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Una parola attesa: «Non lo vedo / ma continuerò a cercarlo fino al giorno / dei miei ultimi passi sulla terra» (Jorge Luis Borges [Qui]).

La Parola attesa è nondimeno parola nel cuore. Quando si ama qualcuno, infatti, la sua parola è attesa e al tempo stesso già nel cuore: «Non è di là dal mare, perché tu dica: Chi attraverserà per noi il mare per prendercela e farcela udire e lo possiamo vivere? Anzi, questa parola è molto vicina a te, è nella tua bocca e nel tuo cuore, perché tu la metta in pratica» (Dt 30, 13-14).

La parola attesa è quella dialogante e generativa di ecumene: oikoumene, una casa in cui tutti vivono, lo spazio comune in cui ciò che è di tutti viene compreso e accolto nella propria realtà locale, culturale, sociale e religiosa, e poi, attraverso questo arricchimento di diversità, condiviso nuovamente con chi abita nella casa comune. Oikéo/abitare è il verbo che declina e struttura l’ecumene, il lessico della fraternità.

La ‘Domenica della parola’ che si celebrerà domani è invito a riscoprire la centralità della Parola di Dio per farla dimorare negli abissi nella nostra vita e scoprirvi quella beatitudine che viene ogni volta dall’essere accolti e dall’accogliere: «Beato/accolto chi ascolta la Parola di Dio!», (Lc 11, 28).

Voluta da papa Francesco per tutta la Chiesa con una lettera del settembre 2019, ricorda uno degli ultimi gesti di Gesù dopo la Pasqua ai discepoli, come quando guariva per le vie della Palestina i sordomuti dicendo loro: «Effatà/Apriti!». Ora tocca anche noi: «Aperuit illis sensum ut intellegerent scripturas. Aprì loro l’intelletto per comprendere le Scritture» (Lc 24,45).

Nel riverbero cangiante in esse della rugiada dello Spirito si entra dentro quel mistero d’amore libero e liberante che è il mistero pasquale di morte e risurrezione. La Pasqua è la porta aperta per dimorare nelle Scritture sante, un ascoltare, comprendere, praticare insieme la Parola e, nel pane condiviso, realizzare insieme una familiarità promessa.

Si celebra la terza domenica del tempo ordinario, quest’anno appunto il 23 gennaio; tempo particolarmente significativo, perché ogni anno questa domenica cade nella settimana di preghiera per l’unità dei cristiani, dal 18 al 25 gennaio festa della vocazione/conversione dell’apostolo Paolo.

Il tema è: “Abbiamo visto apparire la Sua stella in Oriente” (Matteo 2:2). Una settimana introdotta, come ogni anno, dalla giornata per l’approfondimento e lo sviluppo del dialogo tra cattolici ed ebrei (il 17 gennaio), il testo per la riflessione è: “Realizzerò la mia buona promessa” (Ger 29, 10). Geremia ci invita a “stare positivamente dentro la realtà”, dentro l’ecumene mettervi radici e a starci in modo ‘generativo’, perché la promessa di Dio resta costante nella storia.

Il cammino ecumenico verso l’unità dei cristiani nacque dal risveglio missionario delle chiese, più di cent’anni fa, divenute consapevoli che per rendere credibile e autentica la testimonianza al vangelo si dovevano superare l’incoerenza e curare le ferite delle divisioni tra i cristiani pena l’irrilevanza del loro annuncio.

Già allora le chiese si misero in uscita missionaria per convenire da diversi cammini ed esperienze all’unità dell’unica Chiesa di Cristo. Pure con il concilio si intraprese il cammino del dialogo interreligioso, che ebbe una tappa fondamentale nell’incontro di Assisi del 27 ottobre 1986 voluto fortemente da papa Giovanni Paolo II, poi continuato da Benedetto XVI.

Questi cammini non possono che arricchire e aprire ad estuario il nostro camminare insieme a partire dalle nostre comunità, per avere parte ad un ecumene più grande di fraternità tra i popoli e le religioni.

