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Siamo soliti assegnare un anniversario, una giornata della memoria, un momento di riflessione che ricordi quegli avvenimenti che rimordono coscienze e che hanno imbrattato di sangue la storia del genere umano in modo vergognoso e irreversibile, ma questo non paga la loro portata e gli effetti che essi hanno lasciato dietro di sé, come una nefasta eredità di cui dobbiamo essere consapevoli e di cui dobbiamo farci carico tutti. Non è sufficiente e tranquillizzante la nostra contrizione di un giorno: vale la pena ricordare con più frequenza, per rendere un po’ di giustizia a fatti ed eventi che oltrepassano e stravolgono l’umano agire.

Uno di questi casi è Černobyl, notte del 26 aprile 1986 all’una, 23 minuti, 58 secondi, quando si manifesta la prima di una serie di esplosioni che distruggono il reattore e il fabbricato della quarta unità della centrale elettronucleare, il più grande disastro di questo genere del XX secolo, la versione tecnologica della fine del mondo. Per la Belarus’, la piccola Bielorussia, la ‘Russia Bianca’, è una catastrofe di proporzioni enormi che stravolgerà la sua geografia, demografia, economia, l’anima nelle sua pieghe più profonde; il Paese perde 485 tra cittadine e villaggi che vengono evacuati e fatti forzatamente abbandonare, isolati perchè dichiarati zona rossa ad altissima contaminazione. 70 di essi spariscono dalle mappe locali perchè totalmente interrati per sempre.

Svetlana Aleksievič racconta tutto ciò che non si è mai letto e saputo su quella catastrofe, nel suo coraggioso libro “Preghiera per Černobyl”, dove dà voce a uomini, donne e bambini di ogni età, appartenenza sociale, professione e credo. Più voci che diventano testimonianza, lamento, denuncia, grido di dolore, dichiarazione di resa, sussurro rassegnato, muto appello o dolore urlato. In questo libro, il fatto dell’accaduto in sé non appare in primo piano: quello che l’autrice vuole evidenziare sono le impressioni, i sentimenti, le percezioni, i comportamenti di coloro che in quell’occasione vengono stigmatizzati subito come i “černobyliani”, segnati a dito dagli stessi conterranei, additati come ‘diversi’, pericolosi esseri radioattivi da tenere a distanza, coloro che, nelle dicerie popolari, sono destinati a trasformarsi nelle generazioni future in umanoidi e nelle cui vene scorre uno strano liquido giallo sconosciuto. Sono gli stessi esseri costretti a lasciare le loro case con tutto ciò che contenevano, i cimiteri con i loro morti, i loro luoghi di culto, le scuole, i campi, le attività e i loro animali. Tutto.

Nonostante ciò, 2,1 milioni di persone tra cui 700.000 bambini vivono ancora nelle zone contaminate, soprattutto periferiche, continuano a mungere, bere e lavorare latte radioattivo, coltivare patate, grano e ogni sorta di splendidi ortaggi ammorbati, raccogliere rigogliosa e venefica frutta di ogni genere come in un Eden, scambiare i prodotti nei mercati spingendosi a vendere anche in zone lontane, pescare nei fiumi inquinati e cacciare selvaggina colpita da radioattività tanto quanto gli umani. La realtà che improvvisamente, senza nessuna avvisaglia, si trasforma in un enorme incubo collettivo talmente grande e sproporzionato rispetto alla possibilità di elaborazione, viene ignorata o sottostimata e si preferisce credere alle versioni più fantastiche e improbabili: un attacco extraterrestre, un complotto internazionale ai danni della Russia, l’operato del nemico occidentale, una mera invenzione. Perché è meno doloroso così e anche perché i mezzi di informazione forniscono una loro versione dei fatti, molto lontana dalla verità. Non si vuol credere o non è dato a sapere che si sono riversate sui territori tonnellate di cesio, iodio, piombo, zirconio, cadmio, berillio, boro in quantità pari a 300 bombe, come quella sganciata su Hiroshima.

L’impatto sociale è pesantissimo e destinato a durare per molto, molto tempo: drastico calo demografico, numero di decessi che supera in modo impressionante quello delle nascite, contaminazione irreversibile dei terreni agricoli e delle falde acquifere, aumento di ritardi mentali, tumori, disturbi nervosi, turbe psichiche e allarmanti mutazioni genetiche. Le donne diventano sterili, danno alla luce figli con malformazioni o danni alla salute, o non riescono a portare a termine le gravidanze.

Nelle città e nei villaggi fantasma si aggirano solo dosimetristi con i loro apparecchi di rilevazione, militari che rimuovono perfino il primo strato di terra alla pavimentazione di chilometri e chilometri di territorio, liquidatori addetti alla tumulazione di edifici, soldati, civili volontari o precettati pagati per il loro servizio con compensi ridicoli rispetto al rischio e qualche bottiglia di vodka, molto popolare e gradita perché, voce di popolo sostiene, il rimedio contro lo stronzio e il cesio è la vodka Stoličnaja. Intanto, 210 unità militari, circa 340.000 uomini (denominati i “robot verdi”) sgombravano il tetto della centrale dal combustibile nucleare e dalla grafite, indossando grembiuli di piombo, anche se le radiazioni venivano dal basso dove non avevano nessuna protezione. Due minuti a testa per rimuovere, scaricare, trasportare quei materiali mortali, e poi il cambio ad un’altra squadra che continuasse. Neanche chi sorvolava in elicottero la centrale era al sicuro. Quasi tutti ragazzi giovani, ammalatisi e morti in brevissimo tempo.

