Skip to main content

«La parola destinata a perdersi, così fuggevole nel suo rinascere costante, nella sua discesa e sùbita resurrezione… La parola – pietra che sorregge al costo di perdersi e di perderci, perché è istallata sulla fonte che anche di notte “butta e scorre”. E forse solo di notte, quando tutti i dire si placano, ed è possibile sentire il suo palpitare. Il palpitare inestinguibile di ciò che è vivo veramente» (Maria Zambrano, Dell’aurora, Genova 2000, 34 e 107). Questo ritrovarsi della parola ‒ nuovamente palpipante e viva nel suo perdersi, che è un rinascere come luce dalla notte, voce dal silenzio, vita dal sepolcro, come dall’inverno nuova primavera ‒ mi ha riportato alla memoria le parole perdute e ritrovate al Concilio Vaticano II, riemerse dai sotterranei della storia ecclesiale come un fiume carsico, come da lungo inverno.

Parole come «Regno di Dio; Popolo di Dio; Pastoralità; Sinodalità; Senso della fede dei fedeli; Segni dei tempi». Espressioni dimenticate da tempo riaffiorano dalla loro sorgente, e là le ritroviamo, dove sono nate, nel grembo dell’evento che le ha generate.
Così la volontà di ressourcement dei Padri conciliari, intenti a “riattingere alle sorgenti” cristiane della vita della Chiesa, ne ha animato il rinnovamento, dando vita a quella che fu per molti una rinnovata primavera nell’alternarsi discontinuo delle sue stagioni come fratture generative su cui si innesta il nuovo.

Occorre ribadirlo soprattutto in questo tempo di tensioni polarizzanti all’interno della Chiesa tra gerarchia e comunione, tradizione e profezia, dottrina e pastorale, istituzioni e carismi, conservazione e innovazione: il Concilio ha rappresentato bensì una novità rispetto al passato, ma senza ignorare la tradizione che lo ha preceduto, radicandosi in essa. Anzi, ha distinto tra la Tradizione con la con la “T” maiuscola, che è ciò che fa vivere la Chiesa, la linfa dello Spirito suscitatrice di nuove gemme e rami sull’albero e le tradizioni mutevoli nel tempo ciò che inaridisce, si secca e muore (cfr. Yves Congar, La tradizione e le tradizioni. Saggio storico, Roma 1964). Sicché, volendo ben si potrebbe affermare che l’ultimo Concilio è stato più rispettoso e fedele alla tradizione di quanto non lo fosse stato il Vaticano I, che si limitò, in sostanza, a risalire la corrente degli ultimi 150 anni della tradizione.

Ben oltre si è spinto invece il Vaticano II, risalendo dal passato prossimo al passato remoto se non remotissimo, sino alla Chiesa nascente. Fu una scelta profetica l’appello ecumenico di Giovanni XXIII dettato dalla necessità dell’unità di fronte alla divisione delle chiese, insieme a quella di riprendere il registro pastorale per rilanciare il dialogo con il mondo in vista dell’annuncio del vangelo; riscoprendo poi, nell’interrogarsi di Paolo VI «Chiesa cosa dici di te stessa?», l’identità più profonda, carismatica e missionaria della Chiesa “inviata ad gentes. Situandosi così coraggiosamente «all’opposto esatto di quella mentalità ‒ direbbe il teologo Giuseppe Ruggeri ‒ che ha avuto paura della vastità della tradizione globale della chiesa e ha preferito non mutare il tranquillo e ristretto equilibrio del passato prossimo. La novità principale del Vaticano II è piuttosto costituita dalla considerazione stessa della storia nel suo rapporto con il vangelo e la verità cristiana. Mentre per lo più nel passato si aveva consapevolezza che la storia vissuta dagli uomini fosse ultimamente indifferente per la comprensione del vangelo (parlo di “consapevolezza”, giacché “in realtà” non è mai stato così), la grande questione del concilio Vaticano II fu invece proprio qui, anche se le parole usate (pastoralità, aggiornamento, segni dei tempi) non furono subito lucidamente compresi da tutti… Per Giovanni XXII l’annuncio del vangelo era inseparabile dal riferimento alla storia» (Per un’ermeneutica del Vaticano II, in Concilium 1 (1999), 22-23). Di qui il profondo rinnovamento della Chiesa, scaturito ‒ come ricordava sempre Giovanni XXII ‒ non già da un mutamento del vangelo, quanto da una maggiore comprensione.

