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«C’erano una volta quattro bambini che si chiamavano Peter, Susan, Edmund e Lucy. Vivevano a Londra ma, durante la seconda guerra mondiale, furono costretti ad abbandonare la città per via dei bombardamenti aerei. Furono mandati in casa di un vecchio professore, che abitava nel cuore della campagna». Così inizia la seconda storia delle cronache di Narnia: Il leone, la strega e l’armadio di Clive Staples Lewis [Qui].

Logica e fantasia si intrecciano in una storia avvincente nel romanzo del genere fantasy per ragazzi. Ma l’intento dell’autore, per alcuni interpreti, sembra anche essere stato quello di presentare una allegoria di Cristo e la sua avventurosa venuta tra noi.

Aslan, che in turco significa leone, è figura di Cristo vincitore del gelo della morte. Egli si fa compagno di viaggio di quei ragazzi, che si sono lasciati coinvolgere nel dramma di un mondo, quello di Narnia, in cui sono state cancellate le stagioni, sino a trasformarsi in una terra desolata e glaciale. Sacrificando se stesso per la salvezza di quella terra e di quei ragazzi, Aslan fronteggia un nemico che sembrava invincibile, “Jadis la strega bianca“, e alla fine esce dallo scontro vittorioso e vivente.

“L’armadio” si rivelerà ai ragazzi come un passaggio segreto per entrare in un mondo sconosciuto. È la piccola Lucy che lo scopre, per la sua irresistibile curiosità, aprendone la porta. Con stupore scoprirà che l’armadio non è un luogo ristretto e chiuso, ma uno stargate, un passaggio, attraversando il quale principia l’esplorazione di un universo stellare, ma nel sottosuolo; una porta magica, da cui si esce dal proprio mondo, per entrare in un altro mondo ignoto.

Così, mi sono detto, non accade forse la stessa cosa quando ci si mette a scrivere davanti ad una pagina bianca, anche solo una lettera? Quando si apre un libro e si prova ad entrarvi dentro come fosse un piccolo armadio? “Come posso starci è troppo piccolo”, viene da dire ogni volta, ma appena la mano fa il gesto di aprilo, ecco che si esclama come Lucy: «Questo armadione è semplicemente enorme» ed entrando con passo incerto, da subito sotto i piedi trovi il sentiero dell’inchiostro.

Questa storia mi è sembrata intrigante, una bella metafora dell’avventura per chi scrive e per i suoi lettori. Perché un testo sarà veramente compiuto solo se riuscirà a dialogare con i suoi lettori. Ad ogni lettura, ogni volta un poco compiuto e un poco ancora da compiere, un’itineranza in un mondo sconosciuto verso un compimento che resta ignoto.

Ma perché questo accada è necessario dare credito alla storia stessa e percorrere il sentiero narrativo con un atto di “fede poetica”, come direbbe Samuel Taylor Coleridge. Si tratta così di sospendere l’incredulità, anche se si legge una storia fantasy, e divenire un lettore che entra nel racconto con curiosità, timore e fiducia insieme, pur non sapendo dov’esso andrà a parare. Mettersi insomma nei panni, nelle scarpe, nei sentimenti di Lucy, quando si accinge a varcare la porta verso l’ignoto. Tra i personaggi del mondo di Narnia, sono da annoverare lo scrittore e il suo lettore, ed anche noi.

Sarà come per Lucy, un rigiocarsi, scrivendo su un altro foglio o girando un’altra pagina; un rimettere in questione il proprio mondo, decidendo di varcare la soglia del già scritto e del già letto. Oltre quello che si sa, si è detto e scritto, si scopre così con meraviglia che c’è sempre dell’altro, dentro e fuori di sé, ancora sconosciuto; aprendo una porta, sempre del nuovo ci sarà da scoprire e da incontrare.

Peter, Susan, Edmund e Lucy in una giornata di pioggia, per vincere la noia, si mettono ad esplorare la casa che li ospita, stanza dopo stanza, arrivando in una camera grande e vuota: solo un armadio! Tutti passano oltre, tranne Lucy che, al primo tentativo, al leggero tocco della maniglia innescò l’apertura dell’armadio, dando inizio a una nuova storia.

«Era il tipo di casa di cui non si arriva mai alla fine, piena di imprevisti. — Qui non c’è niente — decise Peter, proseguendo nella marcia. Gli altri lo seguirono a eccezione della piccola Lucy, che si era fermata davanti all’armadione chiedendosi cosa contenesse. Certo era chiuso a chiave, ma un tentativo si poteva anche fare; Lucy toccò la maniglia e con sua grande sorpresa la porta si aprì subito. Ne vennero fuori due palline di naftalina. Guardando all’interno, Lucy vide che il guardaroba conteneva cappotti e pellicce. A Lucy le pellicce piacevano tanto: entrò nel vano e si divertì ad accarezzarle con la mano, ci strofinò il viso e trovò che avessero un buonissimo odore. Naturalmente aveva lasciato un’anta aperta, perché sapeva benissimo che entrare in un armadio e chiudersi la porta alle spalle è la cosa più stupida che si possa fare. Dietro la prima fila di pellicce ce n’era un’altra. Lucy fece qualche passo, tenendo le braccia tese in avanti: non voleva sbattere improvvisamente contro la parete dell’armadio. Un passo, due, un altro. All’interno era buio, Lucy non vedeva niente, e per quanto annaspasse con le mani non incontrava che il vuoto. – Questo armadione è semplicemente enorme – disse tra sé, continuando ad avanzare e scostando le pellicce per fare spazio. Poi cominciò a sentire qualcosa che scricchiolava sotto le scarpe. — Ancora naftalina? — si domandò, chinandosi per sentire con le mani. I polpastrelli rivelarono qualcosa di morbido, sottile come sabbia e freddissimo. — Molto strano, sembra neve — mormorò Lucy. Un attimo dopo sentì contro il corpo e il viso qualcosa di duro e ruvido, perfino pungente.
— Sembrerebbero rami d’albero — bisbigliò, sempre più sbigottita. E allora vide una piccola luce che brillava lontano, dritto davanti a lei. Lucy si rese conto che dove avrebbe dovuto esserci la parete di fondo dell’armadio c’erano invece alberi. Quello era un bosco, e nel bosco c’era un sentiero. Nevicava; era già buio e nevicava.»

Scrivere è come entrare nell’armadio magico di Lucy. «Là dentro c’è un bosco e nevica sempre». Aprendo una porta anche la scrittura porta alla luce ciò che scrive: la parola che si fa mondo, che si fa corpo nel testo. Compresi gli odori delle palline di naftalina; degli indumenti profumati; la ruvidezza degli aghi di pino; la morbidezza soffice della neve e delle pellicce accarezzate e strofinate delicatamente sul volto; il morbido e sottile strato nevoso come sabbia freddissima; una piccola luce che orienta lo sguardo disorientato e perso nel buio. È quella una luce che indica una traccia nell’oscurità, come la scrittura e la lettura sanno accendere il desiderio di incamminarsi. Non basta infatti intravedere una via, perché ciò che fa avanzare verso una meta non è il sentiero, ma il mettersi in cammino.

Gli occhi di colui che scrive e di colui che leggerà subiscono così una metamorfosi. Essi sono risvegliati ad un altro mondo, costituito da una duplice oscurità: alle spalle quella del passato e davanti quella del futuro. Per inoltrarsi in essi e ripresentarli nel presente con l’atto dello scrivere e del leggere sono necessari i piccoli grandi occhi di Lucy, risvegliati alla fiducia di trovare nascosto nel passato e nel futuro un bene più grande, che dia senso al presente e lo spinga ad avanzare, a rischiarsi oltre: «Gli occhi di Lucy si erano abituati alla luce magica e poteva distinguere chiaramente gli alberi più vicini. Una grande nostalgia dei giorni passati le riempì il cuore e con la mente tornò ai bei tempi in cui gli alberi parlavano. Ricordava perfettamente il modo di esprimersi di ognuno e la forma quasi umana che potevano assumere. Si fermò sotto un’argentea betulla. Un tempo la voce dell’albero era stata dolce e delicata, e le sembianze ricordavano quelle di una ragazza alta e slanciata, con lunghi capelli che le incorniciavano il viso e innamorata della danza. Poi lo sguardo di Lucy si posò su una quercia: una volta era stata un vecchio con il volto buono e sincero, solcato di rughe e ornato da una bella barba ricciuta; Alberi, voi alberi… — invocò Lucy (che fino a un momento prima non aveva avuto alcuna intenzione di parlare (e noi di scrivere o di leggere). — Svegliatevi, svegliatevi! Non mi riconoscete? Che mi dite dei tempi passati? Oh driadi, e voi amadriadi [ninfe che vivono dentro gli alberi], uscite, venite da me». Nel risveglio delle ninfe si ridestano, come linfa, creatività e immaginazione. Il loro uscir fuori sarà per gli alberi e per gli uomini – proprio ora – memoria di radici e promessa di frutti: il coraggio di un passo e poi di un altro passo.

Nel suo risvegliarsi la scrittura diventa precorritrice, vede un passo avanti. È cursore che va verso il futuro, cercando un ampliamento del sentire la vita, attraverso un vedere con occhi diversi dai nostri, immaginare con immaginazioni diverse dalle nostre, sentire con sentimenti diversi dai nostri.

La scrittura fa sì che quanto si viene descrivendo «riveli, strada facendo, quanto più possibile del mistero dell’esistenza», così pensava la scrittrice americana Flannery O’Connor [Qui]: «[Lo scrittore] scrive di quel che si vede in superficie, ma la sua angolazione visiva è tale che comincia a vedere prima di arrivare alla superficie e continua a vedere dopo averla oltrepassata. Comincia a vedere nelle profondità di sé». (F. O ‘Connor, Nel territorio del diavolo. Sul mestiere di scrivere, Roma-Napoli 1993, 65; 91).

E, quando si entra in un bosco o in una foresta, in ciò che di più irriducibile vi è nel mistero di se stessi, non manca mai una strega bianca come «quella che tiene il paese di Narnia sotto il tallone, ecco chi. È lei che fa durare l’inverno tutto l’anno: sempre inverno e mai Natale, pensa… Può trasformare la gente in statue di pietra e fare mille stregonerie. È per colpa sua se a Narnia, adesso, è sempre inverno».

Può capitare infatti che scrivendo si possa essere presi dalla vanità, dal compiacimento di sé quando ci toccano la gratitudine o le lusinghe degli altri – come nel voltafaccia di Edmund, uno dei ragazzi che ingannato tradisce i suoi amici. Vanità che sembrerebbe da principio una cosa buona, gradevole al gusto, al sé, per rafforzare l’autostima e infondere energia nuova per affrontare la vita; ma da cui si può scivolare progressivamente nel desiderio di affermare se stessi e poi ancora salire un gradino sopra gli altri, e forse il desiderio diventerà quello di dominarli. Orson Wells è radicale e schietto: «si scrive per puro egoismo. Desiderio di essere intelligente, di far parlare di sé, di essere ricordato dopo la morte» (Citato in L. Colombati, Scrivere per dire sì al mondo, 79).

Vanagloria è chiamata dagli spirituali quella che congela l’io solidificando lo spirito, il suo soffio in un blocco di ghiaccio. La stessa che trasforma le persone in statue di pietra prive di interiorità. Una malattia mortale per tutti, ma soprattutto per poeti e scrittori. Esiste un rimedio? Così risponde Dygory Kirke, un altro bambino delle Cronache: «Se esiste qualcuno che può darmi un rimedio per la sua malattia, questo è Aslan»: è l’Altro, è il sodalizio con gli altri, con gli amici, i sodali del popolo Narnia.

Servirà allora un inverno lungo per guarire; una storia di incontri di relazioni che chiama a non lasciare chiusa la porta dell’armadio, entrando e uscendo da sé per scoprire un poco alla volta ciò che è sacro e ciò che non lo è – la vera gloria da quella farlocca, taroccata – ad apprendere ciò per cui vale la pena sacrificarsi, anche donando la vita. Così sarà il cammino di Edmund, la via che porta al Natale, al perdono ancora troppo lontano (come la Pasqua per i discepoli incamminati sulla via di Emmaus), ma nasconde la sorpresa di un incontro con uno sconosciuto che si farà conoscere, come l’Amico, con gli amici ritrovati.

Se l’io persiste nel rischiare la fiducia, come ha fatto Lucy; se scrivendo ci si espone e coinvolge nel dire sì all’altro, accadrà il disgelo della vanità, il dischiudersi della creazione artistica. Di più: «Gli alberi tornavano alla vita: larici e betulle mostravano le prime gemme di un pallido verde, i maggiociondoli si coprivano di germogli color oro, sui faggi spuntavano le foglioline e l’aria nel complesso sembrava verdeggiare. Un’ape attraversò il sentiero, ronzando. — Questo non è il disgelo — gridò a un tratto il nano, fermandosi di botto. — Questa è la primavera! —L’inverno se n’è andato».

Allora scrivere non sarà per vanagloria, ma per un bisogno intimo di trasmissione, di dire e consegnare qualcosa che ci ha mossi per primo dentro ed ha preceduto il nostro scrivere stesso. Un desiderio di lasciare una traccia, anche solo un proverbio incontrato leggendo un libro: «Per quanto sia lunga una notte d’inverno, questa non impedirà il sorgere dell’aurora, il sole che verrà», (Proverbio Tuareg).

Se scrivere impegna ad un atto di fede – come ci ha ricordato Maria Zambrano – esso invoca fedeltà alla vita, al vero che porta in grembo, si potrà anche dire che scrivere impegna a un atto di amore? Non è forse vero che l’amore genera solidarietà di intenti, amicizia tra le persone per realizzare il bene comune? L’aspirazione di uno scrittore, potremo dire il suo vanto, «è il desiderio di essere tutti. Senza per questo rinunciare alla propria unicità da principio; anzi, forzando tutti a essere almeno un po’ come noi», (L. Colombati, Scrivere per dire sì al mondo, Milano 2021).

Il desiderio di universalità in Paolo diventa un fare concreto: «Mi vanterò ben volentieri delle mie “debolezze” perché dimori in me la potenza del Vivente, pur essendo libero da tutti, mi sono fatto servo di tutti… Mi sono fatto debole con i deboli, per guadagnare i deboli; mi sono fatto tutto a tutti, per guadagnarne il maggior numero», (2Cor 12). Chi scrive vive nei suoi personaggi e nelle loro storie.

Amare è come scrivere t’amo sulla sabbia? «Ho scritto t’amo sulla sabbia/ E il vento a poco a poco/ Se l’è portato via con sé». Sembrerebbe proprio di sì, almeno stando a Sigmund Freud. Ma il libro di Massimo Recalcati [Qui], Mantieni il bacio, (Milano 2019), mi ha rincuorato. Vi si legge: «Freud non credeva affatto al miracolo dell’amore. Riteneva che fosse il frutto illusorio di una passione narcisistica dell’Io per se stesso o, meglio, per il suo ideale narcisistico. Amare non significa altro che adorare la propria immagine ideale incarnata dall’amato. Quando dico “ti amo” sto dicendo che “amo me stesso attraverso di te”. Il soggetto è più importante del verbo. L’amore per Freud è essenzialmente un fenomeno immaginario che appartiene alla sfera del narcisismo».

Dopo la pars destruens ecco la pars costruens: «Ma forse a Freud mancano le parole o l’esperienza per descrivere la forza generatrice che l’evento dell’incontro d’amore porta con sé? Perché, se lo osserviamo nel suo nascere, l’amore è innanzitutto provocato dall’incanto dell’incontro. L’amore si offre infatti non come una regressione o una ripetizione, ma come una sorpresa. Accade interrompendo la sequenza del già noto, del già stato, del già visto, del già conosciuto. Ogni incontro d’amore scava un buco, uno spazio vuoto, apre un varco, una discontinuità che non potevamo prevedere nello svolgimento abituale delle cose del mondo. L’incontro, in questo senso, sa sempre di avvenire, sa di ciò che non è mai ancora stato, sa di Nuovo. Ogni incontro d’amore porta con sé la promessa di una Vita nuova», (ivi, 11-12).

L’esperienza di chi scrive è simile a quella del profeta Isaia, che mette nero su bianco le promesse dell’Amore: «Farò camminare i ciechi per vie che non conoscono, li guiderò per sentieri sconosciuti; trasformerò davanti a loro le tenebre in luce, i luoghi aspri in pianura. Tali cose io ho fatto e non cesserò di fare», (42, 16).

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Andrea Zerbini

Andrea Zerbini cura dal 2020 la rubrica ‘Presto di mattina’ su queste pagine. Parroco dal 1983 di Santa Francesca Romana, nel centro storico di Ferrara, è moderatore dell’Unità Pastorale Borgovado che riunisce le realtà parrocchiali ferraresi della Madonnina, Santa Francesca Romana, San Gregorio e Santa Maria in Vado. Responsabile del Centro di Documentazione Santa Francesca Romana, cura i quaderni Cedoc SFR, consultabili anche online, dedicati alla storia della Diocesi e di personaggi che hanno fatto la storia della chiesa ferrarese. È autore della raccolta di racconti “Come alberi piantati lungo corsi d’acqua”. Ha concluso il suo dottorato all’Università Gregoriana di Roma con una tesi sul gesuita, filosofo e paleontologo francese Pierre Teilhard de Chardin.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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