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Scrivere insieme, tessitura della vita

Due scuole: quella di Vho frazione del comune di Piàdena nella pianura cremonese e quella di Barbiana sul fianco nord del monte Giovi, a 470 metri sul mare, che guarda il Mugello e la valle della Sieve affluente dell’Arno.

Due maestri: Mario Lodi [Qui] e Lorenzo Milani [Qui], contesti scolastici diversi e geograficamente lontani, ma vicinissimi nell’arte dello scrivere e soprattutto nella scrittura collettiva. Scrivere insieme per riuscire a esprimere compiutamente quello che ciascuno è; per far uscire alla luce un tesoro nascosto di storie, di esperienze e di vite.

Scrivere insieme è attesa della parola dell’altro; è quel comunicare nello scambio di parole, provocando parole, inducendo parole, altre ancora non nate, come per corrispondenza di lettere che vanno e vengono nel tempo in cerca di risposta.

Così anche le poche parole di uno, incontrando le poche parole di un altro, parole seminate l’una nel terreno dell’altro si moltiplicano, generando fili intrecciati di una trama comune che riflette un comune cammino nella vita.

Due libri narrano queste esperienze didattiche: quella del maestro di pianura, fissata in un diario documentario dal titolo Il paese sbagliato; e quella del priore di montagna in Lettera ad una professoressa.

Nell’anno del centenario della nascita del maestro e pedagogista Mario Lodi (1922-2014) merita ricordare la leggerezza e l’empatia del suo metodo di insegnamento, che mirava a perseguire il passaggio da una scuola trasmissiva, con testi uguali per tutti, lezioni frontali da docente a discente, a una scuola interattiva che partiva dalla realtà del bambino, dal suo mondo e da qui innestava una ricerca che affrontava i problemi dei ragazzi, fino ad ampliarsi alle questioni del mondo in cui vivevano.

Esperienze comunicate poi attraverso un giornale di classe, quasi quotidiano, per lo più frutto di una scrittura collettiva. Trecento undici sono i “giornaletti” che il maestro Lodi ha realizzato con i suoi allievi della scuola elementare di Piàdena dal 1973 al 1978, e pubblicati poi in tre volumi da Laterza: Il mondo. Mario Lodi e i suoi ragazzi.

La metodologia scolastica di Mario Lodi, amico di Gianni Rodari, come lui narratore di fiabe e racconti, si ispirava alle idee di Celestino Freinet [Qui], inventore di una pedagogia popolare da attuarsi nello stile di una cooperazione educativa.

Intuizioni poi che furono sviluppate da un gruppo di insegnanti italiani che nel primo dopoguerra (1951) si riunirono in un movimento (MCE Movimento di Cooperazione Educativa), le cui finalità erano di provare a cambiare radicalmente un metodo scolastico che non poneva al centro ragazze e i ragazzi, e non li rendeva partecipi e interpreti della loro educazione, come personaggi in cerca di identità.

Di più: li costringeva con autorità a entrare in certi modelli di vita precostituiti e non corrispondenti al loro vivere, anziché aiutarli a liberare la loro creatività e capacità inventive ed espressive.

Di contro Lodi valorizzava un nuovo modello scolastico nei rapporti tra insegnanti e alunni; vedeva la scuola come strumento di emancipazione da situazioni frutto di ingiustizie e disuguaglianze sociali.

Uno stile di familiarità, di rispetto e gentilezza, pur restando esigenti e rigorosi, che lasciasse il tempo per una maturazione integrale e armoniosa della persona.

Un ambiente ed uno spazio comuni di oralità e di scrittura dove, come in un puzzle fatto a molte mani ciascuno potesse cooperare a far nascere un dire e una scrittura insieme dentro alla propria e alla vita d’altri, un senso generato e accresciuto da molti altri significati.

Fu nel 1963 che Mario Lodi salì a Barbiana per conoscere un prete strano e burbero con gli estranei. Solo due giorni stettero insieme ma per don Milani furono giorni decisivi.

