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La corsa iniziò nel 1950 e allora sembrava ancora una tranquilla passeggiata; poi tutti iniziarono a camminare a passo spedito lungo una stessa direzione, alcuni più veloci altri più lenti. Dopo venti anni la corsa era diventata veloce e a qualcuno venne il dubbio che la direzione non fosse quella giusta; alcuni pensarono bene di rallentare, fermarsi o cambiare direzione.
Dopo trenta ci fu chi nella massa ancora piuttosto compatta dei consumatori prese propriamente a galoppare e gli altri dietro, ad inseguire. Per quasi venti anni ulteriori la corsa proseguì ciecamente al punto che sembrava impossibile ed insensato fermarsi; poi diventò spietata: le persone in preda al panico sgomitavano ed usavano ogni mezzo per rimanere in piedi e stare nella mandria impazzita, arrancando. Sempre più persone travolte rimanevano a terra, mentre quelli in fuga, ormai, guardavano solo in avanti, spinti da una oscura paura più che attratti da un sogno luminoso.
Intanto la fama e la fame del consumo si era diffusa ai quattro angoli del mondo, sulle ali delle trombe e delle voci che ne decretavano il pieno e assoluto trionfo. Tra i molti che si accorgevano di essere stati esclusi dalla gara, alcuni guardavano con un certo distacco, altri con invidia, i più cercavano in ogni modo di gettarsi nella mischia per accaparrarsi qualcosa; arrivavano con ogni mezzo e a piedi nudi iniziavano la loro sfida personale e disperata.
Pochi spettatori che da qualche tempo si erano isolati ed osservano gli accadimenti, lanciavano grida di allarme che continuano tuttora: ma il grosso ormai non può più sentire e trotta, dicono quelli, verso l’abisso. Da tempo molti si sono fermati sfiancati con le scarpe rotte, altri si guardano in giro alla ricerca di percorsi diversi, perché, oscuramente hanno iniziato a capire che non c’è più un unica direzione da seguire, che la libertà di consumare non è propriamente una liberazione; girano perfino voci che tutto fosse truccato. Intorno ai più arditi si sono raccolti gruppi di esploratori mentre una gran massa prosegue ancora la sua corsa in una nuvola di polvere che già nasconde i partecipanti alla vista.

Oggi, dopo sessant’anni di consumismo sfrenato i più hanno perso le coordinate, tanti procedono per inerzia; tantissimi non riescono più a mantenere lo standard e si interrogano, si arrovellano con gran rumori di pancia per trovare una causa, individuare un colpevole. Sfatto e moralmente imbolsito, il consumatore compulsivo, incattivito ed indifferente a tutto, ha un prodotto per ogni sua patologia che un sistema instancabile costantemente scopre e puntualmente diagnostica. La linea della normalità è sfumata nel discorso sempre contraddittorio di esperti ben pagati e sempre in conflitto. Guru improbabili e profeti commerciali offrono a pagamento soluzioni stupefacenti. Tutti sono iper connessi e per questo implacabilmente soli, molti oscillano dall’esaltazione alla disperazione sempre alla ricerca di un equilibrio a pagamento. Dietro alle facce sorridenti e ai ruoli si stenta a riconoscere la persona. Qua e là affiorano però quelle che sembrano essere perle di saggezza vera e gratuita.

Qualcuno sostiene che bisogna cambiare paradigma personale: rinunciare a voler essere i primi e decidere, una volta per tutte, di essere unici. Una pressione implacabile inesorabilmente cresciuta negli anni, spinge ad una competizione esasperata per primeggiare, per arricchire e per poter esibire i segni distintivi del consumo vistoso che attestano il successo. Ma più si accetta questo tipo di condizionamento sociale, che non fa affatto parte della natura umana come si vorrebbe far credere, più si sposta l’attenzione sul fuori di da sé, più si perde il contatto con l’unicità del mondo interiore, con le dimensioni umane più genuine, con la fonte assolutamente personale della felicità.

