.

Periscopio propone un nuovo modo di essere giornale, di fare informazione. di accostare Alto e Basso, di rapportarsi al proprio pubblico. Rompe compartimenti stagni delle sezioni tradizionali di quotidiani. Accoglie e dà riconosce uguale dignità a tutti i generi e tutti linguaggi: così in primo piano ci può essere una notizia, un commento, ma anche una poesia o una vignetta.  Abbandona la rincorsa allo scoop, all’intervista esclusiva, alla firma illustre, proponendo quella che abbiamo chiamato “informazione verticale”: entrare cioè nelle  “cose che accadono fuori e dentro di noi”, denunciare Il Vecchio che resiste e raccontare Il Nuovo che germoglia, stare dalla parte dei diritti e denunciare la diseguaglianza che cresce in Italia e nel mondo. .

Con il quotidiano di ieri, così si diceva, oggi ci si incarta il pesce. Non Periscopio, la sua “informazione verticale” non invecchia mai e dal nostro archivio di quasi 50.000 articoli (disponibile gratuitamente) si pescano continuamente contenuti utili per integrare le ultime notizie uscite. Non troverete mai, come succede in quasi tutti i quotidiani on line,  le prime tre righe dell’articolo in chiaro… e una piccola tassa per poter leggere tutto il resto.

Sembra una frase retorica ma non lo è: “Periscopio è un giornale senza padrini e senza padroni”. Siamo orgogliosamente antifascisti, pacifisti, nonviolenti, femministi, ambientalisti. Crediamo nella Sinistra (anche se la Sinistra non crede più a se stessa), ma non apparteniamo a nessuna casa politica, non fiancheggiamo nessun partito e nessun leader. Anzi, diffidiamo dei leader e dei capipopolo, perfino degli eroi. Non ci piacciono i muri, quelli materiali come  quelli immateriali, frutto del pregiudizio e dell’egoismo. Ci piace “il popolo” (quello scritto in Costituzione) e vorremmo cancellare “la nazione”, premessa di ogni guerra e  di ogni violenza.

Periscopio è quindi un giornale popolare, non nazionalpopolare. Un quotidiano “generalista”,  scritto per essere letto da tutti (“quelli che hanno letto milioni di libri o che non sanno nemmeno parlare” F. De Gregori), da tutti quelli che coltivano la curiosità, e non dalle elites, dai circoli degli addetti ai lavori, dagli intellettuali del vuoto e della chiacchiera.

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