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Può apparire una quaresima nuvolosa, più faticosa del solito. I suoi quaranta giorni sembrano aggiungere pesantezza a pesantezza, quarantena a quarantena. “Ma no, no”, ho pensato tra me e me, bisogna solo saperla prendere dalla parte giusta, percorrendo il sentiero ai margini, quello all’ombra della luce. Com’è camminare all’ombra della luce? Credo sia come camminare sulla seta, avendo una nuvola come tappeto, in leggerezza, con l’accortezza però di alzare lo sguardo del cuore verso la meta. L’inno liturgico quaresimale che apre il mattutino è da mandare a memoria, almeno le prime righe. Le faccio risuonare come un ‘mantra’, parola sacra nell’Induismo, il cui suono è potenza trasformatrice, che si prende cura dei pensieri notturni, capovolti, pesanti, rendendoli di una diafania leggera, trasparente.

Può essere una buona pratica meditativa, un promemoria, in questo tempo che è detto favorevole, opportuno per volgersi decisamente verso la Pasqua, per ri-diventare come bambini capaci di relazioni affidabili. Se li chiami, non tirano dritto per la loro strada; si fermano, si girano e si mettono attenti in ascolto; è la vita che parla loro. In questo sono costruttori di letizia, appunto di leggerezza, perché viandanti; sanno di essere di passaggio e, dopo aver ascoltato, ritornano a seguire la vita che gli cammina innanzi, protesi oltre, lasciandoci come traccia l’ombra della loro luce. Scrive Salvatore Quasimodo «Per credere bisogna ritornare/ col cuore di piccoli fanciulli,/ e poi pregare; pure se la fame,/ tenendovi per mano,/ zufola sorda e tartaglia con la morte,/ quando l’odore caldo del pane/ sveglia le strade mattutine» (Tutte le poesie, 552).

Eccolo allora questo ‘mantra’ quaresimale: «Protesi alla gioia pasquale, sulle orme di Cristo Signore, seguiamo l’austero cammino della santa quaresima; la legge e i profeti annunziarono dei quaranta giorni il mistero, Gesù consacrò nel deserto questo tempo di grazia»; gli fanno eco, più ermetiche, e più facili a mandare a memoria le parole di Giuseppe Ungaretti: «La vita si vuota/ in diafana ascesa/ di nuvole colme/ trapunte di sole» (Tutte le poesie, 67).

Nel racconto di Marco è detto che Gesù nel deserto vive dell’ascolto della parola del Padre, suo intimo alleato, e così rintuzza e controbatte, con quella spada affilata a doppio taglio, parole avvelenate, fatte di menzogna, ingannatrici, le striscianti parole del tentatore antico. Ma in quel deserto di pesantezze e di tentazione, Gesù vive e resta in armonia con la creazione di cielo e di terra; è detto: “stava con le bestie selvatiche ed era servito dagli angeli”; come se dicesse anche con le parole di Ungaretti: «Mi presero per mano le nuvole» (ivi, 184). Che leggerezza evangelica! Ma non si dice forse dell’altro Consolatore, dello Spirito, che è ospite dolce, dolcissimo sollievo, che nella fatica è riposo, nella calura riparo, nel pianto conforto? Non è la sua compagnia che ci fa camminare all’ombra della luce?

Italo Calvino ricorda che Michel Ponge parla delle cose a partire da ciò che esse non sono. Così per arrivare a parlare del mare, egli principia dai suoi margini, dalle rive, dalle spiagge, dalle coste: parla dell’illimitato nel momento in cui giunge al confine. Con analogo stilema, le nubi ben possono considerarsi liminari al deserto, buone interlocutrici per parlarci di quell’esodo che è la quaresima.

Come c’è una nuvola informatica (cloud computing), un archivio tra le nuvole, che rende più leggera la vita sulla terra, così spero che la nube biblica nel deserto possa darci indicazioni per rendere più lieve il nostro cammino. Il deserto, come anche la quaresima, diventano il luogo della conversione e maturazione degli affetti, per sapere dove cammina il cuore e con quali desideri cammina: se con quelli che ti portano su o con quelli che ti lasciano cadere.

Ricordo che a un campo scuola con la parrocchia, il tema era ‘Una nuvola come tappeto’. In quell’occasione avevo scattato una foto simbolica. In una passeggiata sul monte Roen sul confine della val di Non, a strapiombo sulla val d’Adige; arrivati in cima c’erano diverse nuvole che in prospettiva, spostandomi un poco sotto la cima, sembravano passare quasi alla stessa altezza della montagna, quasi fossero fatte apposta per salirci sopra. Così dissi a Davide di mettersi in posa, simulando di muovere un passo per arrampicarsi sopra, come ad iniziare una nuova ascensione: più su ancora.