Una migliore comprensione che ha riguardato anche il mistero della Chiesa, non solo immaginata idealmente in un contesto sapienziale, ma colta qual è nella propria realtà storica ed esperienziale della sua missione profetica. Il paradigma sapienziale/dottrinale è stato così assunto e integrato dal linguaggio profetico, che è poi quello della storia, intento a comprendere il senso delle ‘rotture di soglie da cui ripartire’ ‒ siano esse piccoli o grandi avvenimenti ‒ di cui è fatta la trama del tempo.

Similmente, la struttura gerarchica della Chiesa è stata ricompresa in una dimensione comunionale all’interno del popolo di Dio in attuazione della propria vocazione battesimale e chiamata a formare con l’umanità la famiglia di Dio. Lungi infatti dal ridursi a un’istituzione da governare, la Chiesa non può che essere un luogo di relazioni umane, di sequela a Cristo, di fraternità, di reciprocità nel servizio, in ascolto, anzitutto dello Spirito di Cristo che la guida e, non di meno, dell’umanità in attesa del Vangelo della gioia. Un triplice sentire: Sentire cum Christo, sentire cum ecclesia, sentire cum mundo.

È dunque immersa nella storia che la Chiesa deve continuamente pensarsi e riformarsi – “Eccleasia semper reformada”: «la Chiesa peregrinante è chiamata da Cristo a questa continua riforma di cui, in quanto istituzione umana e terrena, ha sempre bisogno» (Unitais Redintegratio, 6) ‒ affrontando le concrete contraddizioni che quotidianamente sperimenta per (ri-)trovare di continuo la sua via di fedeltà al vangelo, inteso non già in termini prescrittivi, ma come stile di comunione tra tutti i battezzati: «Da questo riconosceranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri» (Gv 13,35)».

Non sorprende allora che al Concilio si sia riscoperta la storia come “luogo teologico”, accanto alla scrittura santa e ai sacramenti. È nella storia, del resto, che Dio ha posto la sua tenda: proprio qui tra le case degli uomini, ove si fa conoscere come colui che fa proprie le vite delle sue creature, incrociando le sue vie, che non sono quelle degli uomini, con le nostre vie che è venuto a percorrere («un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto lo vide e n’ebbe compassione» cfr. Lc 10, 33).

È in questo modo che, al Concilio, ‘la verità del vangelo’ è stata interpretata e riaffermata attraverso ‘l’amore del vangelo’. Di qui la riscoperta ‘dell’ascolto della Parola di Dio’ non come in-formatrice e plasmatrice della dottrina, anche, ma primariamente quale legame che sancisce e tesse l’esistenza in alleanza, uno scambio, un mutuo riconoscimento tra un io un tu un noi, un tu che sta per tutti; un’apertura ospitale nella quale si dà e si prende la parola, in dialogo, cuore a cuore, mente a mente alleati, spalla a spalla per far riuscire la vita nella forma di un’intima comunione dell’uomo con Dio e degli uomini tra loro: «Impara a conoscere nelle parole di Dio il cuore di Dio», dice il papa Gregorio Magno.

Dentro la storia non si può che camminare insieme. Ecco allora riemergere la sinodalità ‒ che nel suo il significato primigenio, sun-odos, corrisponde a ‘strada con’, ‘camminare insieme’ ‒ la quale, come ci ricorda ancora Giuseppe Ruggeri, «è la categoria che traduce questo dinamismo della comunione, questa “somministrazione di ogni giuntura”, questa “energia di ognuno“. Essa è la “strada comune” che dobbiamo percorrere. Essa, nel rispetto dei doni di ognuno, è anteriore al bipolarismo clero-laicato» (G. Ruggeri, Sinodo di Noto).

La forma sinodale sembra allora ritornata a essere la dimensione essenziale, basilare della comunità ecclesiale: «Ciò che riguarda tutti deve essere dibattuto da tutti» (Giustiniano). Per Giovanni Crisostomo «la Chiesa ha nome sinodo». Non diversamente dalla Chiesa delle origini, informata al principio della sinodalità e della comunione, questi caratteri non possono che modellare anche il divenire della Chiesa in cammino, sino a plasmarne finanche la dottrina. Lo spunto trova autorevole avvallo nel pensiero di Gregorio Magno, il quale, nell’immagine quadriforme del Vangelo, faceva corrispondere i primi quattro grandi concili dei primi cinque secoli, volendo così attestare l’esistenza di una dimensione sinodale della “dottrina”, che non può non coinvolgere anche la liturgia, innescando un legame tra il momento eucaristico-sacramentale dell’assemblea e la sinodalità della vita ecclesiale (Cfr. Giuseppe Alberigo, Sinodo come liturgia, il Regno documenti, 13 207, 443).

