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Il 9 marzo, nella chiesa parrocchiale di XX Settembre costruita nel 1622 dai monaci benedettini olivetani di san Giorgio fuori le mura, abbiamo ricordato santa Francesca, nata a Roma nella nobile famiglia Bussa de’ Leoni, battezzata in sant’Agnese in Agone − la chiesa di piazza Navona − e sposa giovanissima di Lorenzo Ponziani.

Appartenente ad una ricca e facoltosa famiglia di commercianti, Ceccolella, come la ribattezzarono i romani, visse con il marito a casa Ponziani in via dei Vascellari a Trastevere; due dei tre figli morirono ancora giovani e l’angelo, che vedeva durante le sue esperienze mistiche, nel volto aveva i tratti di uno di essi.

Con altre donne, tra cui la cognata Vannozza de Felicibus, moglie di Paluzzo dei Ponziani, che fu subito affascinata dalla spiritualità liturgica e mistica di Francesca, condivise il carisma della carità e la dedizione verso i poveri e agli ammalati. A Tor di Specchi, sotto il Campidoglio, al Teatro Marcello presso il Foro Romano − allora zona in rovina ai margini della città − Francesca e le compagne fondarono una casa santa.

Un fenomeno, quelle delle “case sante”, assai diffuso nella Roma del medioevo. Erano piccole comunità spontanee di bizzoche, terziarie e oblate che conducevano una vita austera, povera fatta di lavoro manuale, preghiera e condivisione dell’altrui sofferenza.

Francesca aprì così una nuova via nel monachesimo femminile tradizionale. La sua fu una riforma radicale per la semplicità dell’organizzazione comunitaria, la libertà di vincoli gerarchici e l’assenza di formalismo. Quella da lei istituita fu comunità aperta e ospitale (ospedale) e, a livello organizzativo, del tutto nuova in quel contesto.

Donne autogestite, ricche di autonomia e flessibilità − assolutamente sconosciuta nelle antiche fondazioni monastiche − e profondamente radicate nel contesto cittadino, dove si rendevano presenti, come un Centro di ascolto parrocchiale, con la loro opera di assistenza ai bisogni della gente.

Pur avendo ancora famiglia, Francesca riuscì a conciliare l’essenza del monachesimo con una spiritualità laicale: le oblate di Tor di Specchi avevano uno stile evangelico, non erano del mondo, ma vivevano nel mondo e nella storia, attraverso una dedizione attiva per andare incontro alle necessità di quel loro tempo così tragico per Roma.

Una donna marginale, periferica, liminare, verrebbe da dire.

Aggettivi con i quali non si vuole alludere alla emarginazione di Francesca. E tanto meno alla sua irrilevanza nel contesto del suo tempo. Al contrario. Si vuole sottolineare come Francesca sia stata una donna che si è dislocata dal centro ai margini, sui confini, nelle periferie di Roma.

La sua missione è stata caratterizzata da una spinta centrifuga volta a raggiungere ciò che è marginale periferico, emarginato in una società, scartato in una città. La realtà marginale si situa su un confine a cavallo di due differenti aree concrete, un dentro e un fuori, un in alto e un in basso, un centro e i suoi margini.

Al centro vi è stabilità, sicurezza, chiarezza, disponibilità di risorse: per questo si gravita verso di esso; e dal centro verso fuori viene respinto tutto ciò che genera insicurezza, che è inaffidabile, pericoloso, inutile, instabile. Non diversamente da un territorio geografico, anche quello esistenziale di una società ha i suoi margini, le estremità, i limiti esterni.

I margini diventano così metafora di persone collocate in stanziamenti abitativi al di sotto della norma nella periferia della città: i disoccupati o i sottoccupati; i migranti da una cultura rurale ad una urbana; minoranze razziali o etniche in difficoltà.

