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di Valeria Balboni

Lo scorso dicembre è entrata in vigore la nuova normativa sulle etichette degli alimenti che prevede, fra l’altro, l’indicazione chiara del tipo di grasso contenuto: sulla confezione dei Flauti del Mulino Bianco non leggiamo più la generica scritta “grassi vegetali”, ma “grasso di palma”. E proprio su questo ingrediente si è scatenata una tempesta: l’olio di palma si trova praticamente ovunque, dai cracker alle merendine, dai frollini alle fette biscottate, compresi alcuni prodotti per la prima infanzia. Non essendo un ingrediente della nostra tradizione ma un grasso tropicale, sorge spontanea una domanda: perché è tanto utilizzato? Quali sono i vantaggi?

Sul sito di Barilla, azienda spesso chiamata in causa perché leader del mercato dei prodotti per la prima colazione, si legge che “lo utilizza per la consistenza, la fragranza e la neutralità di gusto che garantisce ai prodotti finali e perché rappresenta la soluzione ottimale per la sostituzione di grassi idrogenati che l’azienda ha scelto da tempo di non impiegare nei propri processi produttivi” [vedi]. In pratica: l’olio di palma, utilizzato per i biscotti e le merendine, dà una consistenza simile a quella che si ottiene con il più costoso burro, nei cracker e nei grissini ha il vantaggio di un gusto ‘neutro’ e stabilità all’ossidazione, quindi permette di produrre alimenti che si conservano a lungo senza bisogno di conservanti. Di più: nelle creme al cioccolato (es. la Nutella), garantisce spalmabilità, non si separa… insomma, è perfetto.

Perché allora non si trova in vendita accanto al burro o all’olio, così potremmo utilizzarlo per preparare le crostate in casa? Non lo troviamo perché non ha il profumo del burro, né quello dell’olio d’oliva e le crostate non avrebbero una buona riuscita. Le crostatine industriali, invece, riescono bene perché ci sono aromi che ‘sistemano’ il gusto. Insomma, è molto usato nell’industria per le sue caratteristiche di stabilità e per il prezzo molto conveniente, ma non è di certo un grasso ‘pregiato’.

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Sezione di un frutto

Se è tanto utilizzato nell’industria, la prima cosa da capire è se fa bene o fa male. L’olio di palma ha origine vegetale (si produce dalla spremitura del frutto delle palme da olio) ma a differenza della maggior parte degli oli vegetali è molto ricco in grassi saturi, gli stessi che si trovano nel burro, nel formaggio e nello strutto e che, come è noto, favoriscono l’insorgenza di malattie cardiovascolari. Secondo uno studio pubblicato sull’American Journal of Clinical Nutrition nel 2014 [vedi], con Elena Fattore (Irccs Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri) come prima firma, non ci sono evidenze che l’olio di palma abbia un ruolo specifico nel favorire la comparsa di malattie cardiovascolari. Semplificando, si può dire che se si considerano parametri che sono indicatori di rischio cardiovascolare, come il colesterolo totale, o la frazione di colesterolo Ldl (“cattivo”) e si confronta una dieta ricca di olio di palma con diete basate sui più comuni grassi alimentari (saturi o monoinsaturi) i risultati sono discordi: alcuni marcatori aumentano mentre altri diminuiscono. Se invece lo confrontiamo con i grassi “trans”, risulta meno dannoso. Questi ultimi si formano durante i processi di idrogenazione che permettono di rendere solidi i grassi vegetali, in pratica quando si producono le margarine. È noto che i grassi trans favoriscono l’aumento del livello di colesterolo Ldl (cattivo) e quindi l’insorgenza di malattie cardiovascolari tanto che l’Eufic (European food information council) raccomanda di ridurne il più possibile il consumo e l’utilizzo a livello industriale [leggi]. L’uso dell’olio di palma nell’industria è aumentato negli ultimi anni proprio per sostituire i grassi idrogenati (fonte di grassi trans), da quando ci si è resi conto dei loro effetti negativi sulla salute.

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La raccolta

Secondo Andrea Ghiselli, nutrizionista del Cra (Consiglio per la ricerca e la sperimentazione in agricoltura), “Non ha senso accanirsi in particolare contro l’olio di palma: fa male perché contiene grassi saturi, come il burro, la carne e i salumi. Bisogna leggere le etichette e considerare come influisce sul bilancio giornaliero dei grassi, quindi tenerne conto. L’obiettivo è una dieta bilanciata”. Le linee guida per la prevenzione di aterosclerosi e malattie cardiovascolari [vedi] raccomandano un’assunzione limitata di grassi saturi, che dovrebbero apportare non più del 10% delle calorie giornaliere. Se consideriamo un adulto, maschio, che faccia poca attività fisica, con un fabbisogno energetico di 2200 calorie al giorno, i grassi saturi non dovrebbero fornire più di 220 calorie. Dato che un grammo di grasso produce 9 calorie, questa quota corrisponde a 24 grammi di grassi saturi.
Questa quantità non sembra molto piccola, ma non è difficile superarla se nel corso della giornata, oltre a un po’ di latte, formaggio e magari qualche fetta di salume, si consumano prodotti alimentari industriali contenenti olio di palma, come merendine, gelati o bastoncini di pesce.