Come concretamente praticare la sinodalità ce lo ha indicato Papa Francesco, che ha ripetutamente chiesto a tutte le comunità cristiane di esercitarsi e promuovere questo stile di partecipazione comunitaria sia nell’ambito pastorale sia in quello amministrativo.
Ha invitato così a fare esercizio sinodale declinando nella prassi due principi: “L’unità prevale sul conflitto” e “Il tutto è superiore alla parte” (EG 224 e 234). In particolare il primo ha come obbiettivo una comunione attraverso le differenze. La strada è «accettare di sopportare il conflitto, risolverlo e trasformarlo in un anello di collegamento di un nuovo processo». Il tutto con la grazia di quegli «operatori di pace» nel cui comportamento è dato riconoscere l’impronta evangelica (Mt 5,9).

Nel secondo principio si coglie invece la tensione tra la globalizzazione e la localizzazione. L’esercizio cui siamo chiamati è dunque quello di «allargare lo sguardo per riconoscere un bene più grande che porterà benefici a tutti noi»: mantenersi così nel proprio piccolo, restando legati alle proprie radici, senza dimenticare però l’insieme in cui confluiscono e interagiscono tutte le altre parzialità.
Emblematico è allora, sotto questo profilo, il titolo che mons. Antonio Samaritani volle dare alla storia della nostra Diocesi: La Chiesa di Ferrara nella storia della città e del suo territorio. Desiderò così declinare insieme la storia della cittadinanza e quella ecclesiale, svelarne gli intrecci solidali e le forme di partecipazione della gente comune. L’uso del termine “sinecistico”, “coabitante”, a lui così familiare ‒ indicante il processo di una vicendevole convergenza tra diversi in un’unica realtà, in modi «distinti ma non dissociati», in uno scambio reciproco e convergente ‒ si prestava a evidenziare nella nostra gente uno stile e una vocazione ad abitare insieme pur salvaguardando o integrando meglio, non senza lotte, le singolarità e le tradizioni di quanti hanno avuto origine altrove. Una sinodalità autentica, che mons. Samaritani viveva in profondità, mettendosene al servizio con l’intento di favorire la creazione e l’emersione di una “storia al plurale”.

Il tempo che la luna impiega per riallinearsi e ricongiungersi con la terra e il sole è detto rivoluzione sinodica o mese sinodico, che sta a indicare il tempo che intercorre tra un novilunio e l’altro. Insomma, camminano insieme il sole, la terra e la luna, uniti nella differenza ma accomunati, pure loro, da un’esperienza di sinodalità.
È allora significativo che un’antica tradizione, nel suo linguaggio simbolico, definisca il mistero della Chiesa ‒ chiamata a riflettere la luce di Cristo sugli uomini ‒ come Mysterium Lunae. Anche guardando in alto tra le sfere celesti si trova allora conferma che camminare insieme è la legge che governa l’universo.

PRESTO DI MATTINA, la rubrica di riflessioni di Andrea Zerbini, torna tutti i sabati su Ferraraitalia. Per leggere gli articoli precedenti, clicca [Qui]

tag:

Andrea Zerbini

Andrea Zerbini cura dal 2020 la rubrica ‘Presto di mattina’ su queste pagine. Parroco dal 1983 di Santa Francesca Romana, nel centro storico di Ferrara, è moderatore dell’Unità Pastorale Borgovado che riunisce le realtà parrocchiali ferraresi della Madonnina, Santa Francesca Romana, San Gregorio e Santa Maria in Vado. Responsabile del Centro di Documentazione Santa Francesca Romana, cura i quaderni Cedoc SFR, consultabili anche online, dedicati alla storia della Diocesi e di personaggi che hanno fatto la storia della chiesa ferrarese. È autore della raccolta di racconti “Come alberi piantati lungo corsi d’acqua”. Ha concluso il suo dottorato all’Università Gregoriana di Roma con una tesi sul gesuita, filosofo e paleontologo francese Pierre Teilhard de Chardin.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

Caro lettore

Dopo molti mesi di pensieri, ripensamenti, idee luminose e amletici dubbi, quello che vi trovate sotto gli occhi è il Nuovo Periscopio. Molto, forse troppo ardito, colorato, anticonvenzionale, diverso da tutti gli altri media in circolazione, in edicola o sul web.

Se già frequentate  queste pagine, se vi piace o almeno vi incuriosisce Periscopio, la sua nuova veste grafica e i nuovi contenuti vi faranno saltare di gioia. Non esiste in natura un quotidiano online con il coraggio e/o l’incoscienza di criticare e capovolgere l’impostazione classica di questo “il giornale” un’idea (geniale) nata 270 anni fa, ma che ha introdotto  dei codici precisi rimasti quasi inalterati. Nemmeno la rivoluzione digitale, la democrazia informava, la nascita della Rete, l’esplosione dei social media, hanno cambiato di molto le testate giornalistiche, il loro ordine, la loro noia.