«Una donna sorse allora: Francesca dei Ponziani, che percorre le vie della città satura di esalazioni pestilenziali; è come un angelo terreno, si china senza tregua sui malati, sugli infermi, sugli agonizzanti e sui morti». Così uno storico: siamo tra il XIV e XV secolo, che segnano per la Chiesa uno dei periodi più difficili della sua storia, quello dello scisma d’occidente.

Alla nascita di Francesca, 1384, si era appena spenta la voce possente di Caterina da Siena, in un periodo di non minor crisi, quello della cattività babilonese. Roma è dilaniata e ridotta in rovine. Dal 1404 al 1410 è occupata per tre volte. Per le strade, poveri affamati non si contano, mentre le grandi famiglie si disputano potere, passioni, vendette, papi e antipapi.

Anche la famiglia Ponziani partecipò a queste lotte in difesa del papa e di Roma. Tanto che il marito di Francesca, Lorenzo, fu ferito gravemente e rimase infermo finché visse. In questo clima di miseria e di lotte, aggravato da micidiali pestilenze e inquinato da superstizione e magia, Francesca diventa per la città un segno di Dio, una luce dentro tante tenebre.

Di qui l’iconografia che la raffigura sempre accompagnata e guidata da un angelo, a testimonianza della sua singolare e intima familiarità con Dio.

Nel periodo in cui Roma è in preda alla carestia e alla peste, Francesca distribuisce ai poveri tutto il grano della famiglia e, non contenta di offrire la sua assistenza negli ospedali di Santa Cecilia di santo Spirito in Sassia e in Santa Maria in Cappella, trasforma il suo palazzo devastato in un piccolo ospedale dove gli appestati vengono curati da lei e dalla cognata Vannozza.

Fu il primo di molti altri lazzaretti che aprirono a Roma. Non esita per i poveri a farsi povera e, quando i parenti la rimproverano chiudendole la porta in faccia, lei reagisce con un gesto che scandalizza la Roma bene: va di casa in casa a stendere la mano per i poveri, o si siede presso la Basilica di San Paolo con i mendicanti attendendo l’elemosina dei passanti; o ancora gira con un somarello a raccogliere legna per i suoi ammalati.

Francesca diventa così per tutti la poverella di Trastevere, sino alla morte che la coglierà ancora giovane, a 56 anni, il 9 marzo 1440 − dopo aver fondato a Tor di Specchi il monastero delle Oblate Benedettine olivetane [Qui] – quando tutto il popolo la invocò subito come una santa, indicandola con il titolo advocata Urbis.

Questa comprensione di Francesca come donna marginale è affiorata in me nel momento in cui stavo preparando un pensiero per la messa il giorno della sua festa. Avevo pensato di tenere le letture bibliche della feria di Quaresima, quelle del giorno e non quelle della solennità, perché la quotidianità era il luogo in cui si era espressa la sua santità e perché le letture del giorno contengono la grazia che illumina le situazioni dell’oggi che si stanno vivendo. E così grazie a questo incontro con la Parola mi è stata donata un’immagine di Francesca che fino ad ora non avevo focalizzato.

Nella prima lettura si parlava del profeta Giona, un profeta marginale: lui profeta del tempio, del centro della fede del suo popolo, della purezza incontaminata della fede, che viene mandato da Dio non solo in periferia ma oltre i confini di Israele, tra i pagani, gli impuri e ancora oltre verso gli acerrimi sanguinari nemici del suo popolo: gli Ittiti.

Deve dire loro che se non si convertiranno, periranno tutti. Proprio per questo si sottrare al mandato divino, cercando in ogni modo di allontanarsi da quel confine, di nascondersi nelle profondità − come in un centro simbolico − dapprima nel fondo di una nave sconquassata da una tempesta.

Poi scovato anche lì, preferisce farsi gettare in mare dai marinai per immergersi in una profondità ancora più grande, inghiottito all’interno del ventre oscuro di una balena, che tuttavia lo vomiterà dopo tre giorni sul confine di una spiaggia tra mare e terra.