L’immagine, come il tema del campo estivo, quella volta furono ispirati proprio al titolo di un libro di Erri De Luca. Egli, commentando il salmo 105, 39 in cui si ricorda la prossimità di Dio al suo popolo nel deserto così commenta: «Il testo ufficiale della Chiesa lo traduce: “distese una nube per proteggerli”. Alla lettera è invece: “stese una nuvola come un tappeto”. Dio spiana in cielo il suo cirro ed esso, per effetto dell’ombra che produce, forma in terra una traccia. Gli Ebrei attraversano la penisola del Sinai, loro primo deserto: dove dirigersi nell’uniformità dell’orizzonte? Levano lo sguardo al cirro disteso la cui ombra si stende come un tappeto, si affidano alla segnaletica celeste. Segnato dalle nuvole sarà il cammino del popolo estratto dai ceppi d’Egitto. Nei deserti, nei secoli, attenderanno dal cielo i sentieri. Per tappeto intenderanno la Bibbia» (Una nuvola come tappeto, Milano,1999, 5).

C’è come un senso della Bibbia per la leggerezza, che la percorre e attraversa tutta. Un senso affinato, rimirando la cavalcata di Dio tra le nubi che, volgendosi a guadare la terra, l’abbraccia con la sua ombra: «appianate la strada a colui che cavalca le nubi» (Sal 68,5). Egli «cavalcava un cherubino e volava, si librava sulle ali del vento» (Sal 18, 11); «Ecco, il Signore cavalca una nube leggera ed entra in Egitto» (Is 19,1); «stese la mano dall’alto e mi prese, mi sollevò dalle grandi acque» (Sal 18, 17); Colui che siede nell’alto «solleva l’indigente dalla polvere, dall’immondizia rialza il povero, per farlo sedere tra i principi, tra i principi del suo popolo. Fa abitare la sterile nella sua casa quale madre gioiosa di figli» (Sal 112,7-9).

Vi è pure un senso di Gesù per la leggerezza. Non solo quella da lui sperimentata entrando nella nube che lo avvolse sul Tabor, da cui sgorgò la voce di un padre per il figlio nella prova che gli sussurrava: “ci sono, sono qui con te”. Ma soprattutto la leggerezza sta nel cuore del suo insegnamento, la buona notizia: «Il mio giogo è dolce e il mio peso leggero» (Mt 11,30). Il Regno dei cieli è, in fondo, mistero di leggerezza, e le Beatitudini così come il Pater noster ne sono la rivelazione e la preghiera. Non diversamente il ministero di Gesù è tutto un rialzare, sollevare, togliere i pesi: un alleggerire pure le mani dei lapidatori, facendo cadere le pietre; uno slegare e lasciar andare liberi, anche i suoi uccisori, perdonandoli. Il suo fu un continuo comandare alla vita di farsi leggera e alzarsi, come se lo stesso verbo usato nei vangeli per indicare la risurrezione fosse già presente e operante nelle parole e nelle azioni del Messia, amalgamato alla sua stessa vita come, lievito, sale, luce, primizia di una promessa di leggerezza.

Tale fu anche l’esperienza, tutta nel segno della leggerezza, dell’incontro con Dio di Elia, profeta sul monte: «Ecco, il Signore passò. Ci fu un vento impetuoso e gagliardo da spaccare i monti e spezzare le rocce davanti al Signore, ma il Signore non era nel vento. Dopo il vento ci fu un terremoto, ma il Signore non era nel terremoto. Dopo il terremoto ci fu un fuoco, ma il Signore non era nel fuoco. Dopo il fuoco, il sussurro di una brezza leggera. Come l’udì, Elia si coprì il volto con il mantello» (1Re 19,12). La stessa preghiera di Gesù al Padre fu esperienza di leggerezza; è detto infatti che Gesù salì sul monte a pregare e mentre pregava «il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce» (Mt 17,2).

E persino nell’orto degli ulivi, nella pesantezza di quell’ora che lo schiacciava, Gesù trovò una presenza che lo fece rialzare e rimettere in cammino. Era l’angelo che dal cielo, come la nube esodica, lo ombreggiò infondendogli il coraggio di una prossimità paterna, ricordata con le parole raccolte e riportate poi dall’evangelista Giovanni: «Ecco, verrà l’ora, anzi è già venuta, in cui vi disperderete ciascuno per conto proprio e mi lascerete solo; ma io non sono solo, perché il Padre è con me» (Gv 16, 32).

Pure sulla via di un altro monte, caduto sotto il peso della croce, incontrò il Cireneo che liberò dal quel peso le sue spalle, mentre le donne di Gerusalemme lavarono con il loro pianto quel volto sfigurato, che la Veronica deterse con mano e velo leggero. Sotto la croce alla sua ombra, quando si adombrò tutta la terra, la madre e il discepolo, legandosi l’uno all’altra come figlio a madre, sciolsero il groppo della sua cupa paura di doverli abbandonare. Infine un centurione pagano che, avendogli perforato il cuore con la lancia nel momento della morte – lo stesso in cui il Padre insieme alla Madre lo prendevano tra le loro braccia, sollevandolo da terra – lo riconobbe esclamando: “davvero costui era Figlio di Dio” e ne divenne il discepolo velato.

