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Il volto nelle parole è un libro del critico letterario Ezio Raimondi, che contiene nella premessa una felice citazione di Italo Calvino: «Chi è ciascuno di noi se non una combinatoria d’esperienze, d’informazioni, di letture, d’immaginazioni?».

Si inizia così un viaggio alla ricerca di noi stessi, in un faccia a faccia con l’altro, per decifrarne esperienze ed immaginazioni. È una ricerca volta a trovare quel senso che ogni corporeità racchiude: la forma di una spiritualità che si configura attraverso le parole. L’obiettivo è quello ri-trarre, nel senso di tirar fuori dal testo, con il racconto che procede in avanti, come ogni storia, i volti rinchiusi nel passato. Estrarli dalle pagine per farli transitare oltre, attraverso il passante del presente, nell’orizzonte del futuro. Là dove cioè la memoria del passato diventa generativa di nuove invenzioni, creatrice di nuove parole, come diafanie velate di altre spiritualità affioranti dalla materialità dei testi: altri volti da rischiarare.

Tutto ciò rievoca in me la figura dei ‘passatori’ di un tempo, coloro che aiutavano ad attraversare i fiumi o le frontiere. Tali non sono forse anche gli abitanti del passato, i loro testi, traghettati sulla barca del presente di chi li legge, e rilasciati sulla sponda di un altro mare sconosciuto?
Non è solo un’esigenza estetica, quella del passatore che scorre le pagine delle opere per godere di altre voci, immagini, notizie. La sua è anche un’urgenza ‘estatica’: far uscire la vita, la propria e l’altrui, divenuta stretta. Sciogliere di nuovo la libertà di un’esistenza segregata, di un libro chiuso, di una voce prigioniera del silenzio o di un volto velato dall’oblio. Il processo estatico è autenticamente liberatorio solo se diventa responsabilità per gli altri, se è proteso verso un ‘noi’, uno spazio in cui condividere quel patrimonio spirituale comune che s’incrementa nella misura in cui ce ne spossessiamo donandolo.
Gli ‘altri’ che attendono una risposta sono gli anonimi lettori ,traghettati da un libro all’altro per quel patto sottinteso stipulato con l’autore. È così che anche le parole, rivedendo la luce negli occhi del lettore, diventano parole estatiche. Quante volte infatti ri-nasce una parola? Tutte le volte che viene letta.

Scrive Claudio Magris nell’introduzione a Il volto nelle parole: «[Enzo Raimondi] vede e parla con le opere che incontra, le riporta in vita, in un dialogo incessante che restituisce loro un volto e una voce… la [sua] vita stessa appare intessuta, quasi formata dalle esistenze incontrate nei libri o nella realtà – che si incrociano con essa e in essa. “…Ogni [suo] esercizio interpretativo è un racconto”. L’interpretazione è un divenire che trasforma il passato e pure chi lo interpreta: gli eventi dietro l’interprete che li considera “sono nello stesso tempo ombra del suo spazio interiore”» (Il volto nelle parole, Bologna 1988, 8).

Leggendo questi testi non ho potuto non pensare all’aspetto letterario e narrativo della stessa Bibbia. Che ha generato letteratura, perché è essa stessa grande letteratura, una storia di storie, tanto che potremmo dire: “In principio era il racconto”. Non per caso si narra in un antico midrash (in ebraico da dārash investigare, ricercare, studiare, interpretare, narrare) che «Dio ha creato gli uomini perché Egli – benedetto sia – adora i racconti». Per questo non deve sorprenderci che sia proprio nelle storie della Bibbia che Egli abbia scelto di nascondersi, per essere da lì cercato.

Per il vero, solo da poco tempo si è iniziato a parlare di interpretazione narrativa della Bibbia, di un Dio come soggetto e ispiratore di un racconto in cui vicende, personaggi e storie ritornano dal passato solo grazie ai loro lettori. Viene così a generarsi un’alterazione, una via di uscita. Il testo stesso tracima in nuovi spazi, percorre nuovi territori; si contamina con altre immagini, si confronta con differenti situazioni trasformandosi in nuovi ulteriori racconti. Si pensi all’imponente romanzo di Thomas Mann, Giuseppe e i suoi fratelli, in parallelo al testo biblico delle storie familiari della Genesi.

Da una storia nasce una proliferazione di altre storie: o meglio una ‘storia altra’. Uno spin-off si direbbe oggi nel gergo televisivo; un episodio, una vicenda umana, un evento derivante in modo imprevisto da un’azione o da una situazione interna od esterna al racconto, scaturita da una trama precedente, come da talee nuovi germogli. Papa Gregorio Magno avrebbe spiegato il termine spin-off, riferito alla Bibbia, dicendo che «la Scrittura cresce con chi la legge». Così ogni testo ed anche la Bibbia non va compresa come un punto di arrivo, ma nel suo carattere prospettico, nella possibilità di dare vita ad altre storie. Essa è, nella felice espressione di Northrop Frye, «il grande codice», generativo di cultura e letteratura che ha influenzato profondamente gli stili e i modi di pensare ed agire dei popoli che ha incrociato (Il grande codice. Bibbia e letteratura, Milano 2018).