“Le centrali nucleari erano l’avvenire. Mi ricordo, dentro era tutto silenzioso, solenne, pulito. Il nostro futuro.” dice un testimone. Un mito che si è infranto con Černobyl ma anche con i più recenti fatti in Giappone, insinuando un nuovo atteggiamento molto più cauto e critico che ha preso il posto di quello spirito di onnipotenza e fede assoluta e cieca nell’infallibilità tecnologica che ha caratterizzato un certo percorso della nostra storia. Una storia che comunque rimane ancora aperta.

Un prezioso lavoro, ‘Preghiera per Černobyl’, che ha prodotto notevole interesse, stupore, indignazione ma soprattutto pietas per un’intera popolazione. Una ricerca scrupolosa ed onesta su ciò che è rimasto a tacere per molti anni, quella che Svetlana Aleksievič ci consegna, affinchè si possa capire, riflettere e maturare consapevolezza, rinunciando una volta per sempre alla versione distorta dei fatti e alle facili rimozioni, perché questa storia, non va mai dimenticato, appartiene a tutti noi.

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Liliana Cerqueni

Autrice, giornalista pubblicista, laureata in Lingue e Letterature straniere presso l’Università di Lingue e Comunicazione IULM di Milano. E’ nata nel cuore delle Dolomiti, a Primiero San Martino di Castrozza (Trento), dove vive e dove ha insegnato tedesco e inglese. Ha una figlia, Daniela, il suo “tutto”. Ha pubblicato “Storie di vita e di carcere” (2014) e “Istantanee di fuga” (2015) con Sensibili alle Foglie e collabora con diverse testate. Appassionata di cinema, lettura, fotografia e … Coldplay, pratica nordic walking, una discreta arte culinaria e la scrittura a un nuovo romanzo che uscirà nel… (?).

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Caro lettore

Dopo molti mesi di pensieri, ripensamenti, idee luminose e amletici dubbi, quello che vi trovate sotto gli occhi è il Nuovo Periscopio. Molto, forse troppo ardito, colorato, anticonvenzionale, diverso da tutti gli altri media in circolazione, in edicola o sul web.

Se già frequentate  queste pagine, se vi piace o almeno vi incuriosisce Periscopio, la sua nuova veste grafica e i nuovi contenuti vi faranno saltare di gioia. Non esiste in natura un quotidiano online con il coraggio e/o l’incoscienza di criticare e capovolgere l’impostazione classica di questo “il giornale” un’idea (geniale) nata 270 anni fa, ma che ha introdotto  dei codici precisi rimasti quasi inalterati. Nemmeno la rivoluzione digitale, la democrazia informava, la nascita della Rete, l’esplosione dei social media, hanno cambiato di molto le testate giornalistiche, il loro ordine, la loro noia.

Tanto che qualcuno si è chiesto se ancora servono, se hanno ancora un ruolo e un senso i quotidiani.  Arrivano sempre “dopo la notizia”, mettono tutti lo stesso titolo in prima pagina, seguono diligentemente il pensiero unico e il potente di turno, ricalcano in fotocopia le solite sezioni interne: politica interna, esteri, cronaca, economia, sport…. Anche le parole sembrano piene di polvere, perché il linguaggio giornalistico, invece di arricchirsi, si è impoverito.  Il vocabolario dei quotidiani registra e riproduce quello del sottobosco politico e della chiacchiera televisiva, oppure insegue inutilmente la grande nuvola confusa del web.

Periscopio propone un nuovo modo di essere giornale, di fare informazione. di accostare Alto e Basso, di rapportarsi al proprio pubblico. Rompe compartimenti stagni delle sezioni tradizionali di quotidiani. Accoglie e dà riconosce uguale dignità a tutti i generi e tutti linguaggi: così in primo piano ci può essere una notizia, un commento, ma anche una poesia o una vignetta.  Abbandona la rincorsa allo scoop, all’intervista esclusiva, alla firma illustre, proponendo quella che abbiamo chiamato “informazione verticale”: entrare cioè nelle  “cose che accadono fuori e dentro di noi”, denunciare Il Vecchio che resiste e raccontare Il Nuovo che germoglia, stare dalla parte dei diritti e denunciare la diseguaglianza che cresce in Italia e nel mondo. .

Con il quotidiano di ieri, così si diceva, oggi ci si incarta il pesce. Non Periscopio, la sua “informazione verticale” non invecchia mai e dal nostro archivio di quasi 50.000 articoli (disponibile gratuitamente) si pescano continuamente contenuti utili per integrare le ultime notizie uscite. Non troverete mai, come succede in quasi tutti i quotidiani on line,  le prime tre righe dell’articolo in chiaro… e una piccola tassa per poter leggere tutto il resto.

Sembra una frase retorica ma non lo è: “Periscopio è un giornale senza padrini e senza padroni”. Siamo orgogliosamente antifascisti, pacifisti, nonviolenti, femministi, ambientalisti. Crediamo nella Sinistra (anche se la Sinistra non crede più a se stessa), ma non apparteniamo a nessuna casa politica, non fiancheggiamo nessun partito e nessun leader. Anzi, diffidiamo dei leader e dei capipopolo, perfino degli eroi. Non ci piacciono i muri, quelli materiali come  quelli immateriali, frutto del pregiudizio e dell’egoismo. Ci piace “il popolo” (quello scritto in Costituzione) e vorremmo cancellare “la nazione”, premessa di ogni guerra e  di ogni violenza.

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