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Piantagione per la produzione di olio di palma

Questo grasso però non è al centro delle polemiche solo per gli effetti sulla salute, ma anche per l’impatto ambientale molto elevato, soprattutto se si tiene conto del fatto che non è usato solo nell’industria alimentare, ma anche in altri campi: dai cosmetici ai biocarburanti. Si stima che nel 2014 ne siano stati prodotti circa 60 milioni di tonnellate e l’87% proviene da Indonesia e Malesia, Paesi in cui per far posto alle colture di olio di palma si abbattono foreste tropicali che ospitano animali in via di estinzione, come le tigri e gli oranghi. Tra il 2000 e il 2012 in Indonesia sono stati abbattuti 6 milioni di ettari di foresta tropicale: la coltura delle palme da olio non è l’unica causa ma ha di certo un ruolo importante [vedi]. Ad aggravare la situazione si aggiunge che in questi Paesi viene data ben poca importanza ai diritti dei lavoratori: i raccoglitori lavorano in condizioni precarie, per pochi euro al giorno. Così si spiega anche il prezzo basso, molto conveniente per le industrie.

Per ridurre l’impatto sulle foreste è stata istituita la Tavola rotonda per l’olio di palma sostenibile (Rspo), una certificazione che attesta che l’olio è stato prodotto senza abbattere foreste primarie (intatte), nel rispetto dei lavoratori e delle comunità locali. Fondata nel 2004, la Rspo ha certificato finora 1,3 milioni di ettari di piantagioni (il 10% circa del totale) e diverse aziende, fra cui la Barilla, dichiarano di usare olio certificato. Ben venga questo “marchio di qualità”, non mancano però voci diffidenti, fra cui quella di Greenpeace: Rspo [vedi] coinvolge rappresentanti di consumatori e Ong, ma anche produttori, commercianti, banche e investitori, e gli interessi economici in ballo sono enormi, come è emerso anche dall’inchiesta presentata a Report, lo scorso 3 maggio [vedi].

Insomma, cosa possiamo fare noi consumatori? La prima cosa è sapere cosa compriamo, quindi, come sempre, bisogna leggere le etichette. Se decidiamo di ridurre il consumo di questo grasso, per motivi legati alla salute, all’impatto ambientale o a quello sociale, cercare biscotti senza l’olio di palma è un po’ una ‘caccia al tesoro’. Ultimamente però, da quando deve essere elencato chiaramente fra gli ingredienti, sono comparsi nuovi prodotti dove questo grasso è sostituito da olio di oliva o di girasole. Qualche dritta si può avere dalle liste di merendine, biscotti, grissini e cracker palm-free pubblicate dal sito “Il fatto alimentare” [vedi].

Le cose stanno cambiando: lo scorso novembre, è stata lanciata una petizione su change.org per limitare la diffusione dell’olio di palma (che ha già raccolto 139.000 firme, vedi) e da allora diverse catene di supermercati – fra cui Coop, Esselunga, Md Discount, Ld Market, Ikea e Carrefour – hanno espresso la volontà di ridurre la presenza di questo grasso nei prodotti a marchio. Coop in particolare dichiara che “nella formulazione dei propri prodotti a marchio privilegia l’utilizzo di grassi più nobili e nutrizionalmente equilibrati come l’olio extravergine di oliva o gli oli monosemi. Stiamo proseguendo in questo impegno e a breve lanceremo nuovi importanti prodotti quali la crema spalmabile e biscotti formulati senza olio di palma”. Quest’ultimo e tutti i grassi tropicali non sono impiegati in alcune linee Coop, in particolare quella destinata ai bambini (Club 4-10) e la linea biologica (Vivi verde).

In fondo siamo noi consumatori ad avere il coltello dalla parte del manico: se vogliamo cambiare il mercato, la richiesta deve venire da noi.

Valeria Balboni è biologa, ha frequentato il Master in giornalismo e comunicazione istituzionale della scienza dell’Università di Ferrara. Da 15 anni lavora nell’editoria parascolastica (per AlphaTest) e dal 2011 collabora con il Corriere della sera. Appassionata di divulgazione scientifica, si occupa in particolare di alimentazione, ambiente e sostenibilità.

va.balboni@gmail.com

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Redazione di Periscopio

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Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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