Forse una nuova scoperta o una conferma all’intuizione di un modello educativo, quello dello scrivere insieme un testo a partire dalle parole che ciascuno scriveva su dei fogliettini. Da quell’incontro scaturì fra l’altro l’iniziativa di avviare una corrispondenza epistolare tra le due scuole.

Mario Lodi annotava nel suo diario dopo quell’incontro: «Quando ci arrivai, don Lorenzo e i ragazzi erano nel bosco a far lezione: il nostro incontro avvenne là. L’intervista invece avvenne sotto il pergolato.

Mi aggredirono con domande che mi fecero a pezzi. Mi chiesero se credevo che nella scuola statale, come è oggi, sia possibile per un educatore insegnare l’amore del prossimo. Loro dicevano di no, che ciò non può avvenire perché troppe suggestioni mandano in fumo quel poco di buono che i più tenaci e intelligenti educatori sarebbero in grado edificare.

Parole dure, ma facce pulite e oneste. Parlo del mio lavoro e mi ascoltano interessati, anche don Lorenzo. A pranzo parliamo del grande papa, dei tempi che si maturano e che lui non vedrà… È duro contro i preti e i maestri che, in modi diversi, formano uomini-pecore invece di uomini liberi.

Continuo a guardare quello stanzone arredato poveramente, i muri tappezzati di grafici che documentano la lotta di liberazione dei popoli dal fascismo e dal colonialismo. In un angolo c’è una carta del cielo.

La sera mi offre il suo letto e lui si ritira in una stanzetta, su una branda. La perpetua mi confida che è preoccupata per la salute del priore, perché si strapazza, non si dà riposo, non mangia. Ci lasciamo con un impegno: mettere in corrispondenza le nostre due scolaresche» (Il paese sbagliato, Diario di un’esperienza didattica, Einaudi, 1970, 457-458).

Tempo dopo, Lodi dirà di don Lorenzo che alcuni l’avevano descritto come uno che non accettava consigli, orgoglioso, mentre lui percepì il contrario durante l’esperienza di quell’incontro, anche se non avrebbe saputo dire se la svolta nel metodo pedagogico del priore fosse da attribuire ai loro discorsi o frutto della successiva lettura dei libri del MCE.

 

L’arte dello scrivere

Il 2 novembre 1963 il priore, oltre al testo collettivo dei ragazzi di Barbiana a quelli di Vho, incluse anche una sua lettera al maestro Lodi, in cui spiegava la tecnica usata e gli strumenti – la cassetta degli attrezzi – al fine di giungere ad una scrittura collettiva.

«Caro maestro, le accludo la lettera. La ringrazio d’averci proposto quest’idea perché me ne sono trovato molto bene. Non avevo mai avuto in tanti anni di scuola una così completa e profonda occasione per studiare coi ragazzi l’arte dello scrivere. Per noi dunque tutto bene anzi sono entusiasta della cosa.

Il testo che risulta da questo lavoro è composto da 823 parole. Il testo è perciò diminuito di ben 305 parole pur essendo arricchito di molti concetti nuovi.

Il lavoro di questi ultimi tre giorni è stato entusiasmante per me e per i ragazzi. Straordinaria la possibilità, in questa fase, dei più piccoli di trovare qualche volta soluzioni migliori dei grandi. Pochissima incertezza: in genere la soluzione migliore s’impone molto evidentemente alla preferenza di tutti.

Infatti, ormai che s’era stabilito cosa volevamo dire, non restava che trovare il modo migliore di dirlo e su questo in genere non c’era molto da discutere. Esiste oggettivamente una soluzione che è migliore delle altre.

In questa fase si possono studiare insieme tutti i problemi dell’arte dello scrivere: completare e semplificare. Finir di cercare quel che non si è ancor detto, cercare di dire col minimo di mezzi.

Cercare di indovinare la reazione del lettore, eliminare le ripetizioni, le cacofonie, gli attributi e le relative non restrittivi, i periodi troppo lunghi ridomandandosi all’infinito se un dato concetto è vero, se è nel suo giusto valore gerarchico, se è essenziale, se il destinatario avrà gli elementi per comprenderlo, se provocherà malintesi.

