Skip to main content

Domani è la ‘Domenica del Buon Pastore’, di colui che, rivolgendosi a tutti, incessantemente chiama alla sequela e alla fraternità. Per il vero, il testo originale del vangelo utilizza l’espressione il ‘bel pastore’, alludendo con ciò non tanto alla bellezza esteriore ‒ che pure il Salmo 45,3 declama con parole incantevoli: “Tu sei il più bello tra i figli dell’uomo, sulle tue labbra è diffusa la grazia” ‒ quanto alla bellezza espressa da un animo capace di amare sino al prezzo della propria vita. Un amore che anche le pecore percepiscono e che offre a Gesù una metafora ideale, specie al suo tempo, per presentare in parabola l’autenticità della propria missione. Vi trasse spunto anche san Giovanni della Croce (1540-1591) per comporre un testo poetico, dal titolo El pastorcico, dedicato a un pastorello che ama intensamente a dispetto del dubbio di essere ricambiato; un testo recitando il quale il Santo era solito contemplare il mistero dell’abbandono di Cristo alla croce. Quell’abbandono del Servo sofferente di cui Isaia scriveva: “Non ha apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi, non splendore per poterci piacere. Disprezzato e reietto dagli uomini, uomo dei dolori che ben conosce il patire, come uno davanti al quale ci si copre la faccia”. Eppure, San Giovanni, questo grande mistico della notte oscura, vi scorgeva nascosto il pastore bello, il pastore dal dolce nome di agape che è il nome cristiano dell’amore. Un sentimento capace di trasformarci, tanto da suscitare in questo cantore dell’anima innamorata pensieri struggenti: “L’anima innamorata è un’anima dolce, mite, umile e paziente. L’anima dura indurisce nel suo amor proprio. Se tu, o Gesù, nel tuo amore non la rendi dolce, ella resterà sempre nella sua durezza naturale” (I detti di luce e amore, nn. 27 e 28). Ma l’immagine del pastore si presta anche a descrivere lo stile della missione di Gesù. Ne ritrovo il riflesso nei quadri di Jean-François Millet (1814-1875), esponente del realismo pittorico francese, intento a cogliere le persone nei loro ambiti di vita sociale, specie di quella contadina, con un tratto poetico scevro da polemiche e provocazioni. Con questo tocco egli dipinse il seminatore, le spigolatrici, la preghiera dell’Angelus serale dei contadini e, soprattutto, i pastori che vegliano il proprio gregge al chiaro di luna, disvelando così la dignità del popolo e della vita rurale.

Con papa Francesco abbiamo imparato molto sullo stile del pastore e di come debba declinarsi, nel nostro tempo, l’agire pastorale della Chiesa. Una chiesa impregnata, non già degli effluvi d’incenso, ma dell’odore delle pecore, e intenta non solo a pettinarne il mantello, ma a farsene carico, cercandole nei luoghi dei loro smarrimenti per accollarsele sulle spalle. Riconosciamo in questa linea l’autenticità della missione e della voce di Cristo: la stessa autenticità di cui il vangelo del buon Pastore ci parla quando dice che, dopo avere “spinto fuori tutte le sue pecore, cammina davanti a esse, e le pecore lo seguono perché conoscono la sua voce (Gv 10, 4). È proprio così: in papa Francesco riconosciamo la Sua voce. Quella che “ci chiama fuori” per intraprendere un processo di trasformazione, un passaggio che apre a una nuova esperienza di vita ‒ cantata nel salmo 23 ‒ tra pascoli erbosi e acque tranquille, senza temere alcun male, pure se dovessimo attraversare una valle oscura, perché consapevoli che la presenza e la cura del pastore non ci abbandoneranno mai. Il tutto partendo da Gesù, una porta sulla vita – come egli si rappresenta nel vangelo del buon Pastore – aperta per tutti. Un’immagine, quest’ultima, per contemplare la quale vorrei prendere in prestito una poesia dell’Abbé Pierre (1912-2007), il fondatore del movimento internazionale dei Compagni di Emmaus, il prete per così dire dello scarto, ma sarebbe meglio definirlo della ‘raccolta differenziata’ stante il recupero e la dignità re-infusa nella vita degli esclusi. Egli scriveva che:  “Bisogna amare le porte/ perché sono il posto/ dove nessuno si ferma/ il posto da dove si passa/ da dove si parte/ dove avvengono tutti gli incontri”. Anche e soprattutto in questo senso Gesù è porta aperta a tutti: è l’invito all’incontro per poi partire in cammino con lui.