Solo allora si deciderà a percorrere Ninive, la grande città, andando a predicare per le sue vie, sin nelle periferie, quella misericordia legata alla conversione e al pentimento. Le parole di Giona furono ascoltate e la distruzione fu scongiurata. Il fatto rattristò molto il profeta, che si era messo al margine est della città, per vederne la capitolazione all’ombra di un ricine che seccò per il gran caldo.

E Giona si lamentò con Dio, perché quell’ombra refrigerante della pianta che Dio aveva fatto crescere per lui era venuta meno. «Il Signore allora gli disse: “Ti inquieti tanto per una pianta che tu non hai curato né hai fatto crescere. E per di più è durata solo un giorno e una notte! E io non dovrei preoccuparmi di Ninive, la grande città! Dopo tutto in essa vivono più di centoventimila persone che non sanno distinguere fra la mano destra e la sinistra, e una grande quantità di animali?» (Gn 4,10-11).

Nel vangelo di quel giorno poi, Gesù appare come il rabbi marginale, emarginato anche, da una generazione incredula, malvagia che cerca di spingerlo fin sul precipizio del monte per gettarlo giù. Essi chiedono un segno: ma non sarà dato loro altro segno che quello del profeta marginale Giona.

Come Giona restò tre giorni e tre notti nel ventre della balena, così Gesù rimase nel ventre della terra, ma come Giona, il terzo giorno anche Gesù giorno uscì fuori alla luce: il segno dei tre giorni santi: venerdì, sabato, domenica: Pasqua di risurrezione.

Il profeta e messia di Nazareth diviene così colui che attraversa il confine della morte: transiliens, aprendo un varco anche a noi; rifiutato, derelitto, muore fuori delle mura della città non solo per il suo popolo ma per tutti, non collocandosi al centro, ma oltre, attraversando tutti i confini; squarciando nel tempio il velo di separazione che nascondeva il Santo dei santi, abbattendo le balaustre pure tra Dio e l’uomo in ogni tempio, di ogni religione che voglia trattenere la smisuratezza dell’esondante misericordia del Padre suo a Pasqua.

«La campana del tempio tace, ma il suono continua ad uscire dai fiori». L’ho ricordato altre volte questo haiku giapponese di Matshuo Basho [Qui]. In questo tempo è stato per me una risonanza poetica a rammentarmi quotidianamente lo stile di una pastorale marginale, del passaggio di soglia in questo temp,o in cui ci è chiesta una riforma missionaria, un’uscita delle nostre comunità cristiane.

L’unità pastorale è composta da tanti centri parrocchiali; essi esistenzialmente e pastoralmente devono divenire eccentrici gli uni agli altri attraversando i loro confini, forzando le loro resistenze a trincerarsi in se stessi, nel centro. Si è chiamati dal Vangelo ad oltrepassare le soglie, che marginalizzano ed escludono per riconoscere proprio in quelle realtà, non solo che il vangelo là ci ha preceduto, ma che si è pure in esse seminato e da lì esce come suono dai fiori il suo annuncio anche per noi.

Penso così ad una pastorale “in limine” ancora tutta da “in-ventare”, trovare elaborare e praticare nello spirito di Francesca Romana, “donna liminare”, e al suo Gesù, che nella Pasqua inaugura un passaggio inimmaginabile attraverso il limite invalicabile della morte nel segno di Giona, profeta marginale.

Sì, sogno una pastorale di attraversamento della soglia, dei confini: liminare.

In uno studio di teologia fondamentale, Giuseppe Mazza, docente di questa materia presso l’università Gregoriana di Roma, così ne esplicita il concetto: «Si tratta di un ambito denso di suggestioni e ancora parzialmente inesplorato in teologia. Più ancora dei contesti evocati dalle nozioni di Presenza, di rivelazione e di Incarnazione, siamo qui dinanzi ad una sfera semantica di portata universale: il limite è esperienza comune, ordinaria e straordinaria, incipiente e terminale, consapevole e inconscia. È esperienza profondamente ed inequivocabilmente umana, ma è anche dinamica dell’essere e del donare in e da parte di Dio…

Il limite contiene, definisce e comunica dinamicamente l’Infinito nel finito. L’idea di fondo è qui gemellata con quella di passaggio, di travaso che concentra la logica permeativa dell’osmosi e quella concreativa della performazione (un dire facendo).