Ricordava papa Francesco all’inizio dell’ottavario di preghiera – così viene chiamata la settimana di preghiera per l’unità dei cristiani – il 18 gennaio 2019: «L’unità dei cristiani è frutto della grazia di Dio e noi dobbiamo disporci ad accoglierla con cuore generoso e disponibile… Per compiere i primi passi verso quella terra promessa che è la nostra unità, dobbiamo anzitutto riconoscere con umiltà che le benedizioni ricevute non sono nostre di diritto ma sono nostre per dono, e che ci sono state date perché le condividiamo con gli altri.

In secondo luogo, dobbiamo riconoscere il valore della grazia concessa ad altre comunità cristiane. Di conseguenza, sarà nostro desiderio partecipare ai doni altrui. Un popolo cristiano rinnovato e arricchito da questo scambio di doni sarà un popolo capace di camminare con passo saldo e fiducioso sulla via che conduce all’unità».

Il cammino ecumenico con le altre chiese e confessioni cristiane, come il dialogo interreligioso con le altre religioni e il cammino di fraternità con i popoli per quell’ecumene globale che è la nostra terra e l’intera creazione sono allora per papa Francesco un obbedire a Dio, ob-audire, in profondità, un ascolto dal basso, dalla terra, dalla base perché è lì che la sua parola germoglia in ogni spirito, da ogni gemito o sospiro, oltre che discendere come la pioggia a fecondare ed irrigare la terra per poi ritornare, risalire a lui non senza effetto.

Un obbedire a Dio mettendosi in marcia, con la propria identità in relazione, non per diluirla o perderla ma, al contrario, mettendola in gioco per riscoprirla in ciò che ancora di essa rimane nascosto e che affiora nel vivere insieme e nel condividere spalla a spalla, passandosi la voce per arrivare a fare una ola, un’onda dell’ecumene dei popoli sempre più globale.

Nel corso del viaggio apostolico in Iraq, papa Francesco ha posto un altro importante tassello nel processo del dialogo interreligioso; vi si legge grande coerenza, unità e attualizzazioni degli orientamenti e dei valori espressi negli scritti del suo magistero con Il documento di Abu Dhabi sulla Fratellanza umana, e poi l’enciclica Fratelli tutti.

Così papa Francesco all’incontro interreligioso di Ur in Iraq, il 6 marzo 2021: «Questo luogo benedetto ci riporta alle origini, alle sorgenti dell’opera di Dio, alla nascita delle nostre religioni. Qui, dove visse Abramo nostro padre, ci sembra di tornare a casa. Qui egli sentì la chiamata di Dio, da qui partì per un viaggio che avrebbe cambiato la storia. Noi siamo il frutto di quella chiamata e di quel viaggio.

Dio chiese ad Abramo di alzare lo sguardo al cielo e di contarvi le stelle (cfr. Gen 15,5). In quelle stelle vide la promessa della sua discendenza, vide noi. E oggi noi, ebrei, cristiani e musulmani, insieme con i fratelli e le sorelle di altre religioni, onoriamo il padre Abramo facendo come lui: guardiamo il cielo e camminiamo sulla terra.

Guardiamo il cielo. Contemplando dopo millenni lo stesso cielo, appaiono le medesime stelle. Esse illuminano le notti più scure perché brillano insieme. Il cielo ci dona così un messaggio di unità: l’Altissimo sopra di noi ci invita a non separarci mai dal fratello che sta accanto a noi.

L’Oltre di Dio ci rimanda all’altro del fratello. Ma se vogliamo custodire la fraternità, non possiamo perdere di vista il Cielo. Noi, discendenza di Abramo e rappresentanti di diverse religioni, sentiamo di avere anzitutto questo ruolo: aiutare i nostri fratelli e sorelle a elevare lo sguardo e la preghiera al Cielo. Tutti ne abbiamo bisogno, perché non bastiamo a noi stessi. L’uomo non è onnipotente…