In mezzo alla durezza della vita c’è sempre qualcuno che sorregge, che scalfisce la durezza, mitigandone la pesantezza, fessurandone la densità, aprendo spazi e mettendosi frammezzo: «E la colonna di nube si pose tra l’accampamento d’Egitto e quello degli ebrei e si produsse una densa oscurità, mentre (per gli ebrei) fu illuminata la notte e non si avvicinarono gli accampamenti gli uni agli altri per tutta la notte»; commenta Rashi di Troyes: «La situazione può essere paragonata a quella di un tale che faceva un viaggio e suo figlio lo precedeva. Se vengono dei briganti a prendergli il figlio, allora quello lo pone dietro di sé. Se viene un lupo ad assalire da dietro, egli pone il figlio davanti a sé. Se poi vengono contemporaneamente dei briganti davanti e dei lupi dietro, allora prende il figlio in braccio e combatte contro costoro; così ha fatto Dio con Israele, perché è scritto: “Ho guidato Efraim sorreggendolo per le braccia”» (Commento all’Esodo, 109).

Anche noi, viandanti verso la Pasqua promessa, avremo ristoro, facendo memoria del cammino di Israele nel deserto, muovendoci al ritmo della nube luminosa, dove abita Dio. Come Mosè e Gesù, anche noi entreremo nella nube di tenebra per essere confermati nel ministero dell’ascolto: quello delle parole del Figlio amato e delle sorelle e dei fratelli che ci vengono accanto. Un procedere cangiante al ritmo delle nuvole che scorrono in cielo e delle loro ombre sui prati, nelle piazze e sui tetti delle case.

Nei suoi diari il poeta Gerard Manley Hopkins descrive di continuo le nuvole: Estratti sulle nuvole è il titolo dei suoi taccuini nell’edizione Guanda delle Poesie: «Oggi ‒ altro nitido pomeriggio con molte nuvolette leggere dopo la pioggia  ‒ osservi la crespa e piatta scurezza dei boschi di contro al sole e la tenue fumosità dalla parte opposta. Gli alberi gemmati e i loro virgulti attorti, quasi acconciati per la primavera… lunghe matasse di avviluppate nuvole grigie un po’ arrossate inferiormente, non proprio orizzontali, ma alquanto oblique, ascendenti da sinistra a destra, e in basso a sinistra una stanga o spranga più solida del resto con sopra un arruffato orlo di pelo o vello… un bel tramonto, gran campo d’oro; lungo l’orizzonte una processione di nuvole scure formate di grumi o di grappoli, che sormontavano in alto il loro stesso percorso; più in alto una obliqua corsa di fiocchi conici oppur guizzanti come pesci, come si vedono spesso; l’oro, ageminato di più splendente oro e foggiato in pezzi fulvi annodati e ondosi come creste d’acqua» (Poesie, 172).

Quello che Hopkins ha detto con il linguaggio, John Constable lo ha fatto con la pittura, dipingendo cieli pieni di nuove e terre cavalcate dalle loro ombre. Una smisuratezza tutta raccolta nei margini di un quadro, che tuttavia deborda fuori di esso, incontenibile nello sguardo di colui che osserva con stupore. Attraversamento di confini pure per chi ascolta la parola di Dio, la sua smisuratezza, abbreviata su tavole di pietra e confinata nella scrittura di un libro, torna ad esondare all’infinito ogni volta sulle tavole del cuore di carne di colui che crede.

Originale mi sembra l’interpretazione allegorica della nube esodica di Ruperto di Deutz (1075 – 1129) in rapporto a Cristo: «Chi è questa guida del viaggio se non colui che è per noi la “via”, Gesù Cristo, Figlio di Dio? Colonna di fuoco perché vero Dio, colonna di nubi perché vero uomo. Nella notte era fuoco, ma quando si levò il giorno della grazia, il tempo della misericordia, il fuoco si fece nube, colui che è Dio si fece uomo, si fece carne rivestendo la carne … Il vero sole, fonte di ogni luce, è venuto nella nube della sua carne. E questo sole, velato dalla nube, spande più chiarore che un tempo il fuoco nella notte» (PL 167,636).

Una oscurità luminosa e presente è il Deus absconditus della quaresima: «“Il Signore ha deciso di abitare nella nube” (1Re 8,12). Segreto dell’antico tabernacolo. Segreto di un’umile esistenza d’un giudeo palestinese. Segreto della Sua presenza nel pane e nel vino. Segreto della Sua presenza nel suo corpo che siamo noi», (Dorothee Sölle).

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Andrea Zerbini

Andrea Zerbini cura dal 2020 la rubrica ‘Presto di mattina’ su queste pagine. Parroco dal 1983 di Santa Francesca Romana, nel centro storico di Ferrara, è moderatore dell’Unità Pastorale Borgovado che riunisce le realtà parrocchiali ferraresi della Madonnina, Santa Francesca Romana, San Gregorio e Santa Maria in Vado. Responsabile del Centro di Documentazione Santa Francesca Romana, cura i quaderni Cedoc SFR, consultabili anche online, dedicati alla storia della Diocesi e di personaggi che hanno fatto la storia della chiesa ferrarese. È autore della raccolta di racconti “Come alberi piantati lungo corsi d’acqua”. Ha concluso il suo dottorato all’Università Gregoriana di Roma con una tesi sul gesuita, filosofo e paleontologo francese Pierre Teilhard de Chardin.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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