L’incontro con il Pastore, la gioia di riconoscerne la voce e di fidarsene, generano fatalmente una trasformazione esistenziale. La stessa che ci viene descritta nel vangelo della chiamata dei discepoli pescatori. Pietro e i suoi compagni, dopo quella pesca al largo tanto faticosa quanto vana, riconoscono l’autenticità della sua parola, anche se non proveniva da un pescatore, anche se in apparenza maldestra, sino a invitarli a pescare di giorno, dopo che nulla avevano preso durante la notte. Eppure, scegliendo di fidarsi, fu per loro gioia incontenibile, tanto da indurli ad abbandonare le reti per seguirlo. Non è anche qui da vedersi l’inizio di un processo di trasformazione, di cambiamento radicale, una partenza verso un futuro ignoto? Nella Chiesa la chiamano ‘vocazione‘, ma non è forse la stessa chiamata alla vita che interpella tutti, sollecitando ciascuno a mettersi in cammino per trovare sé stessi e quanto di più intimo e prezioso c’è in noi e negli altri? L’inizio del cambiamento è generativo di una nuova professionalità – da pescatori a discepoli, o meglio pescatori di uomini – ma pure di una nuova personalità e socialità. Essi comprendono che il senso del vivere è altrove, che vi è un’eccedenza di senso da scoprire strada facendo. Da quel momento il cammino dei discepoli non si fermerà più, anche se a Pasqua subirà un breve traumatico arresto, un ripiegamento nel timore dell’impresa. Ma poi di nuovo, richiamati fuori per raggiungere le periferie del mondo, abitati da uno spirito nuovo e dalla stessa carità del pastore, essi seppero raccogliere quella carità pastorale per infonderla nel pane della parola e del pane spezzato per noi, da condividere e moltiplicare per tutti. Scrive Paul Claudel: “Non basta percorrere questa parola con gli occhi e con le labbra, bisogna aderirvi, bisogna dimorarvi, bisogna impregnarsene non con uno spirito di curiosità vana, ma di devozione; bisogna abitarla, bisogna immagazzinarla in noi, bisogna dormire e ridestarsi con essa, bisogna persuadersi che essa tutta intera è pane, e che soltanto di essa noi abbiamo fame” (Cit. in C. Bissoli, Una Bibbia sempre Giovane, Torino 1998, cap. 5).

Pastorale, insieme ad un’altra parola ‘aggiornamento’ – da intendersi però come ‘mettere a giorno’, ad diurnus, e non come semplice ritocco di facciata  – si sono rivelate parole cruciali, attraverso cui si è andato declinando e strutturando il processo di cambiamento della Chiesa. Un rinnovamento che riflette l’antico sguardo del pastore bello, capace di far nuove tutte le cose e, rivolgendosi alla chiesa del Concilio, di rivelarne l’autentico volto pastorale.
Accadde nella basilica di San Pietro, nell’anno 1962. Di nuovo la Chiesa fu chiamata e inviata all’umanità. Di nuovo essa udì le parole Duc in altum, predi il largo, vi farò pescatori di uomini. Nato dal cuore ecumenico e pacificatore di papa Giovanni XXIII, il Concilio fronteggiava i profeti di sventura annidati proprio dentro la Chiesa, lasciando germogliare quelle radici già da tempo presenti nel cuore dei cristiani, molto prima della sua apertura e risvegliati nella coscienza – come dirà Romano Guardini – attraverso i movimenti ecumenico, liturgico, biblico e patristico. Una nuova teologia nasceva. Una theologie nouvelle – osteggiata, è dir poco, da quella romana – che proponeva di ‘cambiar pelle’, risalendo alle origini della tradizione apostolica, per riproporre il paradigma della storia come chiave di lettura della stessa rivelazione. Dio “nel suo grande amore parla agli uomini come ad amici” (cfr. Es 33,11; Gv 15,14-15) e si intrattiene con essi (cfr. Bar 3,38), per invitarli e ammetterli alla comunione con sé. E da allora fu la realtà, nella svolta antropologica determinatasi nella coscienza, nella cultura e nelle società al tempo della modernità, il terreno di missione della Chiesa. Un magistero, disse papa Giovanni al Concilio, “a carattere prevalentemente pastorale”, un’interrelazione tra sapienza dottrinale e profezia pastorale. Non si trattava infatti di aggiustare o aggiornare una dottrina, ma di comprendere la prospettiva sapienziale tramite quella profetica. Al Concilio, la verità del vangelo è stata interpretata e riaffermata attraverso l’amore del vangelo, consentendo così alla Chiesa di passare da un modello ideale, veritativo e sapienziale a una Chiesa reale, storica. Fu un mutamento e un’integrazione di paradigma, “un incontro di natura e di avventura”, come lo definì Jacques Maritain. L’ambito concettuale, oggettivo, ideale del vangelo fu riletto attraverso l’ambito simbolico, relazionale, storico; l’ascolto della parola e la sua coerente concretizzazione fu anteposto alla comprensione dell’insegnamento sapienziale contenuto in tale evento di amore.