A questo punto c’è venuto fatto di cercare di eliminare anche le frasi che suonavano troppo vanitose. Ma ci siamo imposti di non farlo. L’arte dello scrivere consiste nel riuscire a esprimere compiutamente quello che siamo e che pensiamo, non nel mascherarci in migliori di noi stessi.

Del resto l’orgoglio di questi ragazzi l’ho coltivato io volutamente per anni. Quando ho davanti uno studente o un cittadino faccio di tutto per umiliarlo, levargli un po’ di sicurezza di sé. Quando ho un contadino o un operaio cerco proprio il contrario: di dargli un po’ di sicurezza di sé», (ivi, 458-459).

 

Il paese sbagliato

L’enigmatico titolo del diario scolastico di Mario Lodi Il paese sbagliato lo si comprende anche alla luce dell’espressione “sbagliando s’impara”, l’invito cioè ad adeguare, sempre di nuovo le idee, i pensieri, le parole, i comportamenti alla realtà come misura del vero.

Un far corrispondere e dunque un modificare, sottrarre o aggiungere, fermarsi e riprendere sempre di nuovo la realtà al pensare, allo scrivere al vivere, perché – direbbe papa Francescola realtà è più grande dell’idea.

Educare è misurare tutto, misurarsi continuamente con la realtà. Ma “il paese è sbagliato” anche perché la mappa che ne hanno fatto i ragazzi necessitava di continui aggiornamenti e confronti per restare un paese aperto al mondo, vivo, reale;

il paese che è fissato nei loro pensieri e nella loro descrizione frutto delle loro conoscenze è solo una parte inadeguata che necessita un confronto continuo con quello reale.

I ragazzi disegnano il loro paese sulla carta ma poi, uscendo di classe, si accorgevano di aver dimenticato delle cose che non entravano più nella mappa, così da tracciare un paese sbagliato.

Leggiamo dal testo: «La grande carta si arricchisce di altri elementi provenienti in gran parte dai testi liberi. Ma ecco che un giorno c’è un problema da risolvere tutt’altro che facile.

– Ieri sono andata in posta a spedire le lettere ai nostri amici e ho visto il giardino del Comune, – dice Cosetta. – Allora l’ho disegnato per metterlo nel paese e l’ho fatto piccolo piccolo, più piccolo della carovana degli zingari, ma li non ci sta.

– Non c’è posto, – dice Fabio. – Eh già, perché tra la chiesa e la bottega dell’Orsolina c’è la piazza e lì invece è tutto attaccato, – spiega Angelo. – Anche là, se vuoi metterci il bar, non c’è posto, – dice Carolina.

– Anche qui… – Allora il paese è sbagliato! – esclama Angelo preoccupato.

Anche gli altri sono preoccupati: infatti qui la strada è troppo lunga, là è troppo corta, qui lo spazio è tutto occupato da un edificio mentre nella realtà di cose ce ne sono parecchie. Come si fa? – Eh, già, – ripete Angelo sconsolato, – bisognava misurare tutto», (ivi, 170).

Bisogna misurare tutto: occorre fare sempre i conti con la realtà, più complessa oscura che non sta tutta nelle tue mani e nella tua testa. Si sbaglia, che è come dire si prende un abbaglio, quando non si bada, non ci si misura con la realtà. Ma sbagliando s’impara perché si cerca di nuovo una via.

Ecco ciò che insegna anche un paese sbagliato, e ripercorrendo quell’esperienza il maestro di Vho descrive poi l’itinerario che si è sviluppato da quel punto di partenza, da quell’abbaglio, passando sempre oltre in una profondità illuminata a poco a poco.