Alziamo gli occhi al Cielo per elevarci dalle bassezze della vanità; serviamo Dio, per uscire dalla schiavitù dell’io, perché Dio ci spinge ad amare. Ecco la vera religiosità: adorare Dio e amare il prossimo. Nel mondo d’oggi, che spesso dimentica l’Altissimo o ne offre un’immagine distorta, i credenti sono chiamati a testimoniare la sua bontà, a mostrare la sua paternità mediante la loro fraternità…

Camminiamo sulla terra. Gli occhi al cielo non distolsero, ma incoraggiarono Abramo a camminare sulla terra, a intraprendere un viaggio che, attraverso la sua discendenza, avrebbe toccato ogni secolo e latitudine. Ma tutto cominciò da qui, dal Signore che “lo fece uscire da Ur” (cfr. Gen 15,7). Il suo fu dunque un cammino in uscita, che comportò sacrifici: dovette lasciare terra, casa e parentela. Ma, rinunciando alla sua famiglia, divenne padre di una famiglia di popoli.

Anche a noi succede qualcosa di simile: nel cammino, siamo chiamati a lasciare quei legami e attaccamenti che, chiudendoci nei nostri gruppi, ci impediscono di accogliere l’amore sconfinato di Dio e di vedere negli altri dei fratelli. Sì, abbiamo bisogno di uscire da noi stessi, perché abbiamo bisogno gli uni degli altri. La pandemia ci ha fatto comprendere che «nessuno si salva da solo» (Lett. enc. Fratelli tutti, 54) ».

Dell’unità attraverso le diversità camminando insieme ne parlava già nel III secolo Atanasio, vescovo di Alessandria d’Egitto [Qui] quando scriveva: «In un coro composto di molti uomini, bambini, donne, vecchi e adolescenti, sotto la direzione di un solo maestro, ciascuno canta secondo la propria costituzione e capacità, l’uomo come uomo, il bambino come bambino, il vecchio come vecchio, l’adolescente come adolescente, tuttavia costituiscono insieme una sola armonia.

Altro esempio. La nostra anima muove nello stesso tempo i sensi secondo le peculiarità di ciascuno di essi, così che, alla presenza di qualche cosa, sono mossi tutti simultaneamente, per cui l’occhio vede, l’orecchio ascolta, la mano tocca, il naso odora, la lingua gusta e spesso anche le altre membra del corpo operano, per esempio i piedi camminano. Se consideriamo il mondo in modo intelligente constateremo che nel mondo avviene la stessa cosa», (PG 25, 83-87).

Anche nella poesia le parole camminano insieme anche se vanno su e giù e di traverso, fuori le righe, note senza spartito; a loro è concessa licenza poetica, quella di mettere tutto sottosopra, come scintille di affetti nascosti portati alla luce al venire della notte.

Così rivado a una poesia di Pedro Casaldáliga [Qui], come un richiamo e un eco consonanti al testo poetico di Luis Borges:

«Galleggiano ombre di me, legni morti.
Ma la stella nasce senza rimprovero
sopra le mani di questo bambino, esperte,
che conquistano le acque e la notte.
Mi basti conoscere
che Tu mi conosci
interamente, prima dei miei giorni».

(Carta de navegar [Por el Tocantins amazónico], in El tiempo y la espera, Santander 1986).

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica di Andrea Zerbini, clicca [Qui]

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Andrea Zerbini

Andrea Zerbini cura dal 2020 la rubrica ‘Presto di mattina’ su queste pagine. Parroco dal 1983 di Santa Francesca Romana, nel centro storico di Ferrara, è moderatore dell’Unità Pastorale Borgovado che riunisce le realtà parrocchiali ferraresi della Madonnina, Santa Francesca Romana, San Gregorio e Santa Maria in Vado. Responsabile del Centro di Documentazione Santa Francesca Romana, cura i quaderni Cedoc SFR, consultabili anche online, dedicati alla storia della Diocesi e di personaggi che hanno fatto la storia della chiesa ferrarese. È autore della raccolta di racconti “Come alberi piantati lungo corsi d’acqua”. Ha concluso il suo dottorato all’Università Gregoriana di Roma con una tesi sul gesuita, filosofo e paleontologo francese Pierre Teilhard de Chardin.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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