Tutto ciò dovrebbe caratterizzare anche l’azione pastorale delle nostre comunità. In esse dovrebbe maturare la consapevolezza che genesi e accensione dell’intelligenza, anche quella della fede, è l’amore. La fide cordis è già in sé performativa, testimoniale, evidente. “Amor ipse notitia sui”, dice San Gregorio Magno, perché l’amore, nel suo rivelarsi, è di per sé stesso annuncio, buona notizia, intervento di Gesù nella storia.

tag:

Andrea Zerbini

Andrea Zerbini cura dal 2020 la rubrica ‘Presto di mattina’ su queste pagine. Parroco dal 1983 di Santa Francesca Romana, nel centro storico di Ferrara, è moderatore dell’Unità Pastorale Borgovado che riunisce le realtà parrocchiali ferraresi della Madonnina, Santa Francesca Romana, San Gregorio e Santa Maria in Vado. Responsabile del Centro di Documentazione Santa Francesca Romana, cura i quaderni Cedoc SFR, consultabili anche online, dedicati alla storia della Diocesi e di personaggi che hanno fatto la storia della chiesa ferrarese. È autore della raccolta di racconti “Come alberi piantati lungo corsi d’acqua”. Ha concluso il suo dottorato all’Università Gregoriana di Roma con una tesi sul gesuita, filosofo e paleontologo francese Pierre Teilhard de Chardin.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

Caro lettore

Dopo molti mesi di pensieri, ripensamenti, idee luminose e amletici dubbi, quello che vi trovate sotto gli occhi è il Nuovo Periscopio. Molto, forse troppo ardito, colorato, anticonvenzionale, diverso da tutti gli altri media in circolazione, in edicola o sul web.

Se già frequentate  queste pagine, se vi piace o almeno vi incuriosisce Periscopio, la sua nuova veste grafica e i nuovi contenuti vi faranno saltare di gioia. Non esiste in natura un quotidiano online con il coraggio e/o l’incoscienza di criticare e capovolgere l’impostazione classica di questo “il giornale” un’idea (geniale) nata 270 anni fa, ma che ha introdotto  dei codici precisi rimasti quasi inalterati. Nemmeno la rivoluzione digitale, la democrazia informava, la nascita della Rete, l’esplosione dei social media, hanno cambiato di molto le testate giornalistiche, il loro ordine, la loro noia.

Tanto che qualcuno si è chiesto se ancora servono, se hanno ancora un ruolo e un senso i quotidiani.  Arrivano sempre “dopo la notizia”, mettono tutti lo stesso titolo in prima pagina, seguono diligentemente il pensiero unico e il potente di turno, ricalcano in fotocopia le solite sezioni interne: politica interna, esteri, cronaca, economia, sport…. Anche le parole sembrano piene di polvere, perché il linguaggio giornalistico, invece di arricchirsi, si è impoverito.  Il vocabolario dei quotidiani registra e riproduce quello del sottobosco politico e della chiacchiera televisiva, oppure insegue inutilmente la grande nuvola confusa del web.