Così «dalla carta del paese sbagliato alla mappa orientata in scala, dai testi episodici al libro del paese suddiviso in capitoli al quale lavoreremo sino alla quinta classe; e poi i personaggi venuti alla ribalta a raccontare le loro storie vere: la rondine che deve partire, il fagiano di Tiberio, i coscritti, i racconti di Agostino …

Con nonno Agostino abbiamo addirittura passeggiato in su e in giù per un secolo scoprendo molte cose: che dal mal d’occhi non si guarisce portando orecchini d’oro, che la natura è un libro aperto spesso più interessante della TV, che alla guerra si può dire di no, che le leggi si possono cambiare e i re cacciare, che nella vita di un uomo è riflessa quella dell’umanità che progredisce continuamente sul piano tecnologico ma non altrettanto su quello morale.

Accenno alle numerose conversazioni che hanno accompagnato i ragazzi verso punti nodali da cui prendevano il via ricerche verso scoperte sempre più complesse. Ricordo che abbiamo costruito gli strumenti dell’osservatorio meteorologico, la mongolfiera… che abbiamo puntualmente realizzato i giornalini mensili, formato un coro insieme con altre tre classi, costituito nella nostra classe un’orchestrina.

Ma questo non è tutto: abbiamo letto e criticato il libro di lettura e il manuale, ne abbiamo riscritto alcune parti che erano stese in forma difficile, abbiamo riscritto in versi il Vangelo di Matteo che Lorena e Umberta hanno musicato, abbiamo creato molte poesie e molti canti, e tante pitture …» (ivi, 243-244).

 

Scrivere insieme è scrivere l’infinito

Un inizio senza fine. L’infinito viaggiare sulla carta per camminare insieme nella realtà. Ricorda Claudio Magris [Qui] che «il viaggio – nel mondo e sulla carta – è di per sé un continuo preambolo, un preludio a qualcosa che deve sempre ancora venire e sta sempre ancora dietro l’angolo;

partire, fermarsi, tornare indietro, fare e disfare le valigie, annotare sul taccuino il paesaggio che, mentre lo si attraversa, fugge, si sfalda e si ricompone come una sequenza cinematografica, con le sue dissolvenze e riassestamenti, o come un volto che muta nel tempo».

Così come il viaggio la scrittura ha sempre da ricominciare, come l’educazione, come la vita. Un continuo «trasloco dalla realtà alla carta – scrivere appunti, ritoccarli, cancellarli parzialmente, riscriverli, spostarli, variarne la disposizione. Montaggio delle parole e delle immagini, colte dal finestrino del treno o attraversando a piedi una strada e girando l’angolo» (L’infinito viaggiare, Milano 2005, VII-VIII).

 

Scrivere insieme è come tradurre

Scrivere insieme è come tradurre, un far passare parole di un’altra lingua, le parole dell’altro, perdurante vibrazione di note, in noi.

Scrivere come se questo
fosse opera di traduzione,
di qualcosa già scritto in altra lingua.
La parola si carica ed esita,
continua ancora a vibrare
come sulla tastiera le note tenute
sopravvivono allo staccato
e lo percorrono fino al suo tacere,
fiaccola dell’orizzonte.

(Valerio Magrelli [Qui], Poesie 1982-1992 e altre poesie, Torino 1996, 81).

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica di Andrea Zerbini, clicca [Qui]

Foto do Gero Birkenmaier da Pixabay [Qui]

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Andrea Zerbini

Andrea Zerbini cura dal 2020 la rubrica ‘Presto di mattina’ su queste pagine. Parroco dal 1983 di Santa Francesca Romana, nel centro storico di Ferrara, è moderatore dell’Unità Pastorale Borgovado che riunisce le realtà parrocchiali ferraresi della Madonnina, Santa Francesca Romana, San Gregorio e Santa Maria in Vado. Responsabile del Centro di Documentazione Santa Francesca Romana, cura i quaderni Cedoc SFR, consultabili anche online, dedicati alla storia della Diocesi e di personaggi che hanno fatto la storia della chiesa ferrarese. È autore della raccolta di racconti “Come alberi piantati lungo corsi d’acqua”. Ha concluso il suo dottorato all’Università Gregoriana di Roma con una tesi sul gesuita, filosofo e paleontologo francese Pierre Teilhard de Chardin.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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