L’interpretazione narrativa si prende a cuore la ‘lettura’ del testo biblico. Ciò che la interessa non è tanto la Bibbia come documento ma come ‘monumento’ (da mònere = ricordare, far sapere). E questo è possibile solo se un lettore rigenera il ricordo e, nella lettura, fa rivivere la storia, diventandone così testimone. Per questo i rabbini dicono che la Torah ha settanta volti: per sottolineare che non c’è un solo modo di interpretare il testo biblico, ma tanti quanto sono i possibili lettori, i quali, non diversamente da un martello che colpendo la roccia ne fa scaturire scintille, producono una molteplicità di interpretazioni e di sensi.
Come non ricordare, a questo proposito, il lavorio incessante di ruminazione della sacra Scrittura a partire dai Padri del deserto, e poi l’operosità diuturna di tutti gli altri frequentatori e interpreti della sacra Pagina nel medioevo fino ad oggi?
Tutti, ciascuno a suo modo, cercatori del volto nascosto tra le parole di quella storia che li farà a loro volta narratori di buone novelle.

Fu il francescano Nicola di Lira (1270-1349) che, dando forma a tradizioni più antiche nell’interpretazione scritturistica, promosse il ritorno al senso letterale nella lettura e nello studio della Bibbia, senza dimenticare il suo significato nascosto, spirituale. Riprendendo un celebre distico di Agostino di Danimarca, egli seppe così formalizzare i quattro sensi di lettura del testo biblico. Si parte dal “senso letterale”: la lettera insegna i fatti, la storia; poi il “senso allegorico”: l’allegoria insegna ciò che devi credere; ed ancora il “senso morale” ti insegna come comportarti; ed infine il “senso anagogico”, ovvero ciò che sta oltre, al di là, che ti insegna a cosa devi tendere; è il “senso spirituale”, l’esperienza di intimità generata dall’incontro col mistero dell’Altro nascosto nel testo.

Questi differenti significati che si incontrano nella lettura hanno dato origine a quell’esercizio che è detto Lectio divina. È la preghiera liturgica fatta con la Parola di Dio. La lettura delle Scritture porta ad un dialogo con esse, per incontrare colui che, attraverso le Scritture, parla ancora oggi ed invita a fare esperienza della sua amicizia. Il Concilio ha esortato ad apprendere «la sublime scienza di Gesù Cristo» (Fil 3,8) con la frequente lettura delle divine Scritture. “L’ignoranza delle Scritture, infatti, è ignoranza di Cristo [Girolamo]» (Dei Verbum, 25).

La Lectio divina è così un percorso di lettura segnato da varie tappe. Si passa da un luogo ad un altro, avvicinandosi sempre di più al luogo dell’incontro. Un itinerario simile a quello descritto da Teresa d’Avila nel Castello interiore: partendo dalla porta del castello che è l’invocazione che ci venga aperto; si passa poi, di dimora in dimora, attraverso una esperienza sempre più profonda della propria umanità e interiorità, che crescono nella relazione all’altro, fino a giungere ed avere parte alla sublime umanità del Cristo. Dall’esteriorità della lettura del testo (lectio) si entra dentro al testo e tramite la meditazione (meditatio) dentro sé stessi. Meditare corrisponde a misurare, soppesare, accostando pensiero a pensiero sino a scoprire il significato di un parola alla luce di un’altra. È come lavorare di notte o percorrere una galleria oscura: alla fine si vedrà la luce, qualcuno ci viene incontro. Nella terza tappa, che prende la forma di un dialogo orante (oratio), si intrecciano parole e silenzi, domande e risposte, suppliche o rendimento di grazie: una preghiera dialogante: nella prossimità di una voce il riconoscimento di una presenza. Si giunge così a contemplare l’altro nel testo (contemplatio) come invitati a prendere posto, introdotti in uno spazio dentro la pagina, una dimora segreta, la cella del vino di cui parlano il Cantico e Teresa: è l’esperienza della intimità, di quel legame dell’amore che libera l’amore. Si sta non come una cartolina o un santino in un libro d’ore. L’intimità dell’amore è piuttosto simile alla condizione della scrittura in pagina: nero e bianco, diversi e distinti, ma intimamente uniti.

Una domanda: “Che cos’è che trasforma la lettura in preghiera, il lettore in discepolo alla mensa della Parola del Maestro interiore?” Un movimento: apri e leggi; vieni e vedi.