Periscopio propone un nuovo modo di essere giornale, di fare informazione. di accostare Alto e Basso, di rapportarsi al proprio pubblico. Rompe compartimenti stagni delle sezioni tradizionali di quotidiani. Accoglie e dà riconosce uguale dignità a tutti i generi e tutti linguaggi: così in primo piano ci può essere una notizia, un commento, ma anche una poesia o una vignetta.  Abbandona la rincorsa allo scoop, all’intervista esclusiva, alla firma illustre, proponendo quella che abbiamo chiamato “informazione verticale”: entrare cioè nelle  “cose che accadono fuori e dentro di noi”, denunciare Il Vecchio che resiste e raccontare Il Nuovo che germoglia, stare dalla parte dei diritti e denunciare la diseguaglianza che cresce in Italia e nel mondo. .

Con il quotidiano di ieri, così si diceva, oggi ci si incarta il pesce. Non Periscopio, la sua “informazione verticale” non invecchia mai e dal nostro archivio di quasi 50.000 articoli (disponibile gratuitamente) si pescano continuamente contenuti utili per integrare le ultime notizie uscite. Non troverete mai, come succede in quasi tutti i quotidiani on line,  le prime tre righe dell’articolo in chiaro… e una piccola tassa per poter leggere tutto il resto.

Sembra una frase retorica ma non lo è: “Periscopio è un giornale senza padrini e senza padroni”. Siamo orgogliosamente antifascisti, pacifisti, nonviolenti, femministi, ambientalisti. Crediamo nella Sinistra (anche se la Sinistra non crede più a se stessa), ma non apparteniamo a nessuna casa politica, non fiancheggiamo nessun partito e nessun leader. Anzi, diffidiamo dei leader e dei capipopolo, perfino degli eroi. Non ci piacciono i muri, quelli materiali come  quelli immateriali, frutto del pregiudizio e dell’egoismo. Ci piace “il popolo” (quello scritto in Costituzione) e vorremmo cancellare “la nazione”, premessa di ogni guerra e  di ogni violenza.

Periscopio è quindi un giornale popolare, non nazionalpopolare. Un quotidiano “generalista”,  scritto per essere letto da tutti (“quelli che hanno letto milioni di libri o che non sanno nemmeno parlare” F. De Gregori), da tutti quelli che coltivano la curiosità, e non dalle elites, dai circoli degli addetti ai lavori, dagli intellettuali del vuoto e della chiacchiera.

Periscopio è  proprietà di un azionariato diffuso e partecipato, garanzia di una gestitone collettiva e democratica del quotidiano. Si finanzia, quindi vive, grazie ai liberi contributi dei suoi lettori amici e sostenitori. Accetta e ospita sponsor ed inserzionisti solo socialmente, eticamente e culturalmente meritevoli.

Nato quasi otto anni fa con il nome Ferraraitalia già con una vocazione glocal, oggi il quotidiano è diventato: Periscopio naviga già in mare aperto, rivolgendosi a un pubblico nazionale e non solo. Non ci dimentichiamo però di Ferrara, la città che ospita la redazione e dove ogni giorno si fabbrica il giornale. e Ferraraitalia continua a vivere dentro Periscopio all’interno di una sezione speciale, una parte importante del tutto. 
Oggi Periscopio ha oltre 320.000 lettori, ma vogliamo crescere e farsi conoscere. Dipenderà da chi lo scrive ma soprattutto da chi lo legge e lo condivide con chi ancora non lo conosce. Per una volta, stare nella stessa barca può essere una avventura affascinante.  Buona navigazione a tutti.

Tutti i contenuti di Periscopio, salvo espressa indicazione, sono free. Possono essere liberamente stampati, diffusi e ripubblicati, indicando fonte, autore e data di pubblicazione su questo quotidiano.

Francesco Monini
direttore responsabile


Chi volesse chiedere informazioni sul nuovo progetto editoriale, può scrivere a: direttore@periscopionline.it