Qualcuno sostiene che la vita sociale comporti necessariamente dei ruoli ma che mai, in nessun caso, si debba ridurre sé stessi ad un ruolo o a una somma di ruoli. La medesima pressione ha convinto milioni di persone a percepirsi prima e a viversi poi come consumatori, clienti, pazienti; insomma come destinatari di servizi e fruitori di beni. Sono venuti meno ruoli che sembravano consolidati: padre, madre, figlio, figlia richiedono ormai l’aiuto degli esperti per poter essere correttamente definiti. Il ruolo di cittadino è stato surrogato da quello di un portatore di diritti formali. Così, nel gran teatro del mondo molti non riconoscono più una loro identità profonda; l’ottusa certezza del “sapere chi sono”, che derivava dall’essere parte di una società rigida e stabile, di comunità chiuse, è andata in frantumi e con essa la tranquillità interiore di molte persone. Tolte le maschere una alla volta, resta il dubbio inquietante sull’identità dell’attore; e resta la sfida, enorme, dell’imperativo socratico “conosci te stesso!”.

Qualcuno sostiene che, malgrado i problemi del lavoro, la felicità consiste nel fare per mestiere quello che si farebbe per amore. La corsa al consumo e il mantenimento della maschera sociale dominante richiedono soldi in misura crescente con le ambizioni personali di successo e dominio. Impegnare la propria vita per questo tuttavia, distoglie dal momento presente – l’unico luogo dove si può esperire la felicità – spostando l’attenzione su obiettivi futuri, compiti obblighi da ottemperare obtorto collo. Non così per le cose che si ama fare: contengono in se stesse il motivo della gratificazione che si prova nel farle. Senza distinzione di attività, la semplice attenzione per ogni piccola cosa, la presenza in ogni atto è fonte di felicità.

Qualcuno sostiene che la mente sia stata ridotta alla ragione calcolante umiliandone di fatto e distorcendone le potenzialità. Che quella che chiamiamo coscienza sia stata fatta coincidere con il senso comune. Il pensiero nella maggioranza delle persone è involontario, automatico e ripetitivo; la voce nelle nostre teste ha una vita propria che spesso coincide con i discorsi che si sentono li fuori. Bisogna liberarsi di questa schiavitù scoprendo e liberando le potenzialità del corpo, delle emozioni e della mente; entrare in connessione profonda con il prossimo e con la natura di cui indubitabilmente siamo parte.

Qualcuno sostiene che la scienza e la tecnologia siano in gran cosa ma che, da sole, non possono risolvere il dilemma umano; esse piuttosto spingono a coltivare l’intuizione e ad evolvere spiritualmente man mano che diventano capaci di sostituire il lavoro fisico ed intellettuale che si pensava essere l’attributo qualificante e distintivo dell’essere uomini e donne civili.

Qualcuno sostiene che serve come il pane una nuova consapevolezza, uno sguardo sincronico capace di abbracciare l’intero sistema senza perdersi nelle sue componenti, per capire che nulla può essere separato e fatto funzionare senza conseguenze per le altre parti con cui è in relazione. L’informazione segue le sue vie che sono ormai quelle esclusive della manipolazione: per far comprare, per far accettare un sistema i cui vizi sono conclamati, per convincere a fare delle cose e non altre, per legittimare una cosa e delegittimarne un’altra, sempre e comunque per rispondere alle tattiche e alle strategie dei poteri dominanti, in un gioco assurdo che sposta verso un astrazione crescente che allontana dalla realtà, dai corpi e dalla terra. Nessuna informazione è in grado di restituire questa consapevolezza in assenza di un impegno e di un forte lavoro interiore.

Qualcuno sostiene che fuori da questo non può esserci responsabilità e che proprio la responsabilità di ogni singolo essere umano è la cosa oggi più importante. L’indifferenza e il calcolo dell’interesse di breve periodo sono i peccati più gravi quando diventano comportamento comune. Meglio seguire la regola aurea: “fai agli altri quello che vorresti che essi facessero a te”.

Qualcuno sostiene che bisogna alzare lo sguardo, contemplare ed imparare l’arte sottile e quanto mai necessaria del discernimento, quella qualità consapevole che consente di giudicare, valutare, distinguere rettamente ciò che è bene e ciò che è male all’interno di un contesto complesso e profondamente umano.

Il fumo e la polvere si diradano un poco intorno alla gran massa dei consumatori galoppanti, ciechi credenti nel dio del denaro e della crescita infinita: sembra che qualcuno abbia visto le stelle, circola persino voce che di correre forsennatamente picchiandosi con gli altri non ci sia più bisogno…

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Bruno Vigilio Turra

È sociologo laureato a Trento. Per lavoro e per passione è consulente strategico e valutatore di piani, programmi e progetti; è stato partner di imprese di ricerca e consulenza e segretario della Associazione italiana di valutazione. A Bolzano ha avuto la fortuna di sviluppare il primo progetto di miglioramento organizzativo di una Procura della Repubblica in Italia. Attualmente libero professionista è particolarmente interessato alle dinamiche di apprendimento, all’innovazione sociale, alle nuove tecnologie e al loro impatto sulla società. Lavora in tutta Italia e per scelta vive tra Ferrara e le Dolomiti trentine.

