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Come molti ho visto le recenti esibizioni dell’onorevole Vittorio Sgarbi, in Parlamento e non solo. Non posso non riconoscermi nel civile intervento, su questa testata, della dottoressa Paola Peruffo e, insieme a lei, ‘stigmatizzare’ e osservare come i ruoli ricoperti “mal si conciliano con gli incarichi istituzionali e l’ambito culturale di cui Ferrara è emblema”.
Mi sia consentito di dissentire dall’elenco delle presunte qualità che la dottoressa Peruffo attribuisce al politico ferrarese.
La ‘storia dell’arteè una disciplina accademicamente giovane, In Italia intorno alla metà del secolo scorso ha prevalso un modo di analisi che evitava ricostruzioni di contesto, ricerca di archivio, analisi dei materiali per porsi in diretto e descrittivo rapporto con l’opera. L’occhio del ‘conoscitore’ era lo strumento privilegiato. Ne sono stati esponenti importanti maestri, cito per tutti Roberto Longhi, e sono state ottenute acquisizioni significative.

Ogni cosa è degenerata in ‘maniera’ negli epigoni i quali si sono fatti divulgatori scaricando sul dipinto la propria capacità affabulatoria e la conoscenza del pubblico a cui si rivolgevano. Il risultato è una volgarizzazione priva di conoscenza specifica che diffonde luoghi comuni vecchi e con non documentata relazione con l’opera di cui si parla. In questa schiera, un tempo folta ma ormai sempre più rarefatta, rientra l’onorevole Sgarbi. Ogni volta che ha tentato di ottenere una cattedra universitaria le commissioni giudicatrici lo hanno considerato non idoneo. Fanno fede i verbali. Così la sua assenza dal citation index testimonia la sua non appartenenza alla comunità scientifica.
Non è una colpa, naturalmente, ma contraddice fortemente le sue autoattribuzioni.

È opportuno uscire da indicazioni generiche per temi specifici; ne propongo due ferraresi.Nella sua doppia qualità di presidente della Fondazione Canova’di Possagno e di Ferrara Arte, in una presentazione televisiva, ha spiegato che Canova era morto a Roma e che era grande amico dello scultore ferrarese Leopoldo Cicognara. Suo impegno di presidente sarebbe stato quello di promuovere una iniziativa espositiva che mettesse a confronto queste due personalità.
Non so che fine abbia fatto la proposta. Ricordo che Canova non è morto a Roma ma a Venezia e il luogo della sua morte è stato sottolineato, a partire dai contemporanei sino ad oggi, come emblematico del prevalere veneziano su ogni forma di arte. Tiziano e Canova i due punti di riferimento. Quanto a Leopoldo Cicognara, realmente amico di Canova, non fu scultore ma è autore di una storia della scultura.

Francesco del Cossa: ritratto di Leon Battista Alberti, Ferrara, palazzo Schifanoia

A Ferrara, giustamente, si è dato molto risalto alla riapertura del Museo di Schifanoia e alla possibilità di rivedere, dopo gli anni della chiusura, gli affreschi del Salone dei Mesi. Su un quotidiano nazionale, il 16 giugno 2020, il dottor Sgarbi ne illustra caratteristiche e qualità. Parla del ciclo come “concepito da Francesco del Cossa” e continua narrando la un po’ invecchiata favola dell’artista genio incompreso che si vede rifiutato ogni riconoscimento e che, di conseguenza, abbandona Ferrara per trasferirsi a Bologna.
Peccato non sia vero. Quella del Cossa è una bottega fra le altre; il duca rifiuta ogni regalia per applicare il compenso previsto dal contratto. Il pagamento avviene per metri eseguiti. Ciò significa che un progettista esterno fornisce gli elementi strutturali e i temi: le botteghe debbono eseguire. Lo testimoniano l’uso dei cartoni che tutte le botteghe utilizzano affinchè l’immagine del duca, a piedi o a cavallo, non subisca variazioni. Lo attesta l’uso nella sala della prospettiva albertiana alla quale tutti si adeguano ed è segnata dalle lesene. Scelta che viene confermata dal ritratto di Leon Battista Alberti presente nel mese di marzo, nella fascia superiore.
La citazione della figura di Ercole de’ Roberti non tiene conto del fatto che, per ragioni anagrafiche, molti studiosi lo danno assente da Schifanoia e comunque non in rapporto di discepolanza con il Cossa.

Viene naturalmente ignorata l’ampia bibliografia che, in questi ultimi anni, ha indagato il ciclo e ne ha reso con compiutezza la affascinante consistenza.
Ricordo, affastello un poco di nomi, gli studi di Luciano Cheles, Stefania Macioce, Manuela Incerti, Marco Bertozzi, Charles Rosenberg, Vincenzo Farinelli, Aby Warburg, Massimo Cacciari, Eugenio Battisti, Kristen Lippincott, Luisa Ciammitti, Claudia Cieri Via, Ebherard Ruhmer, Hannemarie Ragn Jensen, Marco Folin, Jadranka Bentini, Janie Anderson, Werner Gundersheimer, Lionello Boccia, Eliana Carrara, Marcello Toffanello. Qualche nome mi è certamente sfuggito.

Un articolo di quotidiano non è la sede per un apparato di note e per completezza di bibliografia, ma si può pretendere che vengano esposti i risultati e le acquisizioni critiche, le ipotesi che si sono nel tempo confrontate: i temi che consentono conoscenza e consapevolezza.
Bisognava ricordare che la cultura della corte è francofona. Lo dimostra la biblioteca, composta in prevalenza da romanzi cavallereschi, ripetutamente ceduti in prestito. La sala è costruita come quella magica, senza porte né finestre, in cui si ritrova rinchiuso Lancillotto. Lo testimoniano i portelloni lignei, dipinti, esistenti ancora nell’ottocento, che chiudevano ogni apertura. I portelloni trasferivano all’esterno, in facciata del palazzo, le immagini degli affreschi circondati dalla decorazione geometrica del prospetto.

Ferrara, Palazzo Schifanoia, Ciclo dei Mesi: ricostruzione prospettica

Il ciclo è dedicato al buon governo, è in diretto collegamento con la adiacente sala delle Virtù. La Giustizia sovrintende all’ingresso di Borso che da quella sala viene e che è sempre, in qualunque momento, al fianco dei presenti. L’immagine viene ripetuta attraverso i cartoni. Molti dei cortigiani sono stati identificati. Riconosciuta la struttura prospettica è stato possibile ricostruire gli spostamenti necessari per vedere gli affreschi. Lo spettatore è obbligato a un percorso e a movimenti che lo devono rendere partecipe di quell’età dell’oro realizzata sotto il governo di Borso.

Le citazioni dalla mitologia sono continue, ma non mancano accenni alla religiosità cristiana. I tappeti sono stati riconosciuti. La moda e i costumi delle dame derivano da quelli della corte imperiale. Molto altro si potrebbe dire ma non ve ne è traccia nello scritto del dottor Sgarbi.

Cossa non ha alcun ruolo nel progetto, nel programma, nella organizzazione dello spazio.

Aggiungo una considerazione sulla “illuminazione emozionante e progressiva”. Non so, al di là del giudizio encomiastico, quale sia la parte sostenuta dall’onorevole Sgarbi.
Tutto il progetto non tiene conto dell’unitarietà del complesso, della costruzione albertiana e privilegia aneddoti e momenti separati e irrelati fra loro. Un esempio paradigmatico di come si altera la comprensione di un’opera.
Cosa può proporre una classe politica che si lascia affascinare da semicultura, approssimazione e luoghi comuni?

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Ranieri Varese


Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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