Tanto che qualcuno si è chiesto se ancora servono, se hanno ancora un ruolo e un senso i quotidiani.  Arrivano sempre “dopo la notizia”, mettono tutti lo stesso titolo in prima pagina, seguono diligentemente il pensiero unico e il potente di turno, ricalcano in fotocopia le solite sezioni interne: politica interna, esteri, cronaca, economia, sport…. Anche le parole sembrano piene di polvere, perché il linguaggio giornalistico, invece di arricchirsi, si è impoverito.  Il vocabolario dei quotidiani registra e riproduce quello del sottobosco politico e della chiacchiera televisiva, oppure insegue inutilmente la grande nuvola confusa del web.

Periscopio propone un nuovo modo di essere giornale, di fare informazione. di accostare Alto e Basso, di rapportarsi al proprio pubblico. Rompe compartimenti stagni delle sezioni tradizionali di quotidiani. Accoglie e dà riconosce uguale dignità a tutti i generi e tutti linguaggi: così in primo piano ci può essere una notizia, un commento, ma anche una poesia o una vignetta.  Abbandona la rincorsa allo scoop, all’intervista esclusiva, alla firma illustre, proponendo quella che abbiamo chiamato “informazione verticale”: entrare cioè nelle  “cose che accadono fuori e dentro di noi”, denunciare Il Vecchio che resiste e raccontare Il Nuovo che germoglia, stare dalla parte dei diritti e denunciare la diseguaglianza che cresce in Italia e nel mondo. .

Con il quotidiano di ieri, così si diceva, oggi ci si incarta il pesce. Non Periscopio, la sua “informazione verticale” non invecchia mai e dal nostro archivio di quasi 50.000 articoli (disponibile gratuitamente) si pescano continuamente contenuti utili per integrare le ultime notizie uscite. Non troverete mai, come succede in quasi tutti i quotidiani on line,  le prime tre righe dell’articolo in chiaro… e una piccola tassa per poter leggere tutto il resto.

Sembra una frase retorica ma non lo è: “Periscopio è un giornale senza padrini e senza padroni”. Siamo orgogliosamente antifascisti, pacifisti, nonviolenti, femministi, ambientalisti. Crediamo nella Sinistra (anche se la Sinistra non crede più a se stessa), ma non apparteniamo a nessuna casa politica, non fiancheggiamo nessun partito e nessun leader. Anzi, diffidiamo dei leader e dei capipopolo, perfino degli eroi. Non ci piacciono i muri, quelli materiali come  quelli immateriali, frutto del pregiudizio e dell’egoismo. Ci piace “il popolo” (quello scritto in Costituzione) e vorremmo cancellare “la nazione”, premessa di ogni guerra e  di ogni violenza.

Periscopio è quindi un giornale popolare, non nazionalpopolare. Un quotidiano “generalista”,  scritto per essere letto da tutti (“quelli che hanno letto milioni di libri o che non sanno nemmeno parlare” F. De Gregori), da tutti quelli che coltivano la curiosità, e non dalle elites, dai circoli degli addetti ai lavori, dagli intellettuali del vuoto e della chiacchiera.

Periscopio è  proprietà di un azionariato diffuso e partecipato, garanzia di una gestitone collettiva e democratica del quotidiano. Si finanzia, quindi vive, grazie ai liberi contributi dei suoi lettori amici e sostenitori. Accetta e ospita sponsor ed inserzionisti solo socialmente, eticamente e culturalmente meritevoli.

Nato quasi otto anni fa con il nome Ferraraitalia già con una vocazione glocal, oggi il quotidiano è diventato: Periscopio naviga già in mare aperto, rivolgendosi a un pubblico nazionale e non solo. Non ci dimentichiamo però di Ferrara, la città che ospita la redazione e dove ogni giorno si fabbrica il giornale. e Ferraraitalia continua a vivere dentro Periscopio all’interno di una sezione speciale, una parte importante del tutto. 
Oggi Periscopio ha oltre 320.000 lettori, ma vogliamo crescere e farsi conoscere. Dipenderà da chi lo scrive ma soprattutto da chi lo legge e lo condivide con chi ancora non lo conosce. Per una volta, stare nella stessa barca può essere una avventura affascinante.  Buona navigazione a tutti.

Tutti i contenuti di Periscopio, salvo espressa indicazione, sono free. Possono essere liberamente stampati, diffusi e ripubblicati, indicando fonte, autore e data di pubblicazione su questo quotidiano.

Francesco Monini
direttore responsabile


Chi volesse chiedere informazioni sul nuovo progetto editoriale, può scrivere a: direttore@periscopionline.it