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Caro lettore

Dopo molti mesi di pensieri, ripensamenti, idee luminose e amletici dubbi, quello che vi trovate sotto gli occhi è il Nuovo Periscopio. Molto, forse troppo ardito, colorato, anticonvenzionale, diverso da tutti gli altri media in circolazione, in edicola o sul web.

Se già frequentate  queste pagine, se vi piace o almeno vi incuriosisce Periscopio, la sua nuova veste grafica e i nuovi contenuti vi faranno saltare di gioia. Non esiste in natura un quotidiano online con il coraggio e/o l’incoscienza di criticare e capovolgere l’impostazione classica di questo “il giornale” un’idea (geniale) nata 270 anni fa, ma che ha introdotto  dei codici precisi rimasti quasi inalterati. Nemmeno la rivoluzione digitale, la democrazia informava, la nascita della Rete, l’esplosione dei social media, hanno cambiato di molto le testate giornalistiche, il loro ordine, la loro noia.

Tanto che qualcuno si è chiesto se ancora servono, se hanno ancora un ruolo e un senso i quotidiani.  Arrivano sempre “dopo la notizia”, mettono tutti lo stesso titolo in prima pagina, seguono diligentemente il pensiero unico e il potente di turno, ricalcano in fotocopia le solite sezioni interne: politica interna, esteri, cronaca, economia, sport…. Anche le parole sembrano piene di polvere, perché il linguaggio giornalistico, invece di arricchirsi, si è impoverito.  Il vocabolario dei quotidiani registra e riproduce quello del sottobosco politico e della chiacchiera televisiva, oppure insegue inutilmente la grande nuvola confusa del web.

Periscopio propone un nuovo modo di essere giornale, di fare informazione. di accostare Alto e Basso, di rapportarsi al proprio pubblico. Rompe compartimenti stagni delle sezioni tradizionali di quotidiani. Accoglie e dà riconosce uguale dignità a tutti i generi e tutti linguaggi: così in primo piano ci può essere una notizia, un commento, ma anche una poesia o una vignetta.  Abbandona la rincorsa allo scoop, all’intervista esclusiva, alla firma illustre, proponendo quella che abbiamo chiamato “informazione verticale”: entrare cioè nelle  “cose che accadono fuori e dentro di noi”, denunciare Il Vecchio che resiste e raccontare Il Nuovo che germoglia, stare dalla parte dei diritti e denunciare la diseguaglianza che cresce in Italia e nel mondo. .

Con il quotidiano di ieri, così si diceva, oggi ci si incarta il pesce. Non Periscopio, la sua “informazione verticale” non invecchia mai e dal nostro archivio di quasi 50.000 articoli (disponibile gratuitamente) si pescano continuamente contenuti utili per integrare le ultime notizie uscite. Non troverete mai, come succede in quasi tutti i quotidiani on line,  le prime tre righe dell’articolo in chiaro… e una piccola tassa per poter leggere tutto il resto.

Sembra una frase retorica ma non lo è: “Periscopio è un giornale senza padrini e senza padroni”. Siamo orgogliosamente antifascisti, pacifisti, nonviolenti, femministi, ambientalisti. Crediamo nella Sinistra (anche se la Sinistra non crede più a se stessa), ma non apparteniamo a nessuna casa politica, non fiancheggiamo nessun partito e nessun leader. Anzi, diffidiamo dei leader e dei capipopolo, perfino degli eroi. Non ci piacciono i muri, quelli materiali come  quelli immateriali, frutto del pregiudizio e dell’egoismo. Ci piace “il popolo” (quello scritto in Costituzione) e vorremmo cancellare “la nazione”, premessa di ogni guerra e  di ogni violenza.

Periscopio è quindi un giornale popolare, non nazionalpopolare. Un quotidiano “generalista”,  scritto per essere letto da tutti (“quelli che hanno letto milioni di libri o che non sanno nemmeno parlare” F. De Gregori), da tutti quelli che coltivano la curiosità, e non dalle elites, dai circoli degli addetti ai lavori, dagli intellettuali del vuoto e della chiacchiera.

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