La liminalità si presenta come divisione e condivisione, incontro e spazio di equilibrio, valico ed estasi trasgressiva, spazio di domiciliazione “utopica” e di matura fedeltà al finito».
(La liminalità come dinamica di passaggio, Roma Università Gregoriana 2005, 11-13).

Pasqua è passaggio oltre il limite verso un altrove. Così il passaggio diventa un luogo teologico di rivelazione: «“Trans-ire”: un “andare attraverso”, un attraversare implica un cambio di coordinate, uno spostamento di accenti e di prospettive, la forzatura (se necessario) di una migrazione che infrange e squarcia, spesso dolorosamente (il passaggio che si fa “passio“, il “ferire” che si fa “con-ferire”).

Passaggio e limite sono dunque classicamente sempre gemellati, in ordine ad un cammino-verso, che ne connota la dimensione tra positiva, il loro vivace e connaturale essere-in-e-peraltro. In questa inesausta mobilità, la contingenza ed il trascolorare delle realtà caduche ha certamente un posto determinante. Il passaggio non squalifica però ciò che sovradimensiona: al contrario, lo suppone trasformandolo e lo trasforma pro-ponendolo, cioè ponendolo oltre se stesso, in un Altro e in un Oltre che lo rivisitano, lo ridicono senza ridurlo.» (ivi, 125).

A Francesca Romana e tutte le donne che come lei sono donne liminari, anche nella chiesa, dedico la poesia con cui inizia la raccolta di Eugenio Montale In limine

Godi se il vento ch’entra nel pomario
vi rimena l’ondata della vita:
qui dove affonda un morto
viluppo di memorie,
orto non era, ma reliquario.

Il frullo che tu senti non è un volo,
ma il commuoversi dell’eterno grembo;
vedi che si trasforma questo lembo
di terra solitario in un crogiuolo.

Un rovello è di qua dall’erto muro.
Se procedi t’imbatti
tu forse nel fantasma che ti salva:
si compongono qui le storie, gli atti
scancellati pel giuoco del futuro.

Cerca una maglia rotta nella rete
che ci stringe, tu balza fuori, fuggi!
Va, per te l’ho pregato, – ora la sete
mi sarà lieve, meno acre la ruggine…
(Tutte le poesie, 7)

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica di Andrea Zerbini, clicca [Qui]

Cover: santa Francesca Romana nel suo andare attraverso, nel suo passaggio oltre la linea trasversale di confine, simboleggiata nella tenda scostata opera dell’angelo tessitore.
Particolare della tela ad olio 80×120 dono di Paola Forlani alla omonima parrocchia ferrarese nel 2010.

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Andrea Zerbini

Andrea Zerbini cura dal 2020 la rubrica ‘Presto di mattina’ su queste pagine. Parroco dal 1983 di Santa Francesca Romana, nel centro storico di Ferrara, è moderatore dell’Unità Pastorale Borgovado che riunisce le realtà parrocchiali ferraresi della Madonnina, Santa Francesca Romana, San Gregorio e Santa Maria in Vado. Responsabile del Centro di Documentazione Santa Francesca Romana, cura i quaderni Cedoc SFR, consultabili anche online, dedicati alla storia della Diocesi e di personaggi che hanno fatto la storia della chiesa ferrarese. È autore della raccolta di racconti “Come alberi piantati lungo corsi d’acqua”. Ha concluso il suo dottorato all’Università Gregoriana di Roma con una tesi sul gesuita, filosofo e paleontologo francese Pierre Teilhard de Chardin.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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