Un anno a Trafoi con i ragazzi della parrocchia in una sosta, lungo un ghiaione, mi misi a raccogliere sassi, come se cercassi nello scaffale in biblioteca. Poi le nuvole coprirono tutto, ovattando l’intorno di silenzio e mi ritrovai d’improvviso in una biblioteca di pietre: sassi neri, squadrati, rigati di bianco ai lati, come libri e quaderni di pietra. Biblioteca della montagna! Diari silenti che narravano l’evoluzione e la storia del mondo! Anche breviari filettati d’argento, che pregavano dentro il suo groviglio e il suo dolore. Solo lo sguardo penetrante del desiderio la coltre nebbiosa, in perseverante attesa di qualcuno, come goccia dopo goccia che scava le pagine di pietra, arriva ad aprirle. Solo il cuore che ascolta il silenzio le comprende e le prega.

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Andrea Zerbini

Andrea Zerbini cura dal 2020 la rubrica ‘Presto di mattina’ su queste pagine. Parroco dal 1983 di Santa Francesca Romana, nel centro storico di Ferrara, è moderatore dell’Unità Pastorale Borgovado che riunisce le realtà parrocchiali ferraresi della Madonnina, Santa Francesca Romana, San Gregorio e Santa Maria in Vado. Responsabile del Centro di Documentazione Santa Francesca Romana, cura i quaderni Cedoc SFR, consultabili anche online, dedicati alla storia della Diocesi e di personaggi che hanno fatto la storia della chiesa ferrarese. È autore della raccolta di racconti “Come alberi piantati lungo corsi d’acqua”. Ha concluso il suo dottorato all’Università Gregoriana di Roma con una tesi sul gesuita, filosofo e paleontologo francese Pierre Teilhard de Chardin.

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Caro lettore

Dopo molti mesi di pensieri, ripensamenti, idee luminose e amletici dubbi, quello che vi trovate sotto gli occhi è il Nuovo Periscopio. Molto, forse troppo ardito, colorato, anticonvenzionale, diverso da tutti gli altri media in circolazione, in edicola o sul web.

Se già frequentate  queste pagine, se vi piace o almeno vi incuriosisce Periscopio, la sua nuova veste grafica e i nuovi contenuti vi faranno saltare di gioia. Non esiste in natura un quotidiano online con il coraggio e/o l’incoscienza di criticare e capovolgere l’impostazione classica di questo “il giornale” un’idea (geniale) nata 270 anni fa, ma che ha introdotto  dei codici precisi rimasti quasi inalterati. Nemmeno la rivoluzione digitale, la democrazia informava, la nascita della Rete, l’esplosione dei social media, hanno cambiato di molto le testate giornalistiche, il loro ordine, la loro noia.

Tanto che qualcuno si è chiesto se ancora servono, se hanno ancora un ruolo e un senso i quotidiani.  Arrivano sempre “dopo la notizia”, mettono tutti lo stesso titolo in prima pagina, seguono diligentemente il pensiero unico e il potente di turno, ricalcano in fotocopia le solite sezioni interne: politica interna, esteri, cronaca, economia, sport…. Anche le parole sembrano piene di polvere, perché il linguaggio giornalistico, invece di arricchirsi, si è impoverito.  Il vocabolario dei quotidiani registra e riproduce quello del sottobosco politico e della chiacchiera televisiva, oppure insegue inutilmente la grande nuvola confusa del web.

Periscopio propone un nuovo modo di essere giornale, di fare informazione. di accostare Alto e Basso, di rapportarsi al proprio pubblico. Rompe compartimenti stagni delle sezioni tradizionali di quotidiani. Accoglie e dà riconosce uguale dignità a tutti i generi e tutti linguaggi: così in primo piano ci può essere una notizia, un commento, ma anche una poesia o una vignetta.  Abbandona la rincorsa allo scoop, all’intervista esclusiva, alla firma illustre, proponendo quella che abbiamo chiamato “informazione verticale”: entrare cioè nelle  “cose che accadono fuori e dentro di noi”, denunciare Il Vecchio che resiste e raccontare Il Nuovo che germoglia, stare dalla parte dei diritti e denunciare la diseguaglianza che cresce in Italia e nel mondo. .

Con il quotidiano di ieri, così si diceva, oggi ci si incarta il pesce. Non Periscopio, la sua “informazione verticale” non invecchia mai e dal nostro archivio di quasi 50.000 articoli (disponibile gratuitamente) si pescano continuamente contenuti utili per integrare le ultime notizie uscite. Non troverete mai, come succede in quasi tutti i quotidiani on line,  le prime tre righe dell’articolo in chiaro… e una piccola tassa per poter leggere tutto il resto.

Sembra una frase retorica ma non lo è: “Periscopio è un giornale senza padrini e senza padroni”. Siamo orgogliosamente antifascisti, pacifisti, nonviolenti, femministi, ambientalisti. Crediamo nella Sinistra (anche se la Sinistra non crede più a se stessa), ma non apparteniamo a nessuna casa politica, non fiancheggiamo nessun partito e nessun leader. Anzi, diffidiamo dei leader e dei capipopolo, perfino degli eroi. Non ci piacciono i muri, quelli materiali come  quelli immateriali, frutto del pregiudizio e dell’egoismo. Ci piace “il popolo” (quello scritto in Costituzione) e vorremmo cancellare “la nazione”, premessa di ogni guerra e  